Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13156 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 13156 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 18/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 2933-2022 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa da ll’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata nel suo studio in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
ASSELTA COGNOME NOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati nello studio del secondo in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 7525/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata in data 12/11/2021
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il P.G., nella persona del sostituto dott. NOME COGNOME il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avv. NOME COGNOME per parte controricorrente, che ha invocato il rigetto del ricorso
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato l’8.8.2012 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Roma, invocando l’accertamento dell’usucapione di un immobile composto da più appartamenti, affermando di averlo posseduto ininterrottamente e pubblicamente dal 1984, avendolo costruito insieme al compagno, COGNOME NOME, poi divenuto suo marito nel 1988, il quale poi aveva nel 2003 intestato il cespite ai convenuti, suoi figli nati da precedente matrimonio, i quali si erano allontanati dal bene nel 1990. Nella resistenza dei convenuti, che sostenevano di aver consentito la permanenza della Calvesi nell’immobile solo per tolleranza, il Tribunale, con sentenza n. 20613/2015, accoglieva la domanda.
Con la sentenza impugnata, n. 7525/2021, la Corte di Appello di Roma riformava la decisione di prime cure, accogliendo il gravame proposto dagli odierni controricorrenti e rigettando la domanda di
usucapione della COGNOME. La Corte distrettuale riteneva, in particolare, che quest’ultima era rimasta nella detenzione del cespite solo a fronte della tolleranza degli appellanti, e che non avesse dimostrato il compimento di alcun atto utile a realizzare l’interversione del possesso, considerando, a tal fine, insufficiente l’esecuzione di interventi di ristrutturazione sul cespite.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME affidandosi a cinque motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta ed ambo le parti hanno depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., che ha concluso per il rigetto del ricorso, come da requisitoria depositata, e l’avv. COGNOME che ha invocato il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione degli artt. 183 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe consentito agli odierni controricorrenti di modificare parzialmente la loro linea difensiva. In prime cure, infatti, gli stessi si erano difesi semplicemente deducendo l’insufficienza delle allegazioni della Calvesi a dimostrare il possesso sul bene, mentre in seconde cure avrebbero, per la prima volta, allegato la derivazione della relazione con la res da atti di tolleranza e l’assenza della prova di atti di interversione compiuti dalla predetta COGNOME. Si tratterebbe, secondo la ricorrente, di una modifica del petitum non consentita in appello.
La censura è infondata.
Questa Corte ha affermato che ‘ In materia di usucapione, la deduzione del proprietario che il bene sia stato goduto dal preteso possessore per mera tolleranza costituisce eccezione in senso lato e, pertanto, è proponibile per la prima volta anche in appello, sempre che la dimostrazione dei relativi fatti emerga dal materiale probatorio raccolto nel rispetto delle preclusioni istruttorie, giacché il divieto ex art. 345 c.p.c. concerne le sole eccezioni in senso stretto, cioè riservate in via esclusiva alla parte e non rilevabili d’ufficio’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15653 del 05/06/2024, Rv. 671698; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 31638 del 06/12/2018, Rv. 651602).
Gli odierni controricorrenti, infatti, si sono opposti sin dal primo grado all’accoglimento della domanda di usucapione spiegata dalla COGNOME, negando la sussistenza, in capo alla stessa, di un possesso duraturo, pacifico ed ininterrotto, utile ad usucapionem . La specificazione, in sede di impugnazione, circa l’assenza di atti di interversione del possesso non costituisce eccezione in senso stretto, ma mera difesa, come tale consentita senza alcun limite, posto che il sistema delle preclusioni previsto dal codice di rito concerne, sia in primo grado che in appello, l’individuazione dei temi sottoposti alla cognizione del giudice, ma non impedisce il pieno svolgimento dell’attività difensiva, rispetto all’oggetto della controversia, così come determinato nel rispetto dei predetti limiti. Nel caso di specie, l’oggetto della controversia è la configurabilità, in capo alla Calvesi, di una relazione con la res configurabile in termini di possesso ed avente la durata ed i caratteri previsti dall’art. 1158 c.c.; è dunque evidente che la qualificazione di detta relazione nei diversi termini della detenzione, e la deduzione concernente l’assenza della dimostrazione di atti di interversio possessionis , non configurano eccezioni in senso stretto, ma mere difese atte a contrastare la tesi dell’originaria parte attrice e a
revocarne in dubbio il fondamento, sulla base delle allegazioni in punto di fatto già acquisite agli atti del giudizio di primo grado.
Va data continuità, al riguardo, al principio secondo cui ‘L’eccezione in senso stretto, la cui proposizione per la prima volta in appello è vietata dalla norma, consiste nella deduzione di un fatto impeditivo o estintivo del diritto vantato dalla controparte, laddove è mera difesa, come tale consentita, la contestazione dei fatti posti dall’altra parte a fondamento del suo diritto’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14515 del 28/05/2019, Rv. 654080; conf. Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 23796 del 01/10/2018, Rv. 650608; nonché, in termini, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8525 del 06/05/2020, Rv. 657810 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 34053 del 05/12/2023, Rv. 669488, secondo la quale, in particolare, ‘Le eccezioni in senso lato sono rilevabili d’ufficio e sono sottratte al divieto stabilito dall’art. 345, comma 2, c.p.c., sempre che riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo, non essendo invece necessario -pena la vanificazione della distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato- che tali fatti siano stati oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva’ ).
Con il secondo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1158 c.c. ed il vizio della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso il possesso utile ad usucapionem , ritenendo che la permanenza della Calvesi nell’immobile fosse dovuta ad un atto di tolleranza dei proprietari del bene. Ad avviso della ricorrente, la motivazione della decisione impugnata sarebbe illogica, perché da un lato richiederebbe alla COGNOME la prova di un atto di interversione del possesso, ma d’altro canto darebbe atto che fu proprio la predetta a costruire il cespite insieme al suo compagno, padre degli odierni
contro
ricorrenti, alla fine degli anni ’70. Secondo la prospettazione di parte ricorrente, la prova di atti di interversio possessionis non sarebbe necessaria quando, come nella specie, la relazione con la res si sarebbe estrinsecata sin dalla sua origine come possesso, e non invece come detenzione.
Con il terzo motivo, la COGNOME si duole altresì del vizio della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dell’ animus possidendi . Ad avviso della COGNOME, le opere di ristrutturazione eseguite sull’immobile, eccedenti la manutenzione ordinaria, dimostrerebbero la sua intenzione di comportarsi come proprietaria esclusiva del cespite oggetto di causa. Allo stesso modo, la sua prolungata permanenza nell’immobile evidenzierebbe una relazione non configurabile in termini di mera detenzione.
Con il quarto motivo, la ricorrente contesta la violazione dell’art. 74 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte capitolina avrebbe erroneamente configurato la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di parentela ed affinità in realtà non esistente, posto che gli odierni controricorrenti sono i figli del marito della COGNOME, nati da un precedente matrimonio. Gli stessi, dunque, non sono né parenti, né affini, della Calvesi.
Con il quinto ed ultimo motivo, in effetti distinto dal n. 6 e sviluppato alle pagg. 21 e ss. del ricorso, infine, la COGNOME si duole della violazione degli artt. 1144, 1165 e 1167 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il pagamento delle imposte sull’immobile, da parte degli odierni controricorrenti, costituisse atto idoneo ad impedire il decorso del termine di prescrizione acquisitiva. Ad avviso della ricorrente, quando la relazione con la cosa è prolungata nel tempo
e colui che ha il godimento dell’immobile lo ristruttura e si comporta come proprietario esclusivo dello stesso non è possibile ritenere che la stessa perduri a mero titolo di tolleranza
Le suindicate censure, suscettibili di trattazione congiunta perché tutte concernenti la valutazione in fatto e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie condotti dal giudice di merito, sono inammissibili.
La Corte di Appello ha ritenuto non operante, nella fattispecie, la presunzione di possesso prevista dall’art. 1141 c.c., considerando la stessa vinta dalla presunzione che la relazione con la cosa abbia avuto inizio a mero titolo di detenzione, visti i rapporti di affinità esistenti tra le parti (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata) e comunque in base alle risultanze della prova testimoniale, a fronte delle quali ‘… può ritenersi accertata la circostanza che l’appellata ha detenuto l’immobile in cui abitava già con il marito e che l’appartamento indicato con l’int. 5 è stato abitato da NOME COGNOME (figlia della COGNOME e del marito COGNOME NOME). Secondo la Corte distrettuale, inoltre ‘Con riguardo all’immobile int. 5, questo così come dedotto e per nulla contestato, è stato restituito da NOME COGNOME agli odierni appellanti, dunque ne discende non solo il riconoscimento che la proprietà era in capo a questi ultimi, ma che è del tutto ininfluente la circostanza allegata che è stato ristrutturato dall’odierna appellata, che comunque avrebbe al più potuto avere una qualche rilevanza a decorrere solo dall’anno 2000, epoca del preventivo lavori … Quanto all’immobile int. 2, se, come ritenuto, la situazione originaria per cui la Calvesi vi aveva abitato era riconducibile più che ad un atto volontario di apprensione, al fatto che vi conviveva con il marito, padre degli odierni appellanti, in tal caso, nessuna prova è stata data di un atto di interversione, da detenzione in possesso, ovvero di un comportamento tale da far intendere ai proprietari l’avvenuto mutamento dell’esercizio del potere di fatto sul
bene, non più in nome altrui, ma in nome proprio. Circostanza questa, che seppure concretizzata – come argomentato – con l’instaurazione del procedimento di mediazione preliminare al presente giudizio (cfr. verbale doc. 43 del 12.6.2012) è del tutto irrilevante mancando, comunque, il presupposto temporale per l’acquisizione del bene’ (cfr. pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata). La Corte capitolina ha anche aggiunto che ‘Le medesime considerazioni valgono evidentemente per l’asserita disponibilità delle restanti unità immobiliari, altresì, pacificamente, allo stato ‘grezzo’ e dunque, come correttamente eccepito, prive di una qualche destinazione, posto che le opere di manutenzione effettuate per evitare le infiltrazioni di umidità e deterioramento che finirebbero per danneggiare gli altri appartamenti abitati siti ai piani inferiore e superiore sarebbero, ragionevolmente, in capo a chi ha il godimento di questi ultimi’ (cfr. ancora pag. 11 della sentenza). Ed infine, il giudice del gravame ha affermato che ‘Né la presunzione di tolleranza può dirsi contrastata dal fatto che l’appellata ha provveduto a pagare le spese (Eni, Acea e quote consortili) relative all’immobile, perché innanzitutto ne era obbligata in quanto lo utilizzava, ed inoltre perché gli appellanti, come dedotto e non contestato ed altresì provato, hanno dimostrato di avere comunque provveduto al pagamento degli oneri a carico dei proprietari degli immobili (ici, ora imu). Del resto, nessuna contestazione è stata esplicitata con riguardo al fatto dedotto che le cartelle esattoriali allegate dall’appellata -a suo dire relative all’immobile per tributi inevasi- erano in realtà riferite ad infrazioni al Codice della strada ed allo smaltimento dei rifiuti’ (cfr. pag. 12 della sentenza).
La ricorrente contrappone, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito, una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai
risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del
07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639). Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, va evidenziata l’inammissibilità delle doglianze concernenti la motivazione della decisione impugnata, sia perché la stessa, come detto, soddisfa i requisiti minimi previsti dalla legge processuale, sia perché comunque il sindacato della Corte di Cassazione, sul punto, è limitato alle sole ipotesi di omesso esame di fatto decisivo, nella specie insussistente, e di difetto radicale del requisito essenziale previsto dall’art. 132 c.p.c., che nella specie, come già detto, non si configura.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 5.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda