Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21135 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 21135 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 5161-2023 proposto da:
COGNOME NOME, NOME, NOME e NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrenti –
contro
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME e NOME COGNOME e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1425/2022 della CORTE DI APPELLO di CATANZARO, depositata il 15/11/2022;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione del 14.7.2006 NOME evocava in giudizio NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Catanzaro, invocando l’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione, a proprio favore, di un bene immobile, l’imputazione per collazione all’asse ereditario del proprio genitore, COGNOME NOME, le somme percepite, in vita del de cuius , da COGNOME NOME e da COGNOME NOME e la divisione del patrimonio relitto dal defunto.
Si costituivano i convenuti, opponendosi alle domande di usucapione e di collazione, ma non a quella di divisione.
Con sentenza parziale n. 23/2009 il Tribunale accoglieva la domanda di usucapione. Con successiva sentenza definitiva n. 899/2019 disponeva invece lo scioglimento della comunione ereditaria, con assegnazione dei lotti mediante sorteggio.
Con la sentenza impugnata, n. 1425/2022, la Corte di Appello di Catanzaro rigettava il gravame interposto dagli originari convenuti avverso le due sentenze rese dal Tribunale, confermandole.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOME NOME, affidandosi a due motivi, il primo dei quali articolato in tre profili.
Resiste con controricorso NOME.
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 1140, 1144 e 1158 c.c., nonché il vizio di apparenza di motivazione e la violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente valutato le prove acquisite agli atti del giudizio di merito, ravvisando la sussistenza degli estremi per l’accoglimento della domanda di usucapione proposta dall’odierno controricorrente.
La censura è infondata, sia quanto al primo profilo, con il quale si contesta la valutazione della prova documentale, sia quanto al secondo profilo, con il quale si attinge invece la mancata considerazione del fatto che il bene immobile oggetto della domanda di usucapione sarebbe stato edificato con denaro del de cuius , sia, infine, quanto al terzo profilo, con il quale si lamenta l’erroneo apprezzamento della prova testimoniale acquisita agli atti del giudizio di merito.
La Corte di Appello ha ritenuto che ‘… la prova del possesso ultraventennale, asseritamente non raggiunta secondo gli appellanti, secondo il Collegio è dimostrata con le deposizioni dei tre testimoni COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, escussi all’udienza del 16 dicembre 2008. Detti testi, infatti, hanno confermato che NOME possiede l’unità immobiliare sita nel comune di Catanzaro, alla INDIRIZZO, identificata in catasto urbano al foglio 64, part. 373, sub 3, dal 1984, che si è servito del bene uti dominus facendovi eseguire lavori al fine di abitare l’immobile e che il possesso è stato continuo, essendo emerso che ha abitato nell’immobile in questione con la moglie sin da quando l’appartamento ancora non era neppure abitabile … Non può quindi accogliersi la testi di parte appellante secondo cui il AVV_NOTAIO
NOME avrebbe goduto del bene per mera tolleranza degli altri comproprietari … Assume rilievo la circostanza che l’attività svolta sul bene -come emerso in fase istruttoria- è risalente al 1984 e si è estrinsecata in tutta una serie di lavori all’immobile, di talché non può ritenersi né di durata transitoria, né di modesta entità, che sono le caratteristiche della detenzione per spirito di tolleranza’ (cfr. pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata).
La Corte distrettuale, dunque, ha escluso, sulla base di una valutazione delle risultanze istruttorie, la configurabilità di una ipotesi di detenzione per mera tolleranza ed ha invece ritenuto che la durata della relazione con la res e le modalità con le quali essa si era estrinsecata fossero idonee a dimostrare la sussistenza di un possesso esclusivo, utile ad usucapionem e protrattosi per oltre un ventennio.
La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapioneassume rilievo la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, circostanza che assume efficacia di valore presuntivo circa l’esclusione dell’esistenza di una mera tolleranza e che non ricorre nel caso in cui la suddetta relazione di fatto si fondi su rapporti caratterizzati da vincoli particolari tra le parti, quali quelli scaturenti da un rapporto societario (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17880 del 03/07/2019, Rv. 654466; Sez. 2, Sentenza n. 9661 del 27/04/2006). L’esistenza di vincoli di stretta parentela può condurre il giudice di merito a superare la presunzione di insussistenza della tolleranza connessa alla durata ed all’intensità della relazione con la cosa, ma la relativa valutazione appartiene
all’area riservata al giudice di merito, investendo evidentemente un apprezzamento in punto di fatto, di per sé non censurabile in sede di legittimità (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9661 del 27/04/2006, Rv. 588976; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8194 del 18/06/2001, Rv. 547541).
La Corte di merito ha ritenuto che, nella fattispecie, la relazione con la res intrattenuta dall’odierno controricorrente fosse ‘inconciliabile con il godimento altrui’ e dunque che lo stesso, comproprietario del cespite oggetto della domanda di usucapione, avesse escluso dal godimento del medesimo tutti gli altri comunisti. Anche tale statuizione è in linea con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo (“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9100 del 12/04/2018, Rv. 648079; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16841 del 11/08/2005, Rv. 584306; principio valido anche ai rapporti tra coeredi, prima della divisione, in forza di Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 08/04/2021, Rv. 660860, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10734 del 04/05/2018,
Rv. 648439 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1370 del 18/02/1999, Rv. 523346).
Le censure proposte dalla parte ricorrente con l’articolato motivo in esame, in ultima analisi, si risolvono nella contrapposizione, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito, di una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, sul vizio di motivazione apparente, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023 in motivazione).
Con il secondo motivo, i ricorrenti denunziano la nullità della C.T.U., la violazione o falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c. e l’apparenza della motivazione, con violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente operato la divisione del compendio ereditario senza considerare, all’interno dello stesso, il cespite oggetto della domanda di usucapione spiegata dall’odierno controricorrente, nonostante la sentenza parziale con la quale la predetta domanda era stata accolta non fosse passata in giudicato, mercè la riserva di impugnazione tempestivamente formulata dagli odierni ricorrenti.
La censura è infondata.
La riserva di appello proposta dagli odierni ricorrenti avverso la sentenza parziale del Tribunale di Catanzaro, con la quale era stata accolta la domanda di usucapione del bene di cui si discute, non paralizza il successivo svolgimento della causa di divisione, onde il Tribunale ha del tutto legittimamente deciso la domanda di scioglimento della comunione ereditaria tenendo conto della propria prima decisione.
Gli odierni ricorrenti avrebbero peraltro potuto, anziché formulare riserva di appello avverso la ridetta sentenza parziale, impugnarla direttamente. Con la loro scelta processuale, dunque, hanno manifestato l’intenzione di posticipare la formulazione delle ragioni di
contestazione della sentenza parziale all’esito della decisione dell’intero giudizio di prime cure. Né, peraltro, tale scelta ha comportato alcun sacrificio dei loro diritti, posto che l’effetto della riserva di impugnazione è, giustappunto, quello di conservare, in capo alla parte che la formuli, il pieno diritto di esprimere tutti i motivi di contestazione avverso la statuizione che, risolvendo uno o più punti della causa, non ne esaurisca tuttavia la decisione.
Gli odierni ricorrenti sostengono, al contrario, che il Tribunale non avrebbe potuto disporre lo scioglimento della comunione ereditaria senza includere nell’asse da dividere anche il cespite oggetto della domanda di usucapione, in assenza di passaggio in giudicato della sentenza parziale che aveva accolto quest’ultima domanda. Così ragionando, tuttavia, si perviene ad un vero e proprio cortocircuito logico, in quanto la riserva di appello formulata avverso la sentenza che decida una domanda di usucapione di un bene compreso in un asse ereditario, del quale sia stata invocata anche la divisione, avrebbe l’effetto di paralizzare il successivo svolgimento del giudizio, e dunque l’esame dell’istanza di scioglimento della comunione. Né si potrebbe sostenere che il Tribunale avrebbe dovuto regolare la divisione dell’asse ereditario senza tener conto della propria decisione parziale, poiché in tal modo la stessa diverrebbe, di fatto, inutiliter data , in quanto i suoi effetti sarebbero vanificati da una mera riserva di appello. In tal modo, si perverrebbe alla conseguenza di attribuire, alla riserva di appello, una efficacia paragonabile all’accoglimento del gravame, il che costituisce un evidente, ulteriore, cortocircuito logico.
Il Tribunale, dunque, ha deciso correttamente la domanda di divisione tenendo conto della sua prima decisione parziale, posto che la stessa, pur oggetto di riserva di impugnazione, non era stata riformata al momento della decisione definitiva della causa in primo
grado. La statuizione complessivamente assunta dal giudice di prime cure, in definitiva, si compone di due momenti separati ma concorrenti tra loro, costituiti, per l’appunto, dalla sentenza non definitiva e da quella definitiva, le quali non possono essere tra loro in contraddizione, ma devono contribuire ad esprimere la complessiva ratio decidendi seguita dal giudice di merito.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 4.200, di cui € 200 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 04 giugno 2024.
IL PRESIDENTE NOME COGNOME