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Usucapione tra soci: quando la tolleranza esclude?

Una società a responsabilità limitata, i cui soci erano anche comproprietari di un immobile adiacente, ha agito in giudizio per vedersi riconoscere l’acquisto della proprietà per usucapione. La Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei giudici di merito, ha respinto la domanda. Il principio chiave affermato è che, in presenza di vincoli societari o di parentela, l’uso prolungato di un bene non configura automaticamente un possesso ‘uti dominus’, ma può essere considerato semplice detenzione basata sulla tolleranza degli altri soci-proprietari. Di conseguenza, l’usucapione tra soci è stata esclusa.

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Usucapione tra soci: La Tolleranza Prevale sul Possesso

L’istituto dell’usucapione permette di acquisire la proprietà di un bene attraverso il possesso prolungato nel tempo. Ma cosa succede quando questo possesso si svolge all’interno di una rete di rapporti societari e familiari? La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato un complesso caso di usucapione tra soci, stabilendo che la semplice utilizzazione di un immobile di proprietà dei soci da parte della loro società non è sufficiente a configurare un possesso utile all’acquisto della proprietà. Vediamo perché.

La vicenda: una richiesta di divisione e la pretesa di usucapione

La controversia nasce dalla richiesta di due fratelli di sciogliere la comunione su un immobile di loro proprietà, condiviso con due sorelle. Quest’ultime, però, si oppongono, sostenendo che l’immobile fosse stato di fatto usucapito da una società a responsabilità limitata di cui tutti e quattro erano soci. La società, intervenendo nel giudizio, ha formalizzato questa pretesa, affermando di aver inglobato l’immobile nella propria area aziendale da tempo immemorabile, esercitando su di esso un possesso pubblico, pacifico e ininterrotto.

Le decisioni dei giudici di merito

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello hanno respinto la domanda di usucapione. I giudici hanno ritenuto che la società non avesse fornito la prova di un possesso uti dominus, ovvero di un comportamento corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà. La relazione tra la società e l’immobile è stata qualificata come mera detenzione, giustificata da un atteggiamento di tolleranza da parte dei soci-proprietari. Il fatto che il bene fosse stato acquistato da uno dei soci, che ne aveva poi consentito l’uso all’ente collettivo per ragioni legate ai rapporti interni alla compagine, è stato decisivo per escludere la volontà di possedere come proprietario.

L’analisi della Corte di Cassazione sull’usucapione tra soci

La società e le due sorelle hanno portato il caso dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando una valutazione errata delle prove e una falsa applicazione delle norme sull’usucapione. La Suprema Corte, tuttavia, ha dichiarato inammissibili i ricorsi, confermando la linea dei giudici di merito. I ricorsi, secondo la Corte, miravano a ottenere una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di usucapione tra soci o parenti. La giurisprudenza consolidata afferma che, per distinguere tra possesso e semplice detenzione dovuta a tolleranza, bisogna analizzare la natura dei rapporti tra le parti. La circostanza che l’attività svolta sul bene sia durata a lungo e non sia stata di modesta entità, che normalmente farebbe presumere l’esistenza di un possesso, perde la sua efficacia probatoria quando i rapporti sono caratterizzati da vincoli particolari, come quelli societari o di parentela.

In questi contesti, è plausibile che un socio-proprietario consenta alla propria società di utilizzare un bene per spirito di cortesia o per un interesse comune, senza con ciò rinunciare al proprio diritto di proprietà. Tale concessione rientra nell’ambito della tolleranza (art. 1144 c.c.), che per sua natura non può costituire il fondamento per una domanda di usucapione. La Corte ha quindi concluso che la decisione della Corte d’Appello era coerente con questo insegnamento, poiché aveva correttamente valorizzato la circostanza che i proprietari del bene fossero anche soci della società che ne chiedeva l’usucapione.

Le conclusioni

Questa ordinanza rafforza il principio secondo cui i vincoli societari e familiari rappresentano un elemento chiave nell’interpretazione degli atti di godimento di un bene. Per poter invocare con successo l’usucapione tra soci, non è sufficiente dimostrare un uso prolungato del bene, ma è necessario provare in modo inequivocabile un atto di “interversione del possesso”, ovvero un comportamento che manifesti chiaramente la volontà di cessare di detenere il bene per conto altrui e iniziare a possederlo come proprietario esclusivo. In assenza di tale prova, la presunzione è che l’utilizzo del bene sia basato su una mera tolleranza, inidonea a far maturare l’acquisto della proprietà.

L’uso prolungato di un immobile da parte di una società i cui soci sono anche i proprietari del bene è sufficiente per l’usucapione?
No. Secondo la sentenza, l’uso prolungato non è sufficiente perché la relazione tra le parti, caratterizzata da vincoli societari, fa presumere che tale uso sia basato sulla mera tolleranza dei soci-proprietari e non su un possesso utile all’usucapione (possesso uti dominus).

In che modo i rapporti personali o societari tra le parti influenzano la valutazione della tolleranza in un caso di usucapione?
I vincoli particolari, come quelli societari o di parentela, indeboliscono il valore presuntivo della durata e dell’entità dell’uso del bene. In questi contesti, è più probabile che l’uso sia consentito per cortesia o interesse comune, configurando un atto di tolleranza che, per legge, non è idoneo a fondare una domanda di usucapione.

È possibile chiedere in Cassazione una nuova valutazione delle prove per dimostrare il possesso ‘uti dominus’?
No. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i motivi di ricorso che miravano a una riconsiderazione delle prove e a una ricostruzione alternativa dei fatti. Il giudizio di Cassazione è un giudizio di legittimità, non di merito, e non può riesaminare le valutazioni fattuali operate dai giudici dei gradi precedenti, a meno che non vi siano vizi logici o giuridici manifesti nella motivazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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