Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32078 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32078 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 221/2022 R.G. proposto da :
NOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio Dragone, rappresentata e difesa dell’avv . NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
-ricorrente-
contro
CURATELA FALLIMENTO AUTOARMENTANO COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’ avv. COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOMECODICE_FISCALE.
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sez. di Taranto n. 339/2021, depositata il 14/10/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con sentenza n. 339/2021, la Corte di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato la decisione di primo grado con cui era stata respinta la domanda proposta da NOME COGNOME diretta ad ottenere l’accertamento dell’usucapione dell’ immobile di proprietà del marito, dichiarato fallito, e che l’istante aveva sostenuto di aver posseduto in modo pieno ed esclusivo a far data dalla dichiarazione di fallimento, senza che la Curatela fallimentare avesse mai avanzato pretese sul bene.
Secondo il giudice distrettuale, non era censurato l’accertamento svolto dal Tribunale in ordine all’esercizio di una mera detenzione, avendo l’attrice occupato l’immobile nella qualità di coniuge del proprietario sulla base di una scelta adottata da ll’esclusivo titolare , né vi era prova del compimento di atti di interversione dopo il fallimento del proprietario.
Per la cassazione della sentenza NOME COGNOME propone ricorso basato su due motivi; il Fallimento di Armentano NOME resiste con controricorso.
Il Consigliere delegato ha formulato proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., ravvisando l a manifesta inammissibilità o infondatezza del ricorso ai sensi dell’art. 366, comma primo, n.3 c.p.c.
Su istanza della parte ricorrente, che ha chiesto la decisione, il Presidente ha fissato l’udienza in camera di consiglio .
In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
Sono infondate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di specificità : l’atto contiene una compiuta esposizione dei fatti controversi e delle vicende processuali, oltre che delle doglianze in diritto, con esaustivo richiamo alle risultanze processuali su cui si fonda l’impugnazione
Il primo motivo di ricorso denuncia la illegittimità della pronuncia, obiettando che, a far data dal fallimento del
proprietario, la ricorrente aveva mutato l’ animus possidendi da detenzione in possesso, non essendo il marito più titolare di alcun diritto sul bene oggetto di controversia e non avendo la Curatela mai intrapreso iniziative volte a rivendicare il bene, mentre l’occupante aveva provveduto a tutti i pagamenti ed esercitato un possesso contro il proprietario, come si era inteso dimostrare con le testimonianze che, tuttavia, non erano state ammesse.
Si censura la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio di primo grado, nonostante il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta dalla Curatela.
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 360, n. 4 c.p.c. per aver la sentenza respinto le istanze istruttorie volte a provare l’ animus possidendi o l’intervenuta interversione nel possesso.
I due motivi sono infondati.
Il ricorso non censura la decisione nel punto in cui ha stabilito che l’uso del bene da parte di NOME COGNOME era iniziato a titolo di detenzione (in tal senso Cass. 18028/2023, nonché, in motivazione e con ulteriori richiami a fattispecie di convivenza di fatto, Cass. 22730/2019; contra Cass. 13259/2009), volendo sostenere che, per effetto del fallimento del coniuge, la COGNOME avena iniziato a godere dell’immobile con animus possidendi e l’ aveva, quindi, usucapito.
Tale assunto non può essere condiviso.
Sebbene nessuna preclusione derivasse in astratto , per l’acquisto a titolo originario della proprietà, dal fatto che l’usucapione non era maturata prima della dichiarazione di insolvenza (Cass. 15137/2021; Cass. 28880/2023), tuttavia il fallimento del proprietario-possessore non aveva mutato l’elemento soggettivo che sosteneva l’esercizio del potere di fatto esercitato dalla ricorrente.
Contrariamente a quanto dedotto, la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni prevista dall’art.
42 R.D. 267/1942, anche se comunemente definita spossessamento, comporta soltanto la presa in consegna dei beni medesimi da parte del curatore e non la sottrazione al fallito ” ope legis ” del loro possesso, non costituendo il fallimento una causa interruttiva del potere di fatto esercitato in concreto (Cass. 4776/1993; Cass. 16853/2005; Cass. 17605/2015).
Persisteva, da un lato, il possesso del coniuge proprietario, mentre la dichiarata situazione di detenzione della ricorrente poteva mutare in possesso pieno non per effetto del fallimento del possessore, ma soltanto con un atto di interversione, consistente non in un semplice atto di volizione interna, ma in una manifestazione esteriore in opposizione al possessore, dalla quale fosse consentito desumere che il detentore aveva cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed aveva iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente ” animus detinendi ” dell'” animus rem sibi habendi ” (Cass. 27411/2019; Cass. 17376/2018; Cass. 26327/2016) e, a tal fine non erano sufficienti i meri atti di esercizio del possesso, posti in essere in virtù materiale disponibilità del bene, come correttamente evidenziato dalla Corte di merito, affermando che anche le prove orali erano dirette semplicemente a dimostrare condotte compatibili con la detenzione, ma non sufficienti a provare l’interversione (Cass. 26327/2016; Cass. 2392/2009).
Quanto alla mancata ammissione delle prove la doglianza difetta della necessaria illustrazione del contenuto dei capitoli e della loro decisività ed è, pertanto, inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c. (Cass. 8204/2018; Cass. 9748/2010; Cass. 19138/2004), restando insindacabile il giudizio di irrilevanza del mezzo istruttorio formulato dal giudice di merito.
Nessuna censura può muoversi alla Corte di merito per non aver compensato le spese nonostante la soccombenza reciproca.
Il sindacato di legittimità è volto a verificare che non sia violato in principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vincitrice, mentre ne esula ogni questione riguardante l’opportunità di disporre la compensazione anche in caso di soccombenza reciproca, che è tema riservato all’apprezzamento del giudice di merito (Cass. 11329/2019; Cass. 30592/2017; Cass. 24502/2017; Cass. 8421/2017: Cass. 2149/2014; Cass. 15317/2013; Cass. 851/1977; Cass. 864/1973).
Il ricorso è respinto, con aggravio delle spese.
Poiché l’impugnazione è stata definita in senso conforme alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis, c.p.c., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis, cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96, cod. proc. civ., con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro nei limiti di legge (non inferiore ad € 500 e non superiore a € 5.000; cfr. Cass. S.u. 27433/2023; Cass. s.u. 27195/2023; Cass. s.u. 27947/2023).
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio , pari ad € 5.000,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%, nonché di € 5.000 ,00 ai sensi dell’art.
96, comma 3, c.p.c. e dell’ulteriore importo di € 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda