Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3979 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3979 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25022/2020 R.G. proposto da :
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso da se medesimo
-ricorrente-
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 600/2020 depositata il 05/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/10/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME chiese al Tribunale di Milano dichiararsi l’ avvenuto acquisto per usucapione della metà indivisa di un immobile acquistato in regime di comunione legale con l’ex coniuge NOME COGNOME sostenendo di avere il possesso esclusivo per avere ivi esercitato l’attività professionale di avvocato; chiese, altresì, dichiararsi l’ acquisto per usucapione dei beni mobili costituiti dagli arredi e dagli altri beni utilizzati per l’esercizio dell’attività professionale.
Nel contraddittorio con NOME COGNOME che si oppose alla domanda, il Tribunale di Milano rigettò la domanda.
La Corte d’appello confermò la decisione di primo grado.
Il giudice d’appello fondò la decisione sul principio secondo cui il regime patrimoniale della comunione legale non consente l’usucapione del bene in comunione da parte di uno dei coniugi, sulla base del combinato disposto dell’art.1165 c.c. con l’art. 2941, n.1 c.c., salvo che vi sia un atto di interversione del possesso. Nel caso di specie, l’atto di interversione del possesso da parte di NOME COGNOME, consistito nel cambiamento della serratura, era avvenuto nel 2013 sicchè non era maturato il termine per l’usucapione al momento dell’introduzione del giudizio di primo grado, con atto di citazione notificato nel 2017.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello sulla base di tre motivi.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso
Il Consigliere Delegato, ritenendo che il ricorso fosse inammissibile o, comunque, manifestamente infondato, ha chiesto la definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., nel testo introdotto dal D. Lgs n.149 del 2022.
In prossimità della camera di consiglio, le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art.191 c.c, in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che fosse applicabile alla comunione legale tra coniugi l’istituto della sospensione della prescrizione mentre, nel caso di specie, la comunione legale si sarebbe trasformata in comunione ordinaria a seguito della separazione dei coniugi e, ancor prima, con l’autorizzazione a vivere separati . Con la stessa censura, il ricorrente denuncia l’erroneità della sentenza della Corte d’appello di Milano, per aver rilevato d’ufficio la sospensione della prescrizione nei rapporti tra coniugi e, conseguentemente, l’inoperatività dell’istituto dell’usucapione durante la permanenza del vincolo coniugale.
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame delle norme previste dall’art.1140 e segg e dell’art.832 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.5 c.p.c. perché non sarebbe pertinente il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla pronuncia delle Sezioni Unite del 28/10/2009, n.22755, secondo cui ricadono nella comunione gli acquisti di carattere personale da parte di un coniuge salvo che nell’atto di acquisto non vengano espressamente richiamate le ipotesi di esclusione dalla comunione previste dall’art.177, comma 1, sub c), d) ed f). Secondo il ricorrente, il principio espresso dalla decisione delle Sezioni Unite riguarda l’ipotesi in cui un coniuge acquisti un bene per uso personale in regime di comunione mentre, nel caso di specie NOME COGNOME era mera
intestataria formale dell’immobile ed avrebbe esercitato il possesso esclusivo sul bene, ai fini dell’usucapione.
I motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono inammissibili, ai sensi dell’art.360 bis, n.1 c.p.c.
La sentenza impugnata ha correttamente affermato che nell’ipotesi in cui un bene cada in comunione legale non è operante l’istituto dell’usucapione, in virtù del combinato disposto dell’art.1165 c.c. e dell’art.2941 n.1 c.c.
L’art.1165 c.c. prevede che le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e di interruzione ed al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, all’usucapione.
L’art.2941, n.1 c.c. prevede che la prescrizione rimanga sospesa tra i coniugi.
L’immobile oggetto di causa, adibito a studio professionale del ricorrente, costituiva bene ricadente in comunione non avendo le parti, al momento dell’acquisto, né successivamente, dato atto dell’esclusivo carattere personale dell’immobile.
Sotto questo profilo, è pertinente il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite del 28/10/2009, n.22755, laddove si afferma che nel caso di acquisto di un immobile dopo il matrimonio da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179 comma 2 c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l’effettiva sussistenza di
una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179 comma 1 lett. c), d) ed f) c.c.
Trattandosi di bene ricadente nella comunione legale, corretto è il principio di diritto che sorregge la decisione impugnata, secondo cui in costanza di matrimonio non maturano i termini utili all’usucapione da parte di un coniuge nemmeno sui beni appartenenti all’altro coniuge perché contrario allo spirito di armonia che caratterizza l’unione coniugale o civile (Cassazione civile sez. I, 04/04/2024, n.8931; cfr. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 32212 del 2022).
La ratio della sospensione della prescrizione, che è volta ad evitare il turbamento della armonia familiare tra coniugi conviventi, non operare solo allorché la crisi coniugale abbia trovato un riscontro formale nella separazione, con la cessazione della convivenza.
Nel caso di specie, trattandosi di bene in regime di comunione legale, sebbene destinato allo svolgimento dell’attività professionale dell’Avv. COGNOME, solo dopo la sentenza di separazione del 3.2.2018 la comunione legale si era trasformata in comunione ordinaria.
L’atto di interversio possessionis da parte dell’Avv. COGNOME consistito nella mancata consegna della nuove chiavi dell’immobile alla moglie è avvenuto nel 2013 sicché alla data del notifica dell’atto di citazione, in data 6.10.2017, non era maturata la prescrizione.
Va, infine, rilevato che la doglianza relativa alla rilevabilità d’ufficio della causa di sospensione della prescrizione ai sensi dell’art.2941, n.1 c.c., rectius dell’inoperatività dell’usucapione in costanza del vincolo matrimoniale, è infondata perché l’accertamento della decorrenza della prescrizione costituisce elemento costitutivo della domanda di usucapione.
Si tratta di principio costantemente affermato da questa Corte, che ha evidenziato come laddove il difetto della continuità del possesso
risulti ex actis dalla produzione della parte che quella continuità invochi, il giudice, anche se l’interruzione non sia stata dedotta dalla controparte e pur in contumacia della stessa, deve rigettare la domanda o l’eccezione; in tal caso, non giudica ultrapetita , in violazione dell’art.112 c.p.c., bensì si limita a constatare il difetto, risultante dagli atti del giudizio fornitigli dalla parte interessata, di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda o dell’eccezione (Cassazione civile sez. II, 30/06/2020, n.13156; Cassazione civile sez. II, 23/07/2010, n.17322).
Non è pertinente la difesa introdotta dal ricorrente nella memoria illustrativa, che ravvisa, da parte della controricorrente una forma di rinuncia abdicativa della comproprietà per facta concludentia; la rinuncia, quale atto dismissivo della proprietà, comporterebbe l’accrescimento della quota del comproprietario. Nel caso di specie, NOME COGNOME si sarebbe sottratta alle spese di conservazione del bene comune, di cui il ricorrente avrebbe avuto il godimento esclusivo.
La rinuncia al possesso da parte del proprietario di un bene, in quanto limitativa dello ius domini , non può presumersi ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa, sicché la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che permanga l’animus possidendi quando sia sempre possibile al possessore ripristinarne l’esercizio (Cassazione civile sez. II, 21/12/1999, n.14370)
Nell’ordinamento, i casi in cui il proprietario di un bene si spoglia del possesso di questo in maniera tale da dimettere definitivamente l’animus ed il corpus possessionis e, con questo, anche la possibilità di recuperarlo, invero, costituiscono ipotesi eccezionali, limitative dello ius dominii e, come tali, o sono specificatamente regolate dalla
legge o debbono, in ogni caso, risultare da univoco factum contrarium del proprietario.
In applicazione di tale principio, questa Corte ha affermato che, in difetto di altri idonei riscontri, neanche il semplice abbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario del fondo, ancorché seguito da assoluto disinteresse per le sorti di questo bene lasciato in esclusivo godimento ai familiari, integri rinuncia al possesso perché la rinuncia, in quanto limitativa dello ius domini , non può presumersi ma deve risultare da una univoca manifestazione di volontà abdicativa, potendo il possesso essere conservato solo animo (Cassazione civile sez. II, 07/01/1992, n.39).
Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.8, comma 4 bis del D. Lgs n.28/2010 perché il giudice d’appello non avrebbe considerato, anche ai fini della liquidazione delle spese di lite, il rifiuto opposto dalla controricorrente alla partecipazione al procedimento di mediazione.
Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art.360 bis, n.1 c.p.c.
L’art.8, comma 4 bis del D. Lgs n.28 del 2010 prevede che il giudice, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, possa desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
Dal dato letterale si evince la facoltà e non l’obbligo del giudice di desumere argomenti di prova in caso di mancata comparizione della parte innanzi al mediatore, sicché anche le spese di lite vanno regolate secondo il principio della soccombenza, come correttamente risulta dalla sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso va respinto con inevitabile aggravio di spese per il soccombente.
Essendo la decisione resa nel procedimento per la definizione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ.. (novellato dal D. Lgs n.149 del 2022.), con formulazione di istanza di decisione ai sensi dell’ultimo comma della norma citata, e il giudizio definito in conformità alla proposta, parte ricorrente deve essere, inoltre, condannata al pagamento delle ulteriori somme ex art.96, comma 3 e 4 c.p.c., sempre come liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 -quater del DPR n.115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1-bis, del DPR n.115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Condanna altresì parte ricorrente, ai sensi dell’art.96, comma 3 c.p.c., al pagamento a favore della parte controricorrente di una somma ulteriore di Euro 5.000,00 equitativamente determinata, nonché -ai sensi dell’ art.96, comma 4, c.p.c. – al pagamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 -quater del DPR n.115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1-bis, del DPR n.115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione