Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27439 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 27439 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/10/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 7243/2018 R.G. proposto da:
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME AVV_NOTAIO (CODICE_FISCALE) ; -controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 1764/2017, depositata il 31/07/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del l’ 8/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
Sentito il Pubblico Ministero, il sostituto procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Sentito il difensore della controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. La società RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ha proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Torino avverso il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 205/2012 emesso dal Tribunale di Pinerolo il 13 aprile 2012, per euro 376.086,36, su istanza della RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE (di seguito RAGIONE_SOCIALE), a titolo di saldo del corrispettivo del contratto di cessione di ramo d’azienda, avente ad oggetto le case di riposo RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE Borgo d’Ale e RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di Salussola. L’opponente ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo, in quanto nessuna somma era da essa dovuta per le seguenti ragioni: la RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE (poi incorporata da RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE) aveva ceduto il ramo d’azienda riguardante una delle due case di riposo, senza esserne proprietaria, avendo l’opponente scoperto che l’azienda era di proprietà di un terzo (l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE); il corrispettivo della cessione era stato convenuto in euro 200.000 a titolo di avviamento, che andava ridotto appunto in quanto la cedente non era proprietaria di una delle case di riposo, ed euro 581.147,60, pari al valore delle attività della azienda ceduta, valore delle attività in relazione alle quali era stata inserita la somma di euro 436.333 a titolo di fatture da emettere per un credito nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, credito che non era stato riconosciuto e per il quale RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE non aveva emesso le relative fatture, così impedendo all’opponente di recuperare tali somme; il ramo d’azienda ceduto era poi privo degli adeguamenti
richiesti dalle norme in materia di sicurezza e l’opponente aveva dovuto sostenere spese al riguardo per euro 893.432; l’opponente aveva quindi un credito restitutorio pari a euro 1.055.778,64; RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE aveva inoltre arrecato danni quantificabili in euro 2.250.000 a seguito di reiterate procedure esecutive in un diverso contenzioso. L’opponente ha quindi chiesto, in via riconvenzionale, la condanna dell’opposta alla restituzione di tutte le somme indebitamente riscosse, nonché di quelle relative alle spese per la messa a norma degli edifici, oltre al risarcimento dei danni. Si è costituita in giudizio RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, contestando le ragioni poste a fondamento dell’opposizione e chiedendone la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto.
Il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 197/2015, ha rigettato l’opposizione e la domanda riconvenzionale di restituzione; ha dichiarato inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno.
Avverso la predetta sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto appello e ha resistito RAGIONE_SOCIALE. La Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 1764/2017, ha rigettato il gravame e ha confermato integralmente la sentenza impugnata.
Avverso la sentenza d’appello la società RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE liquidazione ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso. La controricorrente ha proposto eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso perché, a fronte del deposito della sentenza impugnata in data 31 luglio 2017, la procura speciale per la proposizione dell’impugnazione in cassazione, riportata a margine del ricorso introduttivo del giudizio di legittimità, è stata rilasciata dal liquidatore della RAGIONE_SOCIALE il 5 settembre 2017, mentre, come risultava da prodotta visura camerale storica, la società NOME era stata cancellata dal registro delle imprese il successivo
12 settembre 2017 e il ricorso per cassazione era stato notificato solo il 28 febbraio 2018; sicché -prosegue la controricorrente -al momento in cui il ricorso è stato proposto, per un verso, la giuridica esistenza della società ricorrente era ormai irrimediabilmente venuta meno e, per altro verso, il mandato difensivo si era estinto ai sensi dell’art. 1722, n. 4, c.c.
Dopo una prima ordinanza interlocutoria che ha rimesso la causa alla pubblica udienza, con una seconda ordinanza interlocutoria gli atti sono stati trasmessi alla Prima Presidente per la rimessione alle sezioni unite della questione di massima di particolare importanza relativa agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, avvenuta prima che il ricorso di legittimità sia proposto, ma successivamente al conferimento del mandato difensivo con procura speciale. Le sezioni unite, con la sentenza n. 29812/2024, hanno affermato il principio secondo cui ‘per il ricorso per cassazione la perdita della capacità processuale della parte ricorrente, tanto che si tratti di persona fisica quanto che si tratti di persona giuridica, avvenuta dopo il conferimento della procura speciale al difensore per il giudizio di cassazione, ma prima della notifica del ricorso alla controparte, non ne determina l’inammissibilità, alla luce del principio di ultrattività del mandato’. Le sezioni unite hanno quindi rigettato l’eccezione preliminare della controricorrente e hanno dichiarato l’ammissibilità del ricorso, rimettendo l’esame dei motivi alla seconda sezione, ai sensi dell’art. 142 disp. att. c.p.c.
Memoria è stata presentata in prossimità della presente pubblica udienza dalla controricorrente, che già aveva presentato memorie in relazione alla camera di consiglio e alle pubbliche udienze precedenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in tre motivi.
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1490, 1492 e 1497 c.c.: la Corte di merito ha escluso la ricorrenza del vizio della cosa venduta in relazione alla cessione della casa di riposo La RAGIONE_SOCIALE, nonostante che il titolo prevedesse l’acquisto della proprietà e non il subentro nell’affitto d’azienda, atteso che nel contratto era espressamente menzionato il riferimento a un contratto di locazione, e non di affitto, relativamente alla casa di riposo La RAGIONE_SOCIALE; il difetto del titolo di proprietà e la sussistenza di un diverso titolo di affitto costituisce un vizio della cosa compravenduta che diminuisce in modo rilevante il valore di quanto oggetto di cessione e non rileva la circostanza che la riduzione del prezzo vada di fatto a incidere sul valore pattuito per l’avviamento perché questa è una mera conseguenza delle modalità con le quali è stato determinato il corrispettivo della complessiva cessione; in ogni caso la presenza di vizi e la mancanza di qualità non sono soggetti a una diversa disciplina.
Il motivo è infondato. La Corte d’appello, nel rigettare il primo motivo di gravame riferito alla titolarità del ramo d’azienda La RAGIONE_SOCIALE, ha precisato che la ricorrente ha inteso ottenere una riduzione del prezzo di cessione riferito all’avviamento, dimezzandolo da euro 200.000 a euro 100.000, per avere scoperto che la casa di riposo La RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE non era di proprietà della cedente, e ha perciò chiesto la restituzione di euro 100.000. Al riguardo la Corte d’appello ha anzitutto osservato che correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto che il contratto di cessione facesse riferimento al contratto del 1996 e che lo stesso fosse un contratto di affitto di azienda. In ogni caso e in via assorbente -ha proseguito il giudice d’appello la cessionaria dell’azienda non può chiedere la riduzione del prezzo con riferimento all’avviamento, in quanto l’avviamento non è un bene
compreso nell’azienda, del quale si possa ipotizzare un vizio ai sensi dell’art. 1490 c.c., ma è una qualità immateriale dell’azienda stessa, che non può essere posta a fondamento dell’azione di riduzione del prezzo.
A fronte di tali argomenti la ricorrente, con il motivo proposto a questa Corte, obietta che nel contratto il riferimento era a un contratto di locazione e non di affitto. Tale obiezione, della quale non è chiara la rilevanza, comunque non incide sull’argomento assorbente della Corte d’appello, ossia che l’avviamento secondo l’orientamento di questa Corte (v. Cass. n. 5845/2013 e, più di recente, Cass. n. 22075/2023) -non è un bene compreso nell’azienda, del quale quindi si possa ipotizzare un vizio ai sensi dell’art. 1490 c.c., ma è una qualità immateriale dell’azienda stessa, il cui difetto dà luogo alla fattispecie di inadempimento di cui all’art. 1497 c.c. in tema di mancanza di qualità promesse, con la conseguenza che la mancanza di avviamento o il suo valore inferiore a quello pattuito non possono essere posti a fondamento dell’azione di riduzione del prezzo di cui all’art. 1492 c.c., ma solo, eventualmente, di una azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., azioni appunto soggette a discipline tra loro diverse, a differenza di quanto sostiene la ricorrente.
2. Con il secondo motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1490, 1492 e 1427 c.c.: riguardo al punto delle c.d. fatture da emettere, la Corte d’appello ha gravemente violato gli artt. 1490 e 1492 c.c., avendo ritenuto applicabile l’art. 1427 c.c.; è pacifico che RAGIONE_SOCIALE ha chiesto la riduzione del prezzo e la concessionaria non ha fornito alcuna prova dell’effettiva sussistenza dei crediti asseritamente portati sotto la voce ‘fatture da emettere’ e così dell’avvenuta emissione delle relative fatture; la mancanza di tali crediti costituisce un vizio della res compravenduta, idoneo a diminuire in modo rilevante il valore dell’oggetto della cessione;
erra il giudice d’appello a ritenere che si tratterebbe di un fatto sopravvenuto perché è evidente che l’esistenza dei crediti e la conseguente dovuta fatturazione è fatto precedente la cessione.
Il motivo è inammissibile. La Corte d’appello ha sottolineato come, sulla base della stessa prospettazione dell’appellante (nel corrispettivo della cessione era previsto, oltre all’avviamento, il valore delle attività dell’azienda ceduta nel quale era inserita la somma di euro 436.333 a titolo di fatture da emettere per un credito nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, v. supra il par. 1 dei fatti di causa, e tali fatture non erano state emesse), viene contestato un inadempimento che potrebbe comportare la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, ma non la riduzione del prezzo, trattandosi di comportamento successivo ed esecutivo del contratto di cessione e non di vizi della cosa venduta o mancanza di qualità della medesima. La vera questione, sottolinea ancora il giudice d’appello, sarebbe stata quella relativa alla effettiva esistenza o meno del credito da fatturare: in ogni caso, però, l’esposizione non veritiera di una posta attiva da parte del cedente, inducendo in errore la cessionaria sull’effettivo valore dell’azienda, può essere causa di annullamento del contratto per vizio del consenso, ma non di riduzione del prezzo, non trattandosi di vizio della cosa venduta ex art. 1490 c.c.
Con l’articolato ragionamento della Corte d’appello il motivo non si confronta. La ricorrente si limita infatti a ribadire di avere chiesto la riduzione del prezzo, profilo indubbiamente considerato dal giudice che proprio sul petitum domandato fonda il rigetto del motivo, e a sostenere in modo apodittico che la mancanza del credito darebbe luogo a un vizio della cosa ai sensi dell’art. 1490 c.c., senza fornire argomenti al riguardo.
Con il terzo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 1490, 1492 c.c., 115 e 356 c.p.c., nonché l’omesso
esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti: la Corte distrettuale ha errato nel ritenere che i vizi da cui erano affette le case di riposo oggetto della cessione, tali da esigere ingenti interventi di adeguamento, fossero conosciuti o facilmente conoscibili dal cessionario, senza che fosse stato fornito neanche un semplice indizio di tale consapevolezza e senza che la cedente avesse mai contestato la loro sussistenza e la necessità di sostenere notevoli spese per porvi rimedio; inoltre, sul punto, la Corte ha errato nell’omettere l’esame dei documenti prodotti e nel non avere ammesso le richieste prove orali e la consulenza tecnica d’ufficio.
Il motivo, che censura la conferma del rigetto della domanda riconvenzionale di rimborso della somma spesa per adeguamenti tecnici dell’azienda richiesti dalle norme in materia di sicurezza, è inammissibile. Anzitutto è inammissibile la denuncia di omesso esame di fatti decisivi ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Secondo l’art. 348 -ter , penultimo e ultimo comma c.p.c. (nella versione applicabile ratione temporis alla fattispecie), il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, basandosi sulle stesse ragioni inerenti la questione di fatto, non può essere proposto per il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360, primo comma c.p.c. Questa Corte ha poi specificato che, nell’ipotesi di ‘doppia conforme’, il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. -deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v. Cass. n. 26774/2016 e Cass. n. 5947/2023), indicazione che manca nel motivo fatto valere dalla ricorrente.
È inammissibile anche la denuncia di violazione o falsa applicazione degli artt. 1490, 1492 c.c., 115 e 356 c.p.c. Il giudice d’appello da un lato ha osservato che nel contratto si dà espressamente atto
della circostanza che la cessione avveniva nella situazione di fatto in cui il ramo d’azienda ceduto si trovava e risulta che il contratto sia stato preceduto da trattative che avevano preso in esame la situazione delle aziende cedute; dall’altro lato i vizi, indicati genericamente, sono da ritenersi, in astratto, palesi o comunque facilmente conoscibili al momento della conclusione del contratto, così che non sussistono i presupposti della garanzia di cui all’art. 1490 c.c. Anche a ritenere -ha ancora considerato il giudice d’appello che la domanda di rimborso abbia natura risarcitoria, basata sull’inadempimento del cedente piuttosto che sulla garanzia ex art. 1490 c.c., essa è ugualmente infondata, appunto per essere la cessione espressamente avvenuta nello stato di fatto in cui si trovavano le aziende ed avendo RAGIONE_SOCIALE fatto delle mere allegazioni, generiche e prive di prova, nulla essendo in particolare stato dimostrato circa la situazione delle aziende al momento della vendita.
Alle affermazioni del giudice d’appello la ricorrente oppone che i vizi non erano conosciuti o facilmente riconoscibili, ma si limita ad affermarlo senza addure elementi al riguardo, se non con un riferimento, del tutto generico, al fatto che la cedente non avrebbe contestato la sussistenza dei vizi e a ‘produzioni effettuate dalla parte opponente’, rispetto alle quali non vi è indicazione del loro oggetto e di quando sarebbero avvenute, e della richiesta di ‘prove tutte, orali e di CTU, dedotte e richieste da RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, richiesta anch’essa priva di specificazione.
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente, che liquida in euro 16.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi dopo la pubblica udienza, l’8 aprile 2025.
Il Giudice estensore Il Presidente
NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME