Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 6348 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 6348 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1991/2022 proposto da:
NOME COGNOME, in proprio e nella qualità di legale rappresentante de RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME EMAIL;
ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avv.to NOME COGNOME EMAIL;
contro
ricorrente –
avverso la sentenza n. 2653/2021 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, depositata in data 19/10/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/1/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
ritenuto che,
con sentenza resa in data 19/10/2021, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado ha rigettato la domanda proposta da NOME COGNOME in proprio e nella qualità di legale rappresentante de RAGIONE_SOCIALE per la condanna della RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni asseritamente subiti dalle attrici in conseguenza della pubblicazione, da parte della società convenuta, di un’erronea segnalazione in relazione alle vicende finanziarie delle istanti;
a fondamento della decisione assunta, la Corte territoriale ha sottolineato la correttezza della decisione del primo giudice nella parte in cui aveva rilevato la mancata dimostrazione, da parte delle attrici, tanto di un preciso nesso di causalità tra il comportamento ascritto alla società convenuta e il danno asseritamente subito, quanto della stessa sussistenza delle conseguenze dannose denunciate;
avverso la sentenza d’appello, NOME COGNOME in proprio e nella qualità di legale rappresentante de RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d’impugnazione;
la RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso;
considerato che,
con il primo motivo, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione dell’art. 101 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.), per avere la Corte territoriale violato il principio del contraddittorio tra le parti in conseguenza dell’anomala successione delle ordinanze istruttorie susseguitesi nel corso del giudizio d’appello, in forza delle quali, mentre le odierne ricorrenti si erano uniformate al deposito di mere ‘note scritte’ per l’udienza, la controparte aveva depositato complete memorie ex art. 190 c.p.c., con la conseguente impossibilità, per le odierne istanti, di svolgere le proprie difese in modo completo;
il motivo è inammissibile;
ferma l’assoluta genericità della descrizione delle presunte irregolarità ascritte dalle ricorrenti al contegno processuale della Corte territoriale, osserva il Collegio come al caso di specie debba trovare applicazione il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non è destinata a tutelare l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione; ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (cfr., ex plurimis , Sez. 3, ordinanza n. 26419 del 20/11/2020, Rv. 659858 – 01);
nella specie, le odierne ricorrenti hanno denunciato in modo irriducibilmente astratto l’asserita lesione del proprio diritto di difesa, avendo rilevato l’asserita dannosità delle diverse ordinanze istruttorie susseguitesi nel corso del processo d’appello senza specificare il tipo o la natura del pregiudizio subito per effetto di tali (asserite) illegittimità del giudice a quo , con la conseguente inammissibilità dell’odierna censura, di per sé insuscettibile di evidenziare le specifiche ragioni per le quali la pretesa erronea applicazione della regola processuale avrebbe comportato la lesione delle proprie prerogative di difesa;
con il secondo motivo, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per omessa, insufficiente e contraddittorio motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. (con riguardo all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.),
per avere entrambi i giudici del merito illegittimamente negato il diritto delle odierne istanti di fornire la prova dell’illecito denunciato nei confronti della controparte e dei danni concretamente subiti; danni, peraltro, in ogni caso, effettivamente comprovati attraverso la documentazione prodotta in giudizio, a fronte della quale la corte territoriale ha illegittimamente negato l’ammissione di un’indispensabile consulenza tecnica d’ufficio;
il motivo è inammissibile;
ferma l’inammissibile evocazione, da parte delle ricorrenti, di un vizio di illegittimità della sentenza impugnata sulla base di una formulazione corrispondente a una disposizione normativa non più in vigore (segnatamente in relazione al vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.), varrà osservare come la censura in esame non contenga alcuna denuncia del paradigma dell’art. 2697 c.c., né di quello di cui all’art. 115 c.p.c., essendosi le stesse sostanzialmente limitate a denunciare unicamente una pretesa erronea valutazione di risultanze probatorie;
sul punto, varrà rimarcare il principio fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità, ai sensi del quale la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura unicamente nel caso in cui il giudice di merito applichi la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (evenienza in nessun caso verificatasi nel caso di specie), mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato, o contraddicendo espressamente la
regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla ‘valutazione delle prove’ (cfr. Sez. U, sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037; Sez. 6 – 3, ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892 – 01);
da qui la conseguenza secondo cui la censura in esame in altro non si risolve se non in una proposta di rilettura nel merito dei fatti di causa e delle prove acquisite dal giudice (ivi compreso il giudizio di inidoneità delle prove acquisite a giustificare l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio), sulla base di un’impostazione critica non consentita in sede di legittimità;
dev’essere, da ultimo, rilevata l’inammissibilità delle censure direttamente rivolte dalle ricorrenti nei confronti della sentenza di primo grado, non essendo consentito, in sede di legittimità, prospettare l’eventuale sussistenza di vizi propri della sentenza del primo giudice (cfr. Sez. L, sentenza n. 6733 del 21/03/2014, Rv. 630084 – 01);
con il terzo motivo, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione errata applicazione di norme di diritto (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.), per avere la Corte territoriale erroneamente omesso di attribuire valore decisivo, sul piano probatorio, a quanto
accertato in sede cautelare tra le parti (pur essendosi concluso, detta fase cautelare, con un provvedimento di cessazione della materia del contendere), finendo col travisare e disattendere illegittimamente, non solo le richieste istruttorie regolarmente avanzate, bensì gli stessi elementi di prova complessivamente offerti a sostegno della domanda risarcitoria originariamente proposta;
il motivo è inammissibile;
osserva il Collegio come, attraverso la proposizione della censura in esame, le ricorrenti, lungi dal contestare l’errata ricognizione, da parte del giudice d’appello, della fattispecie astratta recata da norme di legge, si siano limitate a contestare l’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediata da una pretesa erronea valutazione dei mezzi di prova proposti dalle parti; e ciò, sulla base di un’impostazione critica non consentita in questa sede di legittimità;
parimenti inammissibile, sotto altro profilo, deve ritenersi la contestazione del rigetto delle richieste istruttorie avanzate dalle parti istanti;
a tale riguardo, varrà osservare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti (rifiuto che il giudice di merito non è tenuto a formalizzare in modo espresso e motivato, qualora l’inconcludenza dei mezzi istruttori invocati dalle parti possa implicitamente dedursi dal complesso della motivazione adottata: cfr. Sez. L, sentenza n. 5742 del 25/05/1995, Rv. 492429 -01), il ricorrente ha l’onere di dimostrare che con l’assunzione delle prove richieste la decisione sarebbe stata diversa, in base a un giudizio di certezza e non di mera probabilità, così da consentire al giudice di
legittimità un controllo sulla decisività delle prove (cfr. Sez. 6 – 1, ordinanza n. 23194 del 4/10/2017, Rv. 645753 – 01);
sul punto, varrà qui ribadire il principio secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della congruità della coerenza logica, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis , Sez. 5, sentenza n. 27197 del 16/12/2011, Rv. 620709);
ciò posto, occorre rilevare l’inammissibilità della censura in esame, avendo le ricorrenti propriamente trascurato di circostanziare gli aspetti dell’asserita decisività della mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, delle occorrenze di fatto destinate ad essere comprovate dalle fonti di prova non ammesse (e che avrebbero al contrario condotto -in ipotesi -a una sicura diversa risoluzione dell’odierna controversia), dovendo conseguentemente ritenersi che, attraverso le odierne censure, le ricorrenti altro non abbiano prospettato se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il proprio soggettivo punto di vista, in coerenza ai tratti di un’operazione critica come tale inammissibilmente prospettata in questa sede di legittimità;
sulla base di tali premesse, dev’essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna le ricorrenti al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 5.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione