Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14565 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 14565 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24608/2023 R.G. proposto da : COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME
-ricorrenti- contro
COGNOME
-intimato- nonché contro
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME E NOME COGNOME
-intimati-;
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO PALERMO n. 843/2023 depositata il 03/04/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Premesso che:
1.NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME proposero opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 c.p.c. contro la sentenza del Tribunale di Termini Imerese n.122 del 7 maggio 2009 con cui il fabbricato rurale sito a Collesano (Pa), INDIRIZZO di cui essi opponenti si dicevano proprietari, era stato dichiarato di proprietà di NOME COGNOME in causa tra quest’ultimo e NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
NOME COGNOME contestava il fondamento dell’opposizione e chiedeva in via riconvenzionale accertarsi che il fabbricato era di sua proprietà per avvenuta usucapione avendone egli avuto il possesso per oltre un trentennio.
Il Tribunale dichiarava l’inefficacia della sentenza n.122/2009 nei confronti degli opponenti, dichiarava, in rescissorio, che questi ultimi erano proprietari del fabbricato e dichiarava infondata la domanda riconvenzionale del Di COGNOME.
Questi impugnava la sentenza e la Corte di Appello di Palermo, con sentenza n.843 del 28.4.2023, accoglieva l’appello dichiarando , in riforma della precedente decisione, il fabbricato di proprietà dell’appellante. La Corte di Appello condannava gli appellati NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME a rifondere al NOME COGNOME 1/3 delle spese di causa e compensava i restanti 2/3 in ragione della fondatezza della opposizione.
La Corte di Appello, richiamato l’art.1141, primo comma, c.c., osservava che i COGNOME e la COGNOME non avevano contestato che il
COGNOME avesse, per oltre trentacinque anni, esercitato un potere di fatto sul fabbricato in questione; affermava che l’esercizio del potere di fatto, esclusivo e continuato, risultava anche dalla deposizione del teste COGNOME il quale aveva riferito che il COGNOME aveva utilizzato il fabbricato come stalla e poi come magazzino per il formaggio, nonché dall’autorizzazione rilasciata dal Comune di Collesano nel 1985 al COGNOME perché questi potesse tenere un animale da soma nel fabbricato; riteneva che i COGNOME e la COGNOME non avevano dato prova della loro tesi per cui il potere di fatto sarebbe stato esercitato dal COGNOME in forza di ‘comodato precario’; valutava infatti come insufficiente l’unica testimonianza in tal senso, resa da NOME COGNOME posto che, per un verso, tale testimonianza andava valutata ‘con particolare prudenza’ essendo il teste marito di NOME COGNOME e cognato di NOME e di NOME COGNOME e che, per altro verso, in una lettera inviata il 9 maggio al Di COGNOME dall’ ‘avvocato COGNOME su incarico di NOME COGNOME si faceva riferimento ad una detenzione ‘senza titolo’ mentre non si faceva riferimento ad un originario contratto di comodato e si prospettava di voler agire per ‘l’indennità da illegittima occupazione’ il che, non essendovi nella lettera alcuna indicazione per cui la pretesa dell’indennità sarebbe stata limitata alla sola occupazione temporalmente successiva alla lettera stessa, ‘non si concilia con l’esistenza di un rapporto di comodato’; aggiungeva, infine, che era del tutto irrilevante, rispetto alla prova della ‘situazione di fatto dell’immobile e dell’animus possidendi dell’appellante’, la circostanza che il Comune di Collesano avesse emesso, nel 1995, una fattura per fornitura idrica dal 1988 al 1990, a carico non di NOME COGNOME ma di NOME COGNOME;
2.contro la sentenza della Corte di Appello NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ricorrono con cinque motivi;
NOME COGNOME NOME è rimasto intimato;
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME sono rimasti intimati;
considerato che:
preliminarmente, ogni questione sulla regolarità della notifica del ricorso nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME resta superata dal fatto che il ricorso, come si vedrà a breve, è infondato. Pertanto, trova applicazione del principio -costantemente ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte -secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione “prima facie” infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia
dell’effettività dei diritti processuali delle parti (tra le varie, v. Cass. 12515/2018);
passando allo scrutinio dei motivi, il primo di essi è così rubricato: ‘violazione o falsa applicazione di norme di diritto art. 360, comma i, n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 112, 113, 115, 116, 132 co. 1 n. 4 e 277 co. 1 c.p.c.; artt. 1140, 1141, 1144, 1158 1810, 2697, 2909 c.c. e artt. 111, co. 1, 2 e 6 Costituzione’.
Si deduce che la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che il COGNOME avesse posseduto il fabbricato in questione, posto che egli ‘invece occupava il fabbricato per tolleranza dei parenti’.
Si deduce altresì che essi ricorrenti non avrebbero mai riconosciuto che il COGNOME avesse avuto il possesso del fabbricato, che non vi sarebbero state prove che il COGNOME avesse posseduto il fabbricato, che il COGNOME avrebbe ‘confessato di occupare il bene e la proprietà antecedente in capo ai ricorrenti’, che la Corte di Appello avrebbe mal valutato sia la testimonianza di NOME COGNOME sia la lettera del 9 maggio 2002, che la Corte di Appello avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. facendo riferimento d’ufficio all’art. 1141 c.c. in assenza di qualsiasi riferimento a tale disposizione da parte del Di COGNOME.
Il motivo è inammissibile perché esso, al di là della intitolazione in rubrica, si riduce, attraverso il richiamo di pagine degli atti di causa, alla prospettazione di una lettura dell’intero compendio istruttorio opposta a quella datane, motivatamente, dalla Corte di Appello.
Il motivo si scontra pertanto con il noto principio per cui il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il
potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (tra le tante, v. Cass, Sez. 5 – , Ordinanza n.32505 del 22/11/2023).
Non ricorre alcun vizio di motivazione -che, si ricorda, dopo la riforma dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. è denunciabile per cassazione solo se si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, e purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, ossia nei casi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 8053/2014)né alcuna violazione dell’art. 2697 c.c. -tale violazione configurandosi soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (ved. Cass. 26769 del 2018).
Nel caso di specie, infatti, la Corte di Appello ha chiaramente espresso le ragioni della decisione esponendo che il rapporto di fatto del Di Mariano con l’immobile risaliva a tempo più che sufficiente all’usucapione, che tale rapporto di fatto doveva presumersi come possesso ai sensi dell’art.1141 c.c. in difetto di prova, da parte degli attuali ricorrenti, che si fosse trattato di rapporto sorto in base ad un contratto di comodato. Questa Corte
ha affermato in una situazione opposta a quella accertata dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza impugnata che ‘in un contratto ad effetti obbligatori, la “traditio” del bene non configura la trasmissione del suo possesso ma l’insorgenza di una mera detenzione, sebbene qualificata, salvo che intervenga una “interversio possessionis”, mediante la manifestazione esterna, diretta contro il proprietario/possessore, della volontà di esercizio del possesso “uti dominus”, atteso che il possesso costituisce una situazione di fatto, non trasmissibile, di per sé, con atto negoziale separatamente dal trasferimento del diritto corrispondente al suo esercizio, sicché non opera la presunzione del possesso utile “ad usucapionem”, previsto dall’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene derivi da un atto o da un fatto del proprietario non corrispondente al trasferimento del diritto’ (Sez. 2 , ordinanza n.29549 del 22/10/2021).
Deve poi aggiungersi che il riferimento dei ricorrenti alla ‘ tolleranza ‘ e quindi all’art.1144 c.c. introduce in questa sede di legittimità una questione di diritto (implicante accertamenti in fatto) nuova, in assenza di precisazione sul se e quando la stessa sia stata prospettata nel merito, non essendovi nella sentenza impugnata alcun cenno alla questione medesima: la relativa disamina è pertanto inammissibile.
3. il secondo motivo di ricorso è così rubricato: ‘omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di decisione tra le parti. Art. 360, comma n. 5 c.p.c., in relazione agli artt. 1140, 1141, 1144, 1158, 1810, 2697, 2909 c.c. e artt. 112, 113, 115, 116, 132 co. 1 n. 4 e 277 co.1 c.p.c. e artt. 111, co. 1, 2 e 6 costituzione’.
Sotto questa rubrica si ripropone quanto dedotto con il primo motivo sotto la diversa prospettazione per cui la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto dei fatti che, secondo i ricorrenti, sarebbero emersi dal complesso delle dichiarazioni rese dalle parti
e dai testi e dalla documentazione, segnatamente l’autorizzazione data al COGNOME dal Comune di Collesano, la fattura emessa dal Comune per la fornitura idrica, la lettera dell’avvocato COGNOME del 9 maggio 2002.
Il motivo è inammissibile in quanto, come il motivo precedente, veicola una lettura del materiale istruttorio diversa da quella datane dai giudici di secondo grado al fine di ottenere in questa sede di legittimità un riesame del merito. Questa Corte (tra le varie, Sez. U, n.33476 del 27/12/2019) ha affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito;
4. il terzo motivo di ricorso è così rubricato: ‘Motivazione assente, apparente e perplessa art. 360, commi n. 4 e 5 c.p.c., in relazione agli artt. 1140, 1141, 1144, 1158, 1810, 2697, 2909 c.c. e artt.112, 113, 115, 116, 132 co. 1 n. 4 e 277 co.1 c.p.c. e artt. 111, co. 1, 2 e 6 Costituzione’.
Il motivo riproduce, dichiaratamente (v. ricorso pagina 37: ‘I rilievi formulati nei capi che precedono inducono per ulteriore scrupolo e tuziorismo, a enunciare il presente ulteriore motivo di impugnazione, qualora i precedenti non siano ritenuti accogliibili), ciò che è stato dedotto con il primo e con il secondo motivo.
Il motivo è infondato.
Sulla assenza di vizi della motivazione della sentenza si richiama quanto evidenziato in riferimento al primo motivo di ricorso;
5. il quarto motivo di ricorso è così rubricato: ‘Violazione o falsa applicazione di norme di diritto art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 91 e 92 co. 2 c.p.c., e 113 c.p.c.’.
Si deduce che la decisione della Corte di Appello di compensare le spese per un terzo e di porre le spese per due terzi a carico degli
attuali ricorrenti è ‘ingiusta’ e si chiede che le spese siano poste totalmente a carico del DI Mariano o siano compensate per intero.
Il motivo è inammissibile alla luce del principio per cui la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (tra le varie, Cass. Sez. 2, n.30592 del 20/12/2017);
6. il quinto motivo di ricorso è così rubricato: ‘Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., in relazione agli artt. 91 e 92, co. 2, c.p.c. ed art. 112, 113 e 115 c.p.c.’.
Si deduce che la Corte di Appello, essendo fondate le precedenti censure, avrebbe dovuto condannare il DI COGNOME alle spese del primo e del secondo grado di giudizio.
Il motivo è inammissibile perchè non veicola una autonoma e specifica censura alla sentenza impugnata, ma prospetta quelle che avrebbero dovuto essere le conseguenze della riforma della sentenza per l’ipotesi, non verificatasi, di riconosciuta fondatezza di una delle censure formulate con motivi precedenti;
in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;
non vi è luogo a pronuncia sulle spese dato che NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME
sono rimasti intimati;
sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma 20 maggio 2025
Il Presidente NOME COGNOME