Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5854 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5854 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso (iscritto al n. 18741/2018 R.G.) proposto da:
COGNOME NOME COGNOME nato a Reggio Calabria il 19 agosto 1955 (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE e NOME COGNOME nata a Reggio Calabria il 24 luglio 1950 (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, entrambi elettivamente domiciliati in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME unitamente all’avv. NOME COGNOME che li rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità (indirizzo p.e.c. del difensore: EMAIL);
-ricorrenti –
contro
CITTÀ RAGIONE_SOCIALE DI REGGIO CALABRIA (Partita I.V.A.: P_IVA), subentrata alla Provincia di Reggio Calabria ai sensi della l. n. 56 del 2014, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME che rappresenta e difende l’ente stesso, giusta procura speciale allegata alla comparsa di costituzione di nuovo difensore depositata il 19 dicembre 2022 (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ EMAIL);
-controricorrente –
n. 18741/2018 R.G.
COGNOME
Rep.
C.C. 7 novembre 2024
Proprietà Usucapione.
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria n. 259/2017, pubblicata il 10 maggio 2017;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 7 novembre 2024, dal Consigliere relatore NOME COGNOME
lette le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 380 -bis .1. c.p.c.;
FATTI DI CAUSA
1.- Con atto di citazione notificato in data 13 dicembre 1993, RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio la Provincia di Reggio Calabria per ottenere sentenza dichiarativa del proprio diritto di proprietà, che assumeva di aver acquistato, per usucapione ventennale, sull’immobile sito in Reggio Calabria, alla INDIRIZZO, riportato in catasto alla partita n. 10609, foglio 125, particella 169, subalterno 1.
All’uopo, l’attore affermava di aver posseduto l’immobile fin dall’ottobre dell’anno 1966, periodo in cui gli era stato consegnato dalla madre che lo deteneva a seguito del decesso del padre, COGNOME NOME, dipendente della Provincia di Reggio Calabria.
L’attore, nel corso del giudizio, avanzava anche richiesta di prova testimoniale per provare l’esistenza del rapporto di fatto con l’immobile e la sussistenza del requisito del possesso valido all’acquisto per usucapione.
Per contro, l’amministrazione provinciale convenuta, nel costituirsi in giudizio, contestava sia l ‘ usucapibilità del bene, in quanto facente parte del patrimonio indisponibile dell’ente, sia l’esistenza dei presupposti di fatto per il maturarsi dell’acquisto per usucapione ed eccepiva l’inesistenza di prove circa il possesso e circa l’ interversione della detenzione in possesso.
L’attività istruttoria veniva svolta mediante l’assunzione dell’interrogatorio formale del legale rappresentante della Provincia di Reggio Calabria, nonché mediante l ‘ acquisizione dei bilanci di esercizio e di previsione dell’ente, relativi ad alcune delle annualità successive al 1968 e, precisamente, agli anni 1975, 1976, 1978, 1979 e 1985.
Frattanto, a seguito del decesso dell’attore, si costituivano in prosecuzione i suoi eredi NOME NOME e NOME
Il Tribunale di Reggio Calabria, con la sentenza n. 164/2004 accoglieva la domanda giudiziale proposta da COGNOME NOME e proseguita da COGNOME NOME e COGNOME NOME e, per l’effetto, dichiarava acquistato, per
usucapione, in favore di questi ultimi, il diritto di proprietà sull’appartamento sito in Reggio Calabria, alla INDIRIZZO, riportato al N.C.E.U., alla partita 10609, foglio 125, particella 189, subalterni 1 e 2 e del terreno riportato al N.C.T. alla partita 5522, foglio 125, particella 190.
Con ordinanza del 28 settembre 2004, depositata il successivo 18 ottobre 2004, il Tribunale di Reggio Calabria procedeva inoltre alla correzione dell’errore materiale rilevato in sentenza, nel senso di precisare che gli attori avevano acquistato per usucapione il solo subalterno contrassegnato dal numero 1 e non anche quello contrassegnato dal numero 2.
2.- La Corte d’Appello di Reggio Calabria, con la sentenza oggetto dell’odiern o ricorso per cassazione, accoglieva l’appello principale proposto dalla Provincia di Reggio Calabria e, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di usucapione proposta, in primo grado, da COGNOME NOME e proseguita da COGNOME NOME e COGNOME NOME, condannando questi ultimi al rilascio dell’immobile libero e vuoto da persone e cose, nonché al risarcimento dei danni subiti dall’amministrazione provinciale per l’occupazione del cespite, quantificati in €. 96.282,44 (euro novantaseimiladuecentottantadue/44), oltre interessi e rivalutazione monetaria. Inoltre, respingeva l’appello incidentale proposto da COGNOME NOME e COGNOME NOME e condannava questi ultimi al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava, per quanto di interesse in questa sede: a ) che non era stata fornita la prova del possesso ultraventennale dell’immobile, non essendo stato mai manifestato, con atti contrari al diritto di proprietà della Provincia, il mutamento dell’ animus detinendi in animus possidendi e, quindi, l’avvenuta interversione della detenzione del bene in possesso, poiché tale bene era stato detenuto originariamente da COGNOME NOME, padre dell’originario attore COGNOME NOME, in ragione di un rapporto di locazione che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale; b) che, dunque, l’appartamento era stato semplicemente detenuto, dapprima da Cadile Gino e, successivamente, dai propri eredi COGNOME NOME e COGNOME NOME, in virtù di un precedente rapporto di locazione che vedeva, quale originario titolare ex latere conductoris , COGNOME NOME (padre di COGNOME
Gino), sicché nessuna prova dell ‘ interversione della detenzione in possesso era stata fornita, neanche indirettamente; c) che, ai fini della configurabilità del possesso utile per l’usucapione, è necessaria la sussistenza di un comportamento possessorio continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di altro diritto reale, manifestato con il compimento di atti conformi alla qualità e alla destinazione del bene o comunque tali da rivelare sullo stesso, anche esternamente, un ‘ indiscussa e piena signoria, in contrapposizione all ‘ inerzia del titolare; d) che grava, quindi, normalmente, su colui che invoca l’avvenuta usucapione del bene l ‘ onere di provare in giudizio la necessaria manifestazione del proprio dominio esclusivo sulla res attraverso un ‘ attività apertamente contrastante e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, mentre grava, a carico del convenuto, l’onere di dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale; e) che, nel caso di specie, non solo non era stata dimostrata, da parte dei Cadile, l’interversione della detenzione in possesso del bene e la sua eventuale durata ultraventennale, ma era stata la stessa pubblica amministrazione appellante, attraverso la produzione in giudizio dei bilanci di previsione relativi agli affitti di immobili concessi in locazione in favore dei propri dipendenti o ex dipendenti, per gli anni 1974, 1975, 1976, 1978, 1979 e 1985, a provare che l’immobile in questione era detenuto in forza di un diritto di carattere personale; f) che, peraltro, alla stregua della documentazione prodotta in giudizio, doveva ritenersi provato che l’immobile in questione faceva parte del patrimonio indisponibile, in quanto destinato, già a far tempo dal 1950, al pubblico servizio, consistente nella pronta e facile immissione in servizio dei propri dipendenti e funzionari; g) che, dunque, trattavasi di bene immobile inusucapibile; h) che, tenendo conto di precedente sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, pronunciata in un giudizio pressoché identico a quello in esame, si poteva fare riferimento, quanto al valore locativo dell’immobile, alle valutazioni espresse in sede di consulenza espletata nell’ambito di tale precedente processo, cosicché tale valore ascendeva , al dicembre dell’anno 2001, all’importo di €. 75.515,64 (euro
settantacinquemilacinquecentoquindici/64), somma che, con la rivalutazione monetaria all’attualità, diveniva pari ad €. 96.282,44 (euro novantaseimiladuecentottantadue/44) e sulla quale dovevano, poi, essere applicati gli interessi legali, dal novembre dell’anno 1966 e fino all’effettiva corresponsione.
3.- Avverso la menzionata sentenza d’appello , COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
4.La Città Metropolitana di Reggio Calabria ha resistito con controricorso.
5.- A seguito di proposta di definizione anticipata, ai sensi dell’art. 380 -bis c.p.c., i ricorrenti, con istanza del 4 aprile 2024, hanno chiesto la decisione del ricorso.
6.- Ambedue le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano , ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1141 e 1158 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c. .
Sostengono, in particolare, che RAGIONE_SOCIALE avrebbe esercitato sul bene in questione, dal l’anno 1967 fino alla sua morte, un potere di fatto che doveva essere qualificato come possesso, posto che, nei suoi confronti, non sarebbe mai stata dedotta l’esistenza di un contratto di locazione, contratto mai stipulato neanche con il di lui padre, COGNOME NOME.
Affermano, dunque, che la mancata dimostrazione del sopra citato titolo non poteva giustificare l’attribuzione in capo a RAGIONE_SOCIALE, originario attore, della posizione di detentore e tanto meno poteva giustificare il rigetto della domanda per l’asserita mancata allegazione e dimostrazione dell’esistenza di un successivo atto di interversione del possesso.
Evidenziano, ancora, come COGNOME NOME, dopo la morte del padre COGNOME NOME, avesse occupato l’immobile, pur non avendone titolo (spettando quest’ultimo solo alla vedova di COGNOME NOME) e instaurando su di esso una vera e propria signoria di fatto, corrispondente allo schema della proprietà, senza mai corrispondere alcuna somma all’amministrazione provinciale, la quale, del resto, non ne aveva mai fatto
richiesta né aveva mai intrapreso alcuna azione per riottenere la disponibilità dell’immobile .
2.- La censura è manifestamente infondata.
Ed invero, dalla lettura e disamina del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, può agevolmente desumersi come COGNOME NOME, originario attore e dante causa degli odierni ricorrenti, aveva dedotto che l’immobile oggetto di domanda era stato concesso in locazione dall’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria a suo padre, COGNOME NOME, e che, alla morte di q uest’ultimo, la madre, NOME, moglie del conduttore, ancorché legittimata a subentrare nel rapporto locatizio, aveva deciso di trasferirsi in altra abitazione ed aveva consegnato l’appartamento al figlio NOME ( cfr., all’uopo, la pag. 1 del predetto ricorso).
Orbene, alla luce di tali deduzioni, risulta corretta la qualificazione della relazione con la res dell’originario attore in termini di mera detenzione, operata dalla Corte di merito, poiché il predetto, alla morte del padre, era subentrato nella medesima posizione del suo dante causa (cfr. Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 25887 del 16 ottobre 2018, Rv. 650778-01, secondo cui « In caso di cessazione del contratto di comodato per morte del comodante o del comodatario e di mantenimento del potere di fatto sulla cosa da parte di quest’ultimo o dei suoi eredi, il rapporto, in assenza di richiesta di rilascio da parte del comodante o dei suoi eredi, si intende proseguito con le caratteristiche e gli obblighi iniziali anche rispetto ai medesimi successori. (Nella specie, la S.C. ha rigettato la domanda di usucapione proposta dagli eredi del comodatario, sostenendo che il mantenimento, da parte loro, del potere di fatto sul bene successivamente al decesso del proprio dante causa e del comodante, non avesse mutato la detenzione “nomine alieno” in possesso utile ai fini dell’usucapione). »; cfr., altresì, con riferimento specifico all’ipotesi della locazione, Cass. civ., Sez. 3, ordinanza n., 26670 del 10 novembre 2017, Rv. 646840-01, secondo cui « L’erede non convivente del conduttore di immobile adibito ad abitazione non gli succede nella detenzione qualificata, e poiché il titolo si estingue con la morte del titolare del rapporto (analogamente al caso di morte del titolare dei diritti di usufrutto, uso o abitazione), quegli è un detentore precario della “res locata” al “de
cuius”, sicché nei suoi confronti sono esperibili le azioni di rilascio per occupazione senza titolo e di responsabilità extracontrattuale. »).
Né può assumere rilevanza alcuna la circostanza – dedotta dai ricorrenti – secondo cui a consegnare l’immobile a Cadile Gino sarebbe stata la madre (moglie dell’originario conduttore): infatti, NOME aveva, a sua volta, la mera detenzione dell’immobile e non poteva pertanto trasmetterne al figlio il possesso ad usucapionem (cfr. Cass. civ., Sez. 2, Sentenza n. 11132 del 6 aprile 2022, Rv. 664382-01) .
Risulta del pari irrilevante, ai fini dell’insorgenza di una situazione possessoria valevole ai fini dell’usucapione , il mancato pagamento dei canoni locatizi da parte degli occupanti, giacché « l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi; tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene) » (Cass. civ., Sez. 2, Sentenza n. 2392 del 29 gennaio 2009, Rv. 606397-01, con la quale è stata confermata la decisione del giudice di merito, che aveva escluso la configurabilità dell’interversione del possesso a fronte della volontaria e prolungata inadempienza del conduttore al pagamento del canone).
3.- Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 826, 828, 1158 e 2697 c.c., nonché dell’art. 115 c.p.c. .
Sostengono, al riguardo, come i documenti sulla base dei quali la Corte di merito avrebbe ritenuto che l’immobile oggetto di controversia
rientrasse nel patrimonio indisponibile dell’amministrazione provinciale di Reggio Calabria (tra cui, in particolare, la deliberazione giuntale del 24 novembre 1950 e la nota del Ministero dei Lavori Pubblici del 19 ottobre 1965), con conseguente inusucapibilità dello stesso, non sarebbero mai stati prodotti in giudizio, ma solo richiamati dalla predetta pubblica amministrazione locale.
Aggiungono, inoltre, come, in ogni caso, indipendentemente dall’espressione di una volontà dell’ente di destinare l’immobile a un servizio pubblico, da oltre cinquantadue anni (1966-2018) non vi sarebbe stata la concreta utilizzazione del bene in oggetto a fini di pubblica utilità, dal momento che lo stesso era sempre stato in concreto utilizzato prima da RAGIONE_SOCIALE e, poi, dopo la sua morte, dai suoi eredi, odierni ricorrenti, cosicché non poteva trovare applicazione il disposto del comma 2 dell’art. 828 c.c..
4.- La censura è inammissibile, in conseguenza del rigetto del primo motivo di ricorso, in quanto l’insussistenza dei presupposti del possesso ad usucapionem assorbe la questione, oggetto del secondo motivo, relativa all’inusucapibilità del bene, acc larata dal giudice di merito in relazione alla sua ravvisata appartenenza al patrimonio indisponibile dell’ ente territoriale.
Peraltro, non va sottaciuto come la Corte distrettuale abbia ritenuto provata la destinazione al pubblico servizio dell’immobile, non solo sulla base dei documenti che i ricorrenti deducono essere stati esclusivamente richiamati e mai prodotti dalla Provincia di Reggio Calabria (in particolare, l’atto di Giunta del 24 novembre 1950 e la nota del Ministero dei Lavori Pubblici del 19 ottobre 1965), ma anche in base ad altre risultanze istruttorie e ad altri documenti, che erano stati prodotti dall ‘amministrazione provinciale suddetta , quali la deliberazione della Commissione Provinciale presso l’Ufficio del Genio Civile del 18 febbraio 1963 « con la quale era stata decisa l’omissione della valutazione degli appartamenti concessi a COGNOME NOME e COGNOME NOME poiché considerati patrimonio indisponibile della Provincia », nonché i bilanci di previsione per gli anni 1974, 1975, 1976, 1978, 1979 e i dati a corredo del bilancio 1985, attestanti l’inserimento dell’unità abitativa in questione tra gli alloggi provinciali (cfr. , all’uopo, la pag. 8 della sentenza impugnata).
Le deduzioni in senso contrario dei ricorrenti, i quali sostengono che dal compendio istruttorio non sarebbe emersa alcuna prova della destinazione dell’alloggio al servizio pubblico, si risolvono dunque in una generica contestazione all’accertamento del fatto e alla valutazione delle prove da parte del giudice di merito, ed involgono pertanto profili del giudizio non suscettibili di essere sindacati in sede di legittimità (cfr., al riguardo, Cass., Sez. 5, ordinanza n. 32505 del 22 novembre 2023, Rv. 669412-01, secondo cui « Il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. »).
Del resto, questa Corte ha più volte affermato che « Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice de l caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea
ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. » (Cass., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01).
Inoltre, nella parte in cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha ritenuto irrilevante – ai fini della sdemanializzazione tacita del bene – la mera circostanza che l’immobile fosse occupato dai Cadile, la statuizione impugnata risulta pienamente coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui « La sdemanializzazione può verificarsi anche senza l’adempimento delle formalità previste dalla legge, purché risulti da atti univoci, concludenti e positivi della P.A., incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all’uso pubblico; né il disuso da tempo immemorabile o l’inerzia dell’ente possono essere invocati come elementi indiziari dell’intenzione di far cessare tale destinazione, poiché, per la prova di ciò, è necessario che essi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la P.A. abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo. » (cfr. Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 14269 del 23 maggio 2023, Rv. 667859-01).
5.- Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., la nullità della sentenza impugnata, per motivazione omessa o apparente, con violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e 118, commi 1 e 2, disp. att. c.p.c. , nonché dell’art. 111, comma 6, Cost..
Sostengono, al riguardo, che la Corte di merito avrebbe accolto la domanda di risarcimento danni per l’occupazione senza titolo dell’immobile , sulla base della sola affermazione della fondatezza delle asserzioni dell’appellante, senza sottoporle al necessario vaglio critico, alla stregua delle contestazioni formulate dagli appellati e impedendo così ogni controllo sul percorso logico – argomentativo seguito per la formazione del proprio convincimento.
6.Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,
2056, 1223, 1226 e 2967 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2697 e 2729 c.c..
Sostengono, al riguardo, come la Corte di merito avrebbe proceduto alla liquidazione del danno da occupazione abusiva dell’immobile , senza tenere conto che l’amministrazione provinciale di Reggio Calabria nulla aveva allegato né tanto meno provato con riguardo ai pregiudizi subiti per la mancata utilizzazione del cespite (quali, ad esempio, l’impossibilità di locare o utilizzare il bene, ovvero la perdita di occasioni di venderlo a prezzo conveniente), così decidendo in maniera difforme rispetto al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che esclude la sussistenza del danno in re ipsa .
7.Le censur e, senz’altro suscettibili di essere scrutinate congiuntamente, risultano manifestamente infondate.
Ed invero, la statuizione impugnata, che ha condannato i ricorrenti al risarcimento del danno in favore della Provincia di Reggio Calabria per l’occupazione dell’appartamento, parametrandolo al valore locativo del cespite, risulta coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento del bene, vuoi diretto, vuoi indiretto mediante concessione a terzi dietro corrispettivo. In entrambi i casi, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato (cfr. Cass. civ., Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15 novembre 2022, Rv. 666193-02).
In secondo luogo, quanto al profilo attinente alla motivazione ex art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., con esso i ricorrenti si dolgono della motivazione della sentenza impugnata, sostanzialmente lamentandone l’insufficienza.
Nondimeno, come chiarito da questa Corte regolatrice, « In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta
circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. » .
In particolare, giova rammentare che questa Corte, a sezioni unite, ha chiarito che, dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., operata dalla l. n. 134 del 2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 629830-01).
Nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte di merito ha senz’altro motivato – sia pure in maniera sintetica in relazione alla fondatezza della domanda risarcitoria, facendola discendere dalla pluriennale occupazione abusiva dell’immobile oggetto di controversia, con conseguente perdita del godimento dell’immobile e, con questo, del valore locativo suscettibile di essere ad esso attribuito.
8.- Con il quinto (e ultimo) motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione degli artt. 24 Cost., 6.1 CEDU, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché la nullità della sentenza impugnata, per motivazione omessa o apparente, con violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e 118, commi 1 e 2, disp. att. c.p.c., nonché dell’art. 111, comma 6, Cost..
Sostengono, al riguardo, che la Corte di merito avrebbe proceduto alla liquidazione del danno richiamando le risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio non prodotta in giudizio, non conosciuta dagli odierni ricorrenti, perché espletata nell’ambito di un giudizio al quale i predetti non avevano preso parte e sulla quale, dunque, non si era mai instaurato il contraddittorio.
Aggiungono, inoltre, che a tale consulenza la Corte di merito avrebbe prestato acritica adesione, senza adeguata motivazione, così non consentendo di individuare le ragioni poste a fondamento della decisione
9.- La censura risulta manifestamente infondata, in quanto i ricorrenti non si confrontano con l’insegnamento di questa Corte regolatrice, secondo cui il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti (cfr. Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 840 del 20 gennaio 2015, Rv. 633913-01).
Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha adeguatamente motivato la propria decisione, avendo osservato che la consulenza tecnica d’ufficio a fondamento della pronuncia emanata nell’altro giudizio, « pressoché identico al presente », aveva avuto ad oggetto la stima del valore locativo di un’unità abitativa sita nel medesimo stabile ove è ubicato l’appartamento occupato dai Cadile (cfr., all’uopo, la sentenza impugnata, a pag. 9).
I ricorrenti, inoltre, lamentano genericamente la violazione del diritto di difesa, a causa della formazione del predetto elaborato peritale al di fuori del contraddittorio tra le parti del presente giudizio e della sua mancata acquisizione agli atti di causa, ma non indicano alcun concreto pregiudizio subito in conseguenza della scelta del giudice di merito di ricorrere a tale parametro per la determinazione del valore locativo del cespite, né allegano l’inattendibilità della stima fatta propria dalla Corte distrettuale alla luce dell’effettivo valore e delle caratteristiche dell’immobile da loro occupato, dovendosi sul punt o ribadire che la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (cfr. Cass. civ., Sez. 1, Sentenza n. 23638 del 21 novembre 2016, Rv. 642799-01).
10.- In definitiva, alla stregua delle considerazioni finora sviluppate, il ricorso dev’essere senz’altro respinto.
11.- Le spese e compensi del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
12.- Poiché il giudizio è definito in conformità alla proposta di definizione accelerata , ai sensi dell’art. 380 -bis , ultimo comma, c.p.c., deve farsi applicazione delle disposizioni di cui al l’art. 96, commi 3 e 4, c.p.c., con conseguente condanna ulteriore dei ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, di una somma equitativamente determinata e che si liquida in dispositivo, nonché al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro nei limiti di legge, anch’essa liquidata come da dispositivo.
13.- Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto .
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 5.800,00 (euro cinquemilaottocento/00), di cui
€. 200,00 (euro duecento/00) per esborsi , oltre accessori come per legge; condanna altresì i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, della somma di €. 5.600,00 (euro cinquemilaseicento /00), ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., nonché al pagamento, in favore della Cassa delle Ammende, della somma di €. 3.000,00 (euro tremila/00), ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.c..
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione