Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27279 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2   Num. 27279  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 13/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7975/2020 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente  domiciliati    in  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente  domiciliato  in  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE),  rappresentato  e  difeso  dall’avvocato  COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso  la  SENTENZA  della  CORTE  D’APPELLO  di  PERUGIA  n. 650/2019, depositata il 19/10/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/05/2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
PREMESSO CHE
1. La società RAGIONE_SOCIALE, svolgente attività di impresa edile, ha citato in giudizio NOME COGNOME, deducendo di avere acquistato nel 2002 dal convenuto un terreno confinante con altro terreno sul quale insiste un fabbricato edificato dal medesimo convenuto e che l’acquisto era stato effettuato perché il convenuto aveva presentato l’area come fabbricabile (COGNOME aveva già presentato un progetto al comune per l’edificazione della particella venduta); che dopo la vendita l’attrice aveva ottenuto il rilascio di un titolo edilizio a suo nome, aveva avviato i lavori di sbancamento del terreno, ma il Comune ha poi annullato in via di autotutela la concessione edilizia in quanto il convenuto aveva utilizzato nel 1972 la cubatura di entrambe le particelle per costruire il suo fabbricato; che era quindi stata venduta una cosa inidonea all’uso cui era destinata e comunque priva delle qualità essenziali ed era evidente anche l’inadempimento ex artt. 1453 e 1455 c.c., stante la consegna di un aliud pro alio e la violazione del principio di buona fede contrattuale. L’attrice ha quindi chiesto di accertare il proprio diritto a ottenere una riduzione del prezzo pattuito per vizio redibitorio ai sensi dell’art. 1490 c.c., e in ogni caso di condannare il convenuto al risarcimento dei danni per effetto dell’annullamento della concessione edilizia da parte dell’amministrazione comunale. Il convenuto – che costituendosi aveva chiesto il rigetto della domanda, nonché la condanna dell’attrice al pagamento del prezzo e al risarcimento dei danni – è deceduto nel corso nel giudizio di primo grado e il processo è stato riassunto nei confronti dei suoi eredi (NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME).
Il Tribunale di Terni ha pronunciato sentenza non definitiva (n. 299/2010), con la quale, accertato l’inadempimento del convenuto al contratto di vendita che legittimava il risarcimento del danno ex art. 1453 c.c. per consegna di aliud pro alio , ha condannato i suoi eredi al risarcimento dei danni individuati nell’ an e ha rimesso la causa sul ruolo per la quantificazione monetaria complessiva dei medesimi; ha quindi rigettato la domanda di riduzione del prezzo dell’attrice e ha respinto le domande riconvenzionali del convenuto. Il Tribunale ha poi pronunciato sentenza definitiva (n. 675/2016), con la quale ha liquidato, sulla base della consulenza tecnica d’ufficio, euro 71.068 a titolo di differenza tra il prezzo pagato e il valore effettivo dell’immobile, euro 45,412,22 oltre IVA, in relazione ai costi affrontati dall’attrice dopo l’acquisto del terreno nelle more della vigenza della concessione edilizia, euro 43.244,52, in relazione ai costi per la riduzione in pristino del terreno, sostenuti e da sostenere, oltre ad euro 1.100, al netto di IVA, per lo smaltimento del calcestrutto armato e ha così complessivamente condannato gli eredi del convenuto a pagare euro 286.332,25, somma comprensiva delle singole poste risarcitorie, della rivalutazione monetaria e degli interessi, oltre agli interessi nella misura legale dalla data della sentenza all’effettivo soddisfo.
Entrambe le pronunzie di primo grado sono state appellate dagli eredi di NOME COGNOME. Con la sentenza n. 650/2019, la Corte d’appello di Perugia ha accolto la sola censura relativa alla liquidazione dell’IVA e ha condannato gli appellanti a pagare in favore dell’appellata euro 160.824,74, oltre interessi calcolati sulla somma rivalutata anno per anno (a partire dal marzo 2002 quanto alla condanna relativa al minore valore dell’immobile, a partire dalla data delle spese sostenute dall’acquirente per l’esecuzione dei lavori quanto a quelli risultanti dalle fatture riscontrate dal consulente d’ufficio e a partire dal 31 dicembre 2002 quanto al residuo, posto che il consulente ha effettuato il calcolo dell’importo
lavori  sulla  base  del  prezziario  regionale  del  2002),  oltre  agli interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo.
Avverso  la sentenza  ricorrono  per  cassazione  NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Resiste con controricorso il Fallimento di RAGIONE_SOCIALE
Memoria è stata depositata dai ricorrenti.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso è articolato in nove motivi.
1) Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.: si ripropone la censura già proposta al giudice d’appello in relazione all’accoglimento di una domanda, l’azione risarcitoria per la vendita di aliud pro alio , non proposta dalla società attrice, con palese violazione dell’art. 112 c.p.c.; le domande dell’attrice sono state di accertare il diritto della società ad ottenere una riduzione del prezzo pattuito e di condannare COGNOME al risarcimento dei danni per effetto dell’annullamento della concessione edilizia; l’attrice ha quindi esercitato un’azione di garanzia per i vizi del bene venduto ai sensi dell’art. 1490 c.c. e ha chiesto, ai sensi del successivo art. 1492 c.c., la riduzione del prezzo della compravendita, nonché ai sensi dell’art. 1494 c.c. il risarcimento dei danni subiti; il Tribunale, rigettando le domande proposte dall’attrice e configurando d’ufficio l’esercizio da parte della medesima di un’azione di risarcimento dei danni per la consegna di aliud pro alio , è incorso nel vizio di ultrapetizione.
Il  motivo  è  infondato.  La  Corte  d’appello  ha  osservato  come  nel caso in esame non si discuta di mancanza di qualità promesse, ma di  consegna  di aliud  pro  alio ,  la  quale  ricorre  quando  la  cosa venduta appartiene a un genere del tutto diverso o che comunque difetta  delle  particolari  qualità  necessarie  per  assolvere  alla  sua naturale funzione economico-sociale o a quella particolare funzione che  le  parti  abbiano  concretamente  assunta  come  essenziale,
rispetto alla quale il compratore ha diritto ad esperire la normale azione di risoluzione del contratto, nonché l’azione di risarcimento del danno, autonomamente o cumulativamente. La qualificazione giuridica in termini di aliud pro alio , ha ancora osservato il giudice d’appello, può essere operata anche d’ufficio dal giudice ove le circostanze a tal fine rilevanti siano state acquisite nel processo e l’attore già nell’atto introduttivo del processo aveva denunciato la consegna di aliud pro alio .
Il giudice di merito ha pertanto interpretato le domande proposte dall’attore, che ha ricondotto a una domanda di riduzione del prezzo, che ha rigettato, e a una domanda di risarcimento del danno, che ha qualificato avente il proprio titolo nella consegna di un aliud pro alio e ha accolto. D’altro canto, già nell’atto di citazione (cfr. l’estratto riportato alla nota 4 di pag. 34 del ricorso), la società attrice aveva sottolineato come sia stato ad essa consegnato ‘un aliud pro alio , che si ha non soltanto quando la cosa sia materialmente diversa, ma anche quando la stessa sia priva della sua capacità funzionale, ovvero quando essa difetta delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economicosociale’. In ogni caso, questa Corte afferma che ‘il giudice, chiamato a pronunciarsi su una domanda di accertamento dei vizi della cosa venduta, ha il compito di qualificare d’ufficio l’azione proposta in termini di vendita di bene privo delle qualità essenziali ovvero, sulla base delle circostanze acquisite al processo a tal fine rilevanti, di vendita di aliud pro alio , la quale dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione o di inadempimento ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizioni previsti dall’art. 1495 c.c.’ (così Cass. n. 28069/2021).
2) Il secondo motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt.  112  e  132,  comma  2,  n.  4  c.p.c.,  in  relazione  all’art.  360, comma 1, n. 4 c.p.c.: gli appellanti hanno comunque contestato il
presupposto delle azioni esercitate contro COGNOME, ossia che quest’ultimo avesse garantito l’edificabilità del terreno; è infatti sufficiente leggere l’atto notarile di compravendita per rendersi conto che COGNOME non ha mai garantito, né espressamente né implicitamente, la natura edificatoria del terreno, non avendo dichiarato in alcun modo che il terreno compravenduto era edificabile; la Corte d’appello ha completamento omesso di esaminare il contenuto dell’atto di compravendita, limitandosi ad addurre elementi e circostanze autonomi rispetto al predetto atto.
Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha considerato i rilievi degli appellanti relativi alla mancata prestazione di garanzia circa l’edificabilità del suolo (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata) e ha rilevato che esse erano nuove e contraddittorie rispetto alla ribadita e pacifica tipologia del bene compravenduto (terreno edificabile sul quale poteva essere in concreto rilasciata concessione) e comunque incongruenti, dato che non si tratta di vizio di qualità pur essenziale del bene, ma di consegna di aliud pro alio . Il giudice d’appello ha rilevato come, in sede di comparsa di costituzione e risposta di primo grado, lo stesso COGNOME avesse sostenuto che il parere espresso dalla commissione edilizia, ai fini del rilascio della concessione, era pienamente giustificato e rispondente alle norme vigenti e che l’edificabilità del bene emergeva da un lato dalla valutazione del prezzo e dall’altro dall’allegazione all’atto di compravendita della preventiva richiesta di rilascio di concessione fatta da COGNOME. La Corte d’appello si è quindi pronunciata in relazione ai rilievi fatti valere dagli appellanti, cosicché non sussiste il vizio denunciato.
3) Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 345  e  112  c.p.c.  in  relazione  all’art.  360,  comma  1,  n.  4  c.p.c., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1495 e 2967 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.: la deduzione circa la mancata dimostrazione da parte della società controricorrente del
rispetto dei termini di cui all’art. 1495 c.c. è stata formulata dai ricorrenti non nel giudizio di primo grado, ma con il quarto motivo d’appello e la sentenza impugnata ha affermato, del tutto incidentalmente, che l’eccezione, ritenuta non pertinente alla fattispecie, sarebbe peraltro inammissibile in quanto nuova; a questo rilievo si deve replicare che la denuncia dei vizi e la tempestività della stessa costituiscono condizioni dell’azione, che devono essere provate dal compratore, cosicché eccepirne la mancata prova è una mera difesa deducibile anche in appello; va evidenziato che i ricorrenti hanno interesse alla proposizione di tale motivo perché è motivo suscettibile di condurre al rigetto delle domande della società attrice.
Il motivo è inammissibile. Gli stessi ricorrenti riconoscono che il rilievo circa l’eventuale tardività dell’eccezione non è pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto la domanda accolta dai giudici di merito attiene al risarcimento del danno causato dalla consegna di un aliud pro alio , fattispecie rispetto alla quale non si applica la disciplina di cui all’art. 1495 c.c., relativo alla denuncia dei vizi della cosa venduta. Va poi precisato che i ricorrenti non possono avere interesse alla proposizione del motivo perchè non si tratta di motivo idoneo a condurre al rigetto delle domande attrici, essendo appunto irrilevante il rispetto del termine per la denuncia dei vizi di cui all’art. 1495 c.c.
4) Il quarto motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 278 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.: la sentenza impugnata ha totalmente pretermesso l’esame del quinto motivo dell’atto di appello con il quale si contestava come il Tribunale, preso atto nella sentenza non definitiva che non vi erano sufficienti elementi di prova per accogliere le domande dell’attrice, avesse il dovere di rigettare le medesime per difetto di prova, non potendo pronunciare condanna generica al risarcimento
del  danno,  disponendo  con  ordinanza  che  il  processo  proseguisse per la sua liquidazione.
Il motivo è infondato. Ad avviso dei ricorrenti sarebbe stata necessaria un’istanza di parte affinché il giudice di primo grado, una volta accertato che la condotta di COGNOME aveva causato danni all’attore, potesse pronunciare una sentenza non definitiva e potesse rimettere la causa in istruttoria per un supplemento di consulenza tecnica d’ufficio per la quantificazione dei costi affrontati dalla società attrice per l’esecuzione dei lavori effettuati al momento dell’annullamento della concessione edilizia e dei costi per la riduzione in pristino del terreno. Tale potere era invece esercitabile d’ufficio dal giudice ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 4 c.p.c., secondo il quale il giudice pronuncia sentenza non definitiva quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai n. 1, 2 e 3 dello stesso articolo, non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. Quello che invece il giudice non avrebbe potuto fare sarebbe stato definire il giudizio con una pronuncia limitata all’ an del diritto, rinviando la determinazione del quantum ad altro processo, perché così avrebbe omesso di pronunciare su una parte della domanda (cfr. al riguardo, da ultimo, Cass. n. 8581/2022).
5) Il quinto motivo lamenta violazione degli artt. 112, 61,62, 191, 194 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 4 e 5 c.p.c., nonché per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. per motivazione apparente della sentenza impugnata: la sentenza impugnata ha totalmente omesso di esaminare il sesto motivo di gravame, incorrendo così nel vizio di omessa pronuncia; le sentenze definitiva e non definitiva di primo grado hanno sbagliato laddove hanno ritenuto che, per integrare la prova della sussistenza dei danni e del loro ammontare in difetto di idonei elementi probatori, si potesse fare luogo ad una consulenza tecnica d’ufficio; non era possibile acquisire attraverso la consulenza
tecnica d’ufficio gli elementi necessari per la prova della sussistenza del danno e per la sua liquidazione.
Il motivo non può essere accolto. Non è ravvisabile la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte d’appello ha pronunciato in relazione al motivo di gravame, mediante argomentazioni con le quali il motivo d’altro canto non si confronta. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, la Corte d’appello avrebbe utilizzato la consulenza tecnica d’ufficio sia per l’accertamento dell’ an che per il quantum , mentre il giudice di merito si è avvalso dell’operato del consulente tecnico d’ufficio in merito alla quantificazione del risarcimento. In relazione poi al risarcimento corrispondente al minore valore del bene consegnato, la Corte d’appello ha considerato la quietanza di pagamento risultante dall’atto pubblico di compravendita e ha precisato che al riguardo non era ammissibile la prova testimoniale o per presunzioni, cosicché ha determinato il minore valore del bene sulla scorta della consulenza tecnica d’ufficio. Ha poi osservato, in relazione alla quantificazione degli ulteriori danni, che tale quantificazione è stata posta in essere dal consulente tecnico d’ufficio anche sulla base di fatture prodotte dall’attore (in particolare, quanto alle opere realizzate, il consulente tecnico d’ufficio ne ha effettuato il rilievo e lo ha confrontato con le fatture indicanti gli importi spesi e ha calcolato il loro costo in base al prezziario regionale, metodologia che è stata utilizzata anche per la quantificazione del risarcimento relativo alle opere realizzate dal novembre 2006 per la messa in sicurezza del cantiere). Rispetto a tali articolate argomentazioni il motivo è appunto generico, limitandosi a sostenere che il giudice d’appello non avrebbe potuto utilizzare, ‘in difetto di prove fornite dall’attrice’, la consulenza tecnica d’ufficio.
Il sesto motivo contesta violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.,  in  relazione  al  n.  4  dell’art.  360  c.p.c.:  in  ordine  alla quantificazione dei danni i ricorrenti avevano contestato il
riconoscimento della somma di euro 24.437,07 acriticamente recepita dalla sentenza definitiva di primo grado, in quanto il consulente tecnico d’ufficio non aveva allegato ai propri elaborati copia dell’ordinanza comunale, né precisato di quali elementi di prova si fosse avvalso il consulente per stabilire l’effettiva esecuzione da parte della società di tali lavori; alle obiezioni del ricorrente la Corte d’appello non ha dato alcuna risposta, essendosi limitata a rinviare alla consulenza tecnica d’ufficio, cosicché ha posto alla base della propria decisione fatti non provati in palese violazione dell’art. 115 c.p.c.
Il motivo è inammissibile. La Corte d’appello (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata) ha riconosciuto il risarcimento per le opere contestate dai ricorrenti, sottolineando che la ditta non poteva sottrarsi all’esecuzione dei lavori disposti con ordinanza del Comune. Si tratta di valutazione degli elementi di fatto posta in essere dalla Corte d’appello, che ad essa spettava porre in essere e che non può essere censurata da parte di questa Corte di legittimità, tanto meno sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c. (si veda al riguardo la pronuncia delle sezioni unite n. 20867/2020).
7) Il settimo motivo lamenta violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.: un ulteriore errore nella quantificazione dei danni, direttamente addebitabile alla sentenza definitiva e denunciato con il nono motivo d’appello, punto 4, riguarda i lavori precedenti l’annullamento della concessione edilizia, quantificati in euro 45.412,22, mentre la società attrice aveva esibito fatture per un importo inferiore; la sentenza definitiva non doveva quindi liquidare danni corrispondenti al calcolo astratto effettuato sulla base del prezziario regionale; tale censura è stata ritenuta infondata dalla Corte d’appello, che ha ritenuto che la fattura fosse in acconto e che il consulente tecnico d’ufficio avesse invece stimato il costo integrale della manodopera.
Il  motivo  non  può  essere  accolto.  Anzitutto,  non  è  ravvisabile  la violazione  dell’art.  112  c.p.c.  in  quanto  la  Corte  d’appello  ha pronunciato  in  relazione  al  motivo  di  gravame.  In  ogni  caso,  la Corte d’appello ha aderito alle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio  con  valutazione  che  ad  essa  spettava  porre  in  essere  e che, lungi dal comportare una decisione non fondata sulle prove, è decisione non censurabile di fronte a questa Corte di legittimità.
L’ottavo motivo  contesta violazione dell’art. 112  c.p.c. in relazione  al  n.  4  dell’art.  360  c.p.c.:  la  sentenza  impugnata  ha totalmente pretermesso anche il decimo motivo d’appello, punto 1 così incorrendo nel vizio di omessa pronuncia; l’attrice non ha mai chiesto la rivalutazione monetaria delle somme richieste a titolo di risarcimento del danno, né tantomeno gli interessi legali, cosicché gli importi relativi non potevano essere riconosciuti.
Il motivo non può essere accolto. Ad avviso della costante giurisprudenza di questa Corte, ‘la rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi’ (in tal senso, ex multis , v. Cass. n. 20943/2009 e più di recente Cass. n. 24468/2020, che sottolinea come il giudice di merito debba attribuire l’una e gli altri anche se non espressamente richiesti, pure in grado di appello, senza, per ciò solo, incorrere in ultrapetizione).
Il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1224 e 1282 c.c., in relazione al  n.  3  dell’art.  360  c.p.c.:  la  sentenza  impugnata  ha  totalmente pretermesso l’esame del decimo motivo, punto 3, incorrendo quindi nel  vizio  di  omessa  pronuncia;  con  il  motivo  si  è  denunciata
l’erroneità  della  statuizione  confermata  in  appello,  secondo  cui  le somme  liquidate  a  titolo  di  danno  in  favore  della  società  attrice vanno  rivalutate  all’attualità  con  il  riconoscimento  degli  interessi legali  sulle  somme  rivalutate  anno  per  anno;  gli  interessi  legali andavano riconosciuti unicamente con decorrenza dal luglio 2016, data della pubblicazione della sentenza definitiva di primo grado.
Il motivo non può essere accolto. Come ha precisato questa Corte, l’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale costituisce un debito di valore, cosicché va riconosciuto il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi compensativi; tali interessi hanno fondamento e natura differente da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, e vanno determinati mediante ‘l’individuazione di un saggio scelto in via equitativa, da applicare sul capitale, rivalutato anno per anno’ (così Cass. n. 1627/2022; si veda al riguardo anche Cass. n. 16027/2022). Correttamente, pertanto, il giudice d’appello ha riconosciuto ‘gli interessi calcolati sulla somma rivalutata anno per anno con decorrenza come in motivazione, oltre gli interessi legali dalla sentenza al soddisfo’.
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La  Corte  rigetta  il  ricorso  e  condanna  i  ricorrenti  in  solido  al pagamento  delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente,  che  liquida  in  euro  6.000,  di  cui  euro  200  per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art.  13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto  per  il  ricorso  a  norma  del  comma  1bis dello  stesso  art. 13, se dovuto.
Così  deciso  in  Roma,  nella  adunanza  camerale  della  sezione seconda civile, in data 13 maggio 2025.
Il Presidente NOME COGNOME