Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7059 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7059 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15431/2019 R.G. proposto da:
NOME (C.F. CODICE_FISCALE) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (C.F. CODICE_FISCALE), giusta procura in atti;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE);
-intimato – avverso la sentenza n. 137/2019 della CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI, depositata il 15.03.2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/02/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
Osserva
NOME COGNOME domandò con atto di citazione del 2007 essere dichiarato proprietario per usucapione di uno stacco di terreno, il
convenuto NOME COGNOME si oppose alla domanda adducendo di avere acquistato il bene il 25/9/2002 a un’asta giudiziaria.
Il Tribunale accolse la domanda.
La Corte d’appello di Cagliari rigettò l’impugnazione proposta dal COGNOME.
NOME COGNOME ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria.
Le controparte è rimasta intimata.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 42 e 45 della legge fallimentare, nonché falsa applicazione dell’art. 1158 cod. civ.
Premettendo che la controparte aveva dedotto di essere nel possesso del bene dal 1982 e che il 18/5/1989 il Tribunale di Milano aveva dichiarato il fallimento del Villaggio Punta Nuraghe e il pertinente mappale ricadeva nell’attivo fallimentare e che, come si è anticipato, il ricorrente aveva acquistato nel 2002 il terreno all’asta, mancavano i presupposti soggettivi e oggettivi per la vantata usucapione. Invero, non vi era dubbio, nonostante non si avesse prova della data della chiusura del fallimento, che la vendita all’asta era intervenuta prima di essa. Di conseguenza il possesso era iniziato a decorrere solo sette anni prima dell’apertura del fallimento e il successivo possesso doveva reputarsi privo di efficacia.
5.1. Il motivo deve essere rigettato.
Si è già avuto modo di affermare: poiché la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni prevista dall’art. 42 r.d. n. 267/1942, anche se comunemente definita spossessamento, comporta soltanto la presa in consegna dei beni medesimi da parte del curatore, che ne diviene detentore, e non la sottrazione al fallito “ope legis” del loro possesso, il fallimento non costituisce una causa interruttiva del possesso (Sez. 2, n. 16853, 11/8/2005, Rv. 585055).
Si è inoltre, poi, soggiunto che la redazione dell’inventario da parte del curatore fallimentare, attraverso il quale vengono individuati, elencati, descritti e valutati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione “ope legis” delle stesse al fallito, non costituendo, pertanto, tale atto una causa interruttiva del possesso di quest’ultimo (Sez. 2, n. 17065, 4/9/2015, Rv. 636403).
6. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 115, 116 e 134 n. 4 cod. proc. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, <> interessato.
6.1. La doglianza non supera lo scrutinio d’ammissibilità per il convergere di una pluralità di ragioni.
6.1.1. In presenza di ‘doppia conforme’, trovando applicazione ‘ratione temporis’, l’art. 348 ter, co. 5, cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Sez. 2, n. 5528, 10/03/2014, Rv. 630359; conf., ex multis, Cass. nn. 19001/2016, 26714/2016), evenienza che nel caso in esame non ricorre affatto.
6.1.2. Come noto la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni
obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016; Cass. n. 6758/2022 e, da ultimo, S.U. n. 2767/2023, in motivazione).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Qui non ricorre alcuna delle ipotesi sopra richiamate, avendo la sentenza impugnato reso compiuta e ben comprensibile motivazione.
6.1.3. La ricostruzione probatoria, anche qualora sostenuta dall’asserita violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., non può essere contestata in questa sede, poiché, come noto, l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in
contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. 659037).
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2699, 2700 cod. civ., 116 cod. proc. civ. << in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per avere il la Corte d'appello reputato <>.
7.1. Anche l’ultimo motivo è inammissibile.
Quanto all’asserita violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. valgono le osservazioni di cui immediatamente sopra.
L’asserita violazione, poi, degli artt. 2699 e 2700 cod. civ. risulta priva di pertinenza giuridica. All’evidenza non si è in presenza di un fatto caduto sotto gli occhi del pubblico ufficiale certificante, ma, ben diversamente, come puntualmente sottolineato dalla sentenza, di <>.
In conclusione, il ricorso deve essere, nel suo insieme, rigettato.
Poiché la controparte è rimasta intimata non v’è luogo a statuizione sul capo delle spese.
10. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio