Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 15386 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 15386 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7200/2021 R.G. proposto da : COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
POMPEO
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 8/2021 depositata il 08/01/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Premesso che:
1.NOME COGNOME ricorre con dieci motivi avversati da NOME COGNOME con controricorso, per la cassazione della sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado di rigetto della domanda di usucapione proposta dal ricorrente riguardo ad un terreno, con sovrastante fabbricato rurale, in Casalbordino.
Il ricorrente aveva allegato di avere posseduto il terreno dal 1976 uti dominus. Nell’ambito di esecuzioni forzate in danno della srl RAGIONE_SOCIALE il terreno era stato trasferito con decreto del giudice dell’esecuzione del 28 maggio 2013 alla controricorrente.
La Corte di Appello, a motivo della decisione, ha innanzi tutto richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui ‘Ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente perché, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere trattarsi di attività svolta “uti dominus”; l’interversione nel possesso non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia possibile desumere che il detentore abbia iniziato ad esercitare il potere di fatto sulla cosa esclusivamente in nome proprio e non più in nome altrui, e detta manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e della concreta opposizione al suo possesso’ (Cass. 17376/2018; Cass. 18215/2013). La Corte di Appello ha poi osservato che il terreno oggetto di causa è limitrofo rispetto ad altro terreno del Di NOME, che i due terreni erano stati originariamente parti di un unico compendio di proprietà del
Monastero di Santa Maria dei Miracoli, che il Monastero aveva frazionato il compendio vendendo, nel 1989, alla srl RAGIONE_SOCIALE il terreno poi divenuto della COGNOME ed oggetto di causa e, nel 2001, al COGNOME Tullio il terreno limitrofo, che, fino dal 1976, il COGNOME aveva coltivato, in parte a vigneto e in parte ad uliveto, sia il terreno oggetto di causa sia il terreno che poi lui stesso avrebbe acquistato, che dalla CTU di primo grado era emerso che le coltivazioni erano omogenee e si estendevano sui due terreni senza soluzione di continuità, che identiche, per quanto riguarda il vigneto, erano state le emergenze della perizia estimativa eseguita nell’ambito della procedura di esecuzione forzata in danno della Euromec, che tale perizia non aveva fatto riferimento all’uliveto, che il Di NOME aveva dichiarato, in un procedimento penale, di avere iniziato nel 1976 tale attività di coltivazione, per quanto riguardava il terreno poi acquistato, avendo ‘avuto’ detto terreno ‘dai frati in lavorazione’. La Corte di Appello, sulla base delle ricordate osservazioni, ha argomentato che l’unitaria coltivazione e l’assenza di confinazioni materiali tra il terreno oggetto di causa e il terreno limitrofo inducevano a ritenere che anche la coltivazione del primo fosse iniziata sulla base della concessione ‘in lavorazione’. La Corte di Appello ha concluso che il rapporto materiale del Di NOME con il terreno oggetto di causa era nato non come possesso uti dominus ma come detenzione. Ha poi aggiunto che non vi era prova che il Di NOME avesse compiuto utili atti di interversione della iniziale detenzione in possesso antecedenti ad una lettera del febbraio 2006 con cui il Di NOME si era opposto alla richiesta della Euromec di rilascio del terreno, affermandosene possessore uti dominus da oltre trenta anni;
il ricorrente ha depositato memoria;
considerato che:
1.con il primo motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. violazione o falsa applicazione degli
artt.115, 166 e 167 c.p.c. per avere la Corte di Appello rigettato il motivo di appello volto a censurare la decisione di primo grado per avere il Tribunale ammesso ‘eccezioni’ sollevate dalla COGNOME solo in comparsa conclusionale e poi dalla stessa ribadite nella memoria di replica. Si deduce che la COGNOME, mentre con l’originaria comparsa di costituzione aveva negato che il COGNOME NOME avesse posseduto l’intero terreno de quo ammettendo però che ne avesse posseduta una parte, con la comparsa conclusionale e con la comparsa di replica aveva eccepito che il COGNOME non aveva posseduto affatto il terreno e che la coltivazione del fondo ed il pagamento delle imposte gravanti sul fondo non erano idonee manifestazioni di possesso ed aveva anche eccepito che il Monastero aveva concesso al COGNOME il terreno limitrofo a quello oggetto di causa.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha rigettato il motivo di appello affermando che tali ‘eccezioni’ erano in realtà ‘argomentazioni difensive’ come tali suscettive di essere proposte anche con la comparsa conclusionale. In riferimento alla prospettazione per cui la COGNOME avrebbe inizialmente ‘ammesso’ che il COGNOME NOME aveva posseduto una parte del terreno, va detto che lo stesso ricorrente riporta il testo della pretesa ‘ammissione’ a pagina 17 del ricorso. Dalla lettura del testo si evince che non vi è stata alcuna ammissione, avendo la COGNOME affermato che il Di NOME non ‘è’ nel possesso del terreno e ‘… se mai vi è stato … un possesso sarebbe solo parziale ed individuabile, tutt’ al più, se prova offerta tanto dovesse dimostrare, in quelle 20 are che il CTU ha osservato essere adibite a vigneto’.
Per il resto, le altre contestazioni, ivi inclusa quella per cui il Di Tullio avrebbe detenuto il fondo limitrofo a quello oggetto di causa, sono state correttamente qualificate come mere argomentazioni difensive, trattandosi di contestazioni del possesso, fatto costitutivo
della pretesa dell’attore, e non di eccezioni, ossia di allegazioni di fatti impeditivi o modificativi del riconosciuto possesso;
2. con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. violazione o falsa applicazione degli artt.2729, 1141 c.c. Si contesta il ragionamento presuntivo svolto dalla Corte di Appello a fondamento della conclusione per cui il rapporto di fatto del NOME con il bene in questione era iniziato come detenzione.
3. con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, c.p.c. violazione o falsa applicazione degli artt.112 c.p.c., 1144 c.c. 2697 c.c. 2729, 1141 c.c. Si deduce che la Corte di Appello avrebbe d’ufficio fatto riferimento alla tolleranza del Monastero rispetto alla attività di coltivazione laddove invece l’esistenza di atti di tolleranza costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto. Si deduce altresì che la Corte di Appello avrebbe presunto la tolleranza pur in presenza di una attività di coltivazione che per caratteristiche e durata avrebbe dovuto presumersi incompatibile con la tolleranza;
4.con il quarto motivo di ricorso si lamentano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n.4, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt.1141 c.c. e degli artt. 132 e 161 c.p.c. nonché nullità della sentenza per motivazione apparente.
Si ripropone la contestazione proposta col secondo motivo avverso il ragionamento presuntivo svolto dalla Corte di Appello a fondamento della conclusione per cui il rapporto di fatto del NOME con il bene in questione era iniziato come detenzione. Con il motivo in esame, in particolare, il ragionamento viene criticato per esser privo di motivazione;
5.con il quinto motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell’art.116 c.p.c.
Si deduce che la Corte di Appello avrebbe errato nel fare riferimento alla interversione del possesso posto che, nel caso di
specie, il rapporto di fatto del ricorrente con il terreno de quo si era fin dall’inizio estrinsecato come possesso corrispondente al diritto di proprietà;
6. con il sesto motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n.4, c.p.c., violazione dell’art. 132 c.p.c. In sostanza si sostiene che la domanda di usucapione era fondata e che quindi la motivazione della sentenza che ha affermato il contrario sarebbe ‘apparente e contraddittoria’;
7. con il settimo motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell’art. 1141 c.c. Si deduce che la Corte di Appello avrebbe male applicato la pronuncia di legittimità n.18215/2013 posto che tale pronuncia ‘ritiene che la coltivazione del fondo non è indice di presa di possesso quando la stessa attività di coltivazione possa essere iniziata con il consenso del proprietario, potendo qualificarsi quale mero detentore chi abbia ricevuto l’incarico di coltivare il terreno in questione dal proprietario stesso, mentre ‘così non è avvenuto nel caso di specie’;
8. con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, c.p.c., violazione dell’art.132 c.p.c. per avere la Corte di Appello affermato che il primo atto di interversione del possesso risaliva al febbraio 2006 omettendo di tener conto di alcuni documenti riferiti a un periodo precedente.
Il settimo motivo di ricorso ha priorità logica rispetto ai motivi da due a sei e all’ottavo motivo.
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza di legittimità -sia con le decisioni richiamate dalla Corte di Appello sia con pronunce successive (v. in particolare Cass. 1796 del 2022) è nel senso che ‘In relazione alla domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo non è sufficiente, ai fini della prova del possesso “uti dominus” del bene, la sua mera coltivazione,
poiché tale attività è pienamente compatibile con una relazione materiale fondata su un titolo convenzionale o sulla mera tolleranza del proprietario e non esprime, comunque, un’attività idonea a realizzare esclusione dei terzi dal godimento del bene che costituisce l’espressione tipica del diritto di proprietà. A tal fine, pur essendo possibile, in astratto, per colui che invochi l’accertamento dell’intervenuta usucapione del fondo agricolo, conseguire senza limiti la prova dell’esercizio del possesso “uti dominus” del bene, la prova dell’intervenuta recinzione del fondo costituisce, in concreto, la più rilevante dimostrazione dell’intenzione del possessore di esercitare sul bene immobile una relazione materiale configurabile in termini di “ius excludendi alios” e, dunque, di possederlo come proprietario escludendo i terzi da qualsiasi relazione di godimento con il cespite predetto’ (così la Cass. 1796/2022).
La tesi del ricorrente per cui la giurisprudenza di legittimità riterrebbe dunque ‘che la coltivazione di un fondo non sia indice di presa di possesso quando le stesse attività di coltivazione possano essere stare iniziate su consenso prestato dal proprietario, potendo qualificarsi come detentore chi abbia ricevuto l’incarico di coltivare un terreno dal proprietario stesso’, travisa evidentemente la statuizione giurisprudenziale che viene ridotta ad un non senso: chi coltiva come detentore non è possessore.
Ciò posto, tutti gli altri motivi sono inammissibili perché non attengono alla ratio della decisione impugnata: in relazione alla domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo non è sufficiente, ai fini della prova del possesso “uti dominus” del bene, la sua mera coltivazione;
9. con il nono motivo di ricorso si lamenta in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, c.p.c., violazione dell’art.112 c.p.c. per avere la Corte di Appello limitato la pronuncia alla domanda di usucapione ordinaria ex art. 1158 cc. omesso di pronunciarsi sulle domande di
usucapione ex art. 1159 c.c. e 1159 bis c.c. proposte in via subordinata.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha rigettato per intero l’appello dopo avere dato conto anche delle due suddette ulteriori domande, avendo escluso il possesso del ricorrente. Ha così escluso il fondamento anche delle subordinate domande di usucapione decennale (art. 1159 c.c.) e di usucapione speciale (art. 1159 bis c.c.) entrambi presupponenti il possesso;
10. con il decimo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 15, 91 e 92 c.p.c. per avere la Corte di Appello, in primo luogo, posto le spese del giudizio a carico del ricorrente laddove invece avrebbe dovuto compensare le spese in ragione del fatto che erano state rigettate alcune eccezioni della controparte e, in secondo luogo, liquidato le spese anche in relazione alla fase istruttoria del giudizio di appello, con la motivazione che era stato necessario ‘riesaminare l’intero compendio istruttorio formato nel precedente grado di giudizio’, laddove invece ai fini delle spese la fase istruttoria consiste solo nella ‘raccolta e assunzione di prove’ 11. il motivo è infondato.
Con riguardo alla prima contestazione si osserva che, in tema di spese processuali l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 13299 del 16/06/201).
Con riguardo alla seconda contestazione è sufficiente richiamare Cass. n.8561 del 27/03/2023: ‘In materia di spese processuali, ai fini della liquidazione del compenso spettante al difensore, il d.m. n. 55 del 2014 non prevede alcun compenso specifico per la fase istruttoria, ma prevede un compenso unitario per la fase di trattazione, che comprende anche quella istruttoria, con la
conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento;
in conclusione il ricorso deve essere rigettato;
le spese seguono la soccombenza;
PQM
la Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 3000,00, per compensi professionali, €200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma 4 giugno 2025.