Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 33479 Anno 2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2350/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in ROMA INDIRIZZO
pec:
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME ed elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo in ROMA INDIRIZZO
pec:
–controricorrente-
nonchè contro RAGIONE_SOCIALE
Civile Ord. Sez. 3 Num. 33479 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
-intimata-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 7398/2021 depositata il 09/11/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell ‘ 11/07/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
Rilevato che:
La società RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, NOME COGNOME allegando: di aver preso in locazione un immobile ad uso commerciale, di proprietà del convenuto, sito in Roma in INDIRIZZO destinato all’esercizio dell’attività di ristorazione, birreria, rosticceria, pizzeria fast food , come ben noto al proprietario che aveva autorizzato l’installazione di canne fumarie; di aver ottenuto autorizzazione verbale, dall’amministratore del condominio, per l’installazione delle canne fumarie; di aver provveduto alla loro installazione ma di aver appreso, dopo pochi giorni, che le canne fumarie erano state danneggiate da ignoti; che il Comune di Roma ne aveva ingiunto la rimozione per mancanza del preventivo permesso della Sopraintendenza per i beni architettonici; che, installata una canna fumaria a carboni attivi, non aveva potuto utilizzare il forno a legna e per di più era venuta a conoscenza del fatto che, pur essendo indicato in contratto l’immobile nella sua interezza, con un piano terra di mq 62 ed un piano interrato di mq 119, il solo il piano terra aveva la classificazione per l’esercizio dell’attività commerciale mentre il piano interrato ne era privo.
Tutto ciò premesso, la ricorrente chiese che il contratto di locazione fosse dichiarato risolto per fatto e colpa del locatore e che il medesimo fosse condannato al risarcimento del danno per l’importo di € 215.339,00 e alla restituzione dei canoni pagati in eccedenza dal mese di agosto 2011; in subordine chiese di accertare il diritto di essa conduttrice al pagamento di un canone ridotto, da determinarsi previa CTU e la condanna del locatore alle spese sostenute per l’acquisto e l’installazione della canna fumaria.
Il COGNOME nel costituirsi in giudizio, resistette alle domande e propose domanda riconvenzionale, nei confronti della società attrice, per sentir accertare l’inadempimento contrattuale della conduttrice agli obblighi assunti con il
contratto di locazione, tra cui l’avvenuta sublocazione alla società RAGIONE_SOCIALE e per sentir pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento della stessa conduttrice; invocò, a sostegno della domanda riconvenzionale, l’art. 7 del contratto con il quale la parte conduttrice aveva dichiarato di aver esaminato i locali e di averli trovati idonei all’uso assumendosi l’onere di ottenere tutte le autorizzazioni necessarie per l’esercizio dell’attività.
Il Tribunale adito rigettò sia la domanda principale sia quella subordinata della conduttrice che la riconvenzionale del locatore, ritenendo che l’autorizzazione all’installazione delle canne fumarie fosse subordinata all’approvazione, da parte del condominio, e che in ogni caso l’onere di ottenere le autorizzazioni fosse a carico della società conduttrice, non avendo il locatore assunto alcuna obbligazione in tal senso.
La conduttrice propose appello lamentando che il Tribunale avesse omesso di rilevare che il locatore non aveva alcun potere dispositivo sulle parti comuni, interne al fabbricato, tanto da non poter autorizzare alcuna installazione, subordinata all’approvazione del condominio e che, in ogni caso, il locatore non aveva collaborato con il conduttore; con il secondo motivo di appello lamentò un vizio motivazionale per aver ritenuto la destinazione d’uso del solo locale commerciale di mq 62 e non anche del locale interrato anch’esso destinato ad attività commerciale.
Il COGNOME, nel costituirsi in giudizio, propose appello incidentale lamentando che il diniego del condominio fosse causato dagli inadempimenti della conduttrice, sia con riferimento alla regolarità amministrativa della canna fumaria sia all’immissione di fumi ed odori.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 7398 del 9/11/2021, ha rigettato l’appello principale e dichiarato improcedibile l’incidentale, ritenendo che il conduttore aveva dichiarato di aver esaminato i locali oggetto della locazione e di averli trovati idonei all’uso per il quale era stipulato il contratto e che gli stessi locali erano destinati ad un intervento radicale di ristrutturazione per poter essere adibiti al loro uso commerciale, con cura ed onere del conduttore di eseguire tutte le opere necessarie, di installare le canne fumarie a
condizione dell’approvazione del condominio e di ottenere tutte le concessioni, autorizzazioni e licenze amministrative; con assunzione pertanto, da parte della conduttrice, del rischio economico legato all’eventuale impossibilità di utilizzazione dell’immobile per la mancata acquisizione dei titoli amministrativi. La corte territoriale ha altresì ribadito che la locatrice non aveva assunto contrattualmente alcuno specifico obbligo in ordine al rilascio dei titoli amministrativi, che la mancanza di detti titoli non era dipesa da caratteristiche proprie dell’immobile e che la conduttrice era comunque rimasta nella disponibilità del medesimo fino alla scadenza del contratto; conclusivamente ha escluso la sussistenza dei presupposti per la risoluzione del contratto di cui all’art. 1578 c.c. non essendovi stata alcuna assunzione di specifica obbligazione da parte del locatore in ordine all’acquisizione dei permessi necessari.
Avverso la sentenza la società RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Resiste NOME COGNOME con controricorso.
il Consigliere Delegato ha formulato una proposta di definizione anticipata del ricorso nel senso qui di seguito riportato:
‘il primo motivo è inammissibile: lungi dal far emergere una erronea qualificazione giuridica della fattispecie, in relazione al disposto dell’evocato art. 1578 c.c., impinge esclusivamente nella ricognizione della stessa, in astratto sindacabile solo sul piano della motivazione, nei limiti del vizio rilevante ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.; il secondo motivo è inammissibile per analoghe considerazioni: la violazione del principio di buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto, è dedotta sulla base di una ricognizione fattuale che non trova alcun riscontro in sentenza ed è peraltro prospettata con riferimento a fatti o documenti dei quali, in massima parte, si offre una indicazione inosservante degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 c.p.c.; il terzo motivo è inammissibile sotto vari profili: anzitutto per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dei documenti sui cui esso si fonda (visura catastale allegata al contratto di locazione; concessione in sanatoria rilasciata in data 16/11/2017;
comunicazione dell’Asl dell’11/8/2011); in secondo luogo per la mancata illustrazione della decisività dei fatti in tesi documentati da dette fonti, illustrazione tanto più necessaria a fronte delle considerazioni, svolte in sentenza, circa le diverse convergenti ragioni, non imputabili ad inadempimento del locatore, che hanno determinato l’inutilizzabilità dell’immobile per gli scopi perseguiti dalla conduttrice’.
La ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso.
Il P.G. ha formulato conclusioni scritte nel senso dell’accoglimento del ricorso.
Il ricorso è stato assegnato per la trattazione in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380bis. 1 c.p.c.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che:
la parte controricorrente ha eccepito il difetto di interesse al ricorso in quanto la Tavernetta ha comunque esercitato il diritto di recesso dal contratto per giusta causa ed ha riconsegnato l’immobile al locatore, così da non essere più titolare di alcun interesse al ricorso.
L’assunto è privo di fondamento, atteso che il rilascio dell’immobile non fa venire affatto meno l’interesse alla decisione sull’esistenza della causa di risoluzione del contratto oggetto dell’azione esercitata dalla ricorrente.
In secondo luogo, la parte controricorrente ha prodotto una sentenza del Tribunale di Roma, sopravvenuta al ricorso, che avrebbe dichiarato risolto il contatto per inadempimento della ricorrente, ma non ha documentato se è passata in cosa giudicata. In ogni caso, il deposito è tardivo ai sensi dell’art. 372, secondo comma, c.p.c. nuovo testo, giacché non avvenuto quindici giorni prima dell’adunanza.
Con il primo motivo di ricorso – deducente violazione e falsa applicazione dell’art. 1578 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. – si lamenta che la sentenza impugnata non ha considerato che, al momento della sottoscrizione del contratto di locazione, riguardo al locale seminterrato, era stata soltanto presentata istanza di condono, sicché il bene non aveva le caratteristiche proprie per
ottenere il cambio di destinazione d’uso. Da ciò si desume che il mancato rilascio delle autorizzazioni sarebbe dipeso da un vizio intrinseco dell’immobile taciuto dal locatore, con la conseguente violazione, da parte della corte del merito, dell’art. 1578 c.c. per non aver considerato che la mancanza dei titoli amministrativi, necessari allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, era riconducibile a fatto e colpa del locatore.
Il motivo è inammissibile perché prospetta la denunciata violazione e falsa applicazione della norma solo all’esito di una sollecitazione a rivalutare circostanze fattuali, riguardo alle quali nemmeno rispetta l’art. 366 n. 6 c.p.c. quanto all’onere di indicazione specifica degli atti su cui si fonda.
Il motivo, sotto il primo aspetto, non osserva le condizioni richieste dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui ‘Nel ricorso per cassazione, il vizio di violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., giusta il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione’ (Cass, 3, n. 20870 del 26/7/2024, Cass., 6-3, n. 16038 del 26/6/2013).
Con il secondo motivo – deducente violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1374, 1375 e 1362 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. – si lamenta che la corte territoriale non ha considerato che l’aver concesso l’autorizzazione, da parte del locatore, all’installazione della canna fumaria comportava necessariamente il potere dispositivo sulla cosa atteso che, diversamente, sarebbe stata tamquam non esset, e soprattutto avrebbe consentito al conduttore di esercitare i diritti e le azioni spettanti al proprietario ai sensi dell’art. 1102 c.c. Nel sostenere la necessità dell’autorizzazione da parte del condominio la corte avrebbe disatteso i poteri del proprietario. Inoltre, non
avrebbe considerato la violazione, da parte del medesimo proprietario, dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.
Il motivo è inammissibile perché, come condivisibilmente ritenuto dalla proposta, la violazione del principio di buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto, è dedotta sulla base di una ricognizione fattuale che non trova alcun riscontro in sentenza.
Per mera completezza si aggiunge, invece, che la valutazione del Consigliere delegato sul secondo motivo non appare condivisibile quanto alla seconda ragione di inammissibilità, quella prospettata per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c., in quanto il requisito di autosufficienza risulta soddisfatto dal ricorso.
Trattandosi di un rilievo meramente aggiuntivo esso non è tale da incidere sulla sostanziale adesione del Collegio alla proposta di inammissibilità del secondo motivo.
Con il terzo motivo di ricorso – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – il ricorrente lamenta che la corte del merito ha fondato la propria decisione sulla visura catastale allegata al contratto di locazione (ove l’immobile è contraddistinto come C1) assumendo che da tale documento sarebbe derivata la consapevolezza della conduttrice dell’inidoneità dei locali all’uso convenuto, con la conseguenza dell’assunzione dei relativi rischi, senza considerare, invece, che proprio l’indicazione catastale non corrispondente alla realtà – essendo C1 la sola porzione del piano terra e non anche quella interrata – aveva indotto la conduttrice a stipulare il contratto.
Come condivisibilmente ritenuto dalla proposta, il terzo motivo è inammissibile sotto vari profili: anzitutto per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dei documenti sui cui esso si fonda (visura catastale allegata al contratto di locazione; concessione in sanatoria rilasciata in data 16/11/2017; comunicazione dell’Asl dell’11/8/2011); in secondo luogo per la mancata illustrazione della decisività dei fatti in tesi documentati da dette fonti, illustrazione tanto più necessaria a fronte delle considerazioni, svolte in sentenza, circa le diverse convergenti ragioni, non imputabili ad inadempimento del locatore, che hanno determinato l’inutilizzabilità dell’immobile per gli scopi perseguiti dalla conduttrice.
Il Collegio ritiene anche, nel confermare la proposta del consigliere delegato dichiarando l’inammissibilità del ricorso, di dissentire dalla tesi del P.G., che – ignorando e disinteressandosi dei profili di inammissibilità delle censure prospettati nella proposta – ha sostenuto che il ricorso sarebbe da accogliere per non avere la corte territoriale <.
La tesi non solo non chiarisce come e perché e che cosa giustificherebbe lo scrutinio proposto, ma, inoltre, indulge in un’affermazione circa la non esatta percezione dei fatti, che è confessoria del carattere del tutto inidoneo della censura a valere quale mezzo di impugnazione secondo quanto correttamente indicato dalla proposta di definizione del relatore.
Conclusivamente il ricorso è dichiarato inammissibile, e la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di cassazione, anche ai sensi dell’art. 96, 3° e 4° comma c.p.c., liquidate come in dispositivo.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di una somma, a titolo di contributo unificato, pari a quella versata per il ricorso, se dovuta.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione in favore della parte controricorrente, che liquida in € 4.500 (oltre € 200 per esborsi), più accessori e spese generali al 15%, e in € 2.000 ai sensi dell’art. 96, 3° co. c.p.c.; la condanna altresì al versamento di € 1000 alla Cassa per le ammende.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile