Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10487 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10487 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6216-2019 proposto da:
NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliato in ROMA alla INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso giusta procura in calce al controricorso
dall’AVV_NOTAIO COGNOME;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 3087/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 14/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
Lette le memorie delle parti;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione NOME COGNOME conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Modena il fratello NOME COGNOME, chiedendo lo scioglimento della comunione su un appartamento ad uso di civile abitazione sito in Modena a seguito dell’apertura della successione del padre, NOME COGNOME, nonché la condanna del convenuto al pagamento della metà delle spese sostenute per il compendio ereditario ed al rimborso dei frutti derivanti dal possesso dei beni.
Si costituiva in giudizio il convenuto che, nel contestare la domanda di condanna al rimborso degli esborsi relativi al mantenimento dell’immobile caduto in comunione, eccepiva la prescrizione del diritto di credito relativo alle spese asseritamente sostenute dall’attore e, in via riconvenzionale, l’acquisto per usucapione del bene.
Con separato atto di citazione NOME COGNOME conveniva in giudizio il fratello NOME COGNOME al fine di ottenere una pronuncia di risoluzione per inadempimento del contratto di
transazione del 28/11/1994 -con il quale aveva rinunciato a far valere ogni diritto sull’immobile caduto in successione ed il fratello aveva rinunciato a chiedere i frutti derivanti dal godimento del bene -oltre il risarcimento dei danni.
Si costituiva il convenuto, chiedendo il rigetto delle domande.
Le due cause venivano riunite e decise dal Tribunale di Modena che, con sentenza n. 1660/2013, respingeva la domanda di usucapione, scioglieva la comunione ereditaria sull’appartamento e procedeva alla formazione ed alla assegnazione di due distinte porzioni ai condividenti.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME interponeva appello al fine di ottenere, previa richiesta di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e coeva sospensione del giudizio, la riforma della sentenza, nonché l’accoglimento, in via riconvenzionale, della domanda di usucapione della quota dell’immobile di proprietà del fratello.
Si costituiva NOME COGNOME eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione proposta e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda con conseguente conferma della sentenza.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 3087 del 14 dicembre 2018, nel rigettare l’appello, confermava integralmente la sentenza gravata, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite.
In particolare, il giudice di secondo grado, nel condividere le conclusioni del Tribunale, affermava che ai fini dell’usucapione non è sufficiente il solo possesso del bene ereditario, essendo necessario che il coerede ne abbia goduto in modo tale da evidenziare sia l’impossibilità di un godimento altrui sia
l’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus , volontà non desumibile dal semplice utilizzo ed amministrazione del bene ereditario nonché dal pagamento delle imposte e delle spese di gestione.
La Corte affermava inoltre che dalla documentazione in atti non solo emergeva che tale prova non era stata offerta, ma anche che la sentenza n. 1229/2002 del Tribunale di Modena -dalla quale emergeva che NOME COGNOME aveva impugnato la delibera condominiale deducendo l’omessa convocazione del comproprietario NOME COGNOME -induceva ad escludere che l’appellante avesse esercitato il possesso con l’ animus di proprietario esclusivo dell’immobile.
Per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME propone ricorso sulla base di sette motivi.
NOME COGNOME resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., per violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per omessa o insufficiente motivazione e/o valutazione delle risultanze istruttorie, con conseguente vizio della formazione del convincimento del giudice, avendo la Corte territoriale ritenuto indimostrata la sussistenza dell’ animus possidendi uti dominus da parte dell’odierno ricorrente ed, in particolare, della volontà di escludere dal godimento dell’immobile il fratello, ritenendo, al contrario, il ricorrente di aver fornito la prova di tale volontà attraverso precise prove.
La Corte avrebbe omesso di considerare non solo le prove testimoniali, ma anche fatti in tal senso decisivi quali la locazione dell’immobile a terzi, la gestione ed il pagamento delle spese, il possesso esclusivo delle chiavi dell’immobile e dell’appartamento da parte dello stesso ricorrente, fatti che, secondo quest’ultimo, confermerebbero sia il possesso ininterrotto e continuativo del bene per oltre un ventennio, sia l’ animus possidendi quale volontà univoca di comportarsi come proprietario sul detto immobile, escludendo completamente il godimento dell’immobile da parte del fratello NOME.
Il motivo denuncia, oltre alla tardività dell’eccezione relativa alla presunta carenza dell’ animus possidendi dell’odierno ricorrente, anche l’omessa o falsa applicazione dell’art. 2934 c.c. per non aver la Corte territoriale considerato, nell’evidenziare la necessità dell’uso esclusivo e l’irrilevanza del non uso ai fini della perdita del diritto di proprietà, che la proprietà si estinguerebbe per il maturarsi dell’usucapione. Il ricorrente sostiene a tal proposito di aver domandato l’accertamento dell’usucapione per impossibilità del fratello di godere dell’immobile e non anche per astensione dal suo uso.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per omessa od errata applicazione degli artt. 1141 e 2728 c.c., 113 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver la Corte territoriale omesso di applicare alla fattispecie il principio della presunzione del possesso in capo a colui che esercita, su un bene, un potere di fatto, consistente in una relazione immediata e diretta con la res ai sensi dell’art. 1141, co. 1, c.c., nonché correlato la mancanza dell’ animus possidendi del ricorrente con la
mancata esclusione del comproprietario, ossia ritenere desumibile l’assenza di prova del detto elemento soggettivo dalla non esclusione di NOME COGNOME dalla contitolarità del bene da parte dello stesso ricorrente.
Secondo il ricorrente non solo sarebbe stata fornita la prova, attraverso la deposizione testimoniale nel giudizio di primo grado, del corpus possessionis , ma anche conseguentemente della sussistenza dell’ animus possidendi .
Il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione degli artt. 1165 e 2944 c.c., 113 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4, c.p.c. per aver la Corte territoriale attribuito valore ‘consacrante’ della mancanza dell’ animus possidendi uti dominus di NOME COGNOME, alla sentenza n. 1229/2002 del Tribunale di Modena relativa all’impugnazione di una delibera condominiale da parte dell’odierno ricorrente, che, tra i motivi di doglianza, avrebbe rilevato la mancata convocazione del comproprietario NOME COGNOME.
In particolare, il giudice di secondo grado, così come il Tribunale, avrebbero errato nell’attribuire alla detta impugnazione valore di chiaro riconoscimento del diritto di proprietà del fratello e nell’escludere che il ricorrente abbia esercitato il possesso con l’ animus di proprietario esclusivo dell’immobile. A parere del ricorrente il ricorso avverso la delibera condominiale sarebbe stato depositato successivamente alla maturazione del periodo sufficiente ad usucapire e l’eventuale riconoscimento dell’a ltrui proprietà rileverebbe comunque solo ai fini dell’interruzione
dell’usucapione, che, nel caso di specie, non si sarebbe verificata, né sarebbe stata eccepita dal convenuto.
Il giudice di secondo grado avrebbe pertanto omesso o erroneamente valutato gli elementi esistenti e le prove, non effettuando una corretta lettura della suddetta sentenza del Tribunale che, al contrario, avrebbe portato all’accoglimento dell’impugnazione proposta.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per omessa od errata applicazione degli artt. 1144 e 2697 c.c., 113 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., nonché la nullità della sentenza per omessa motivazione in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. per aver la Corte territoriale erroneamente considerato la tolleranza ex art. 1444 c.c. un elemento ostativo dell’acquisto del possesso e che, se verificatosi tra parenti, la stessa possa anche essere protratta per lungo tempo. A parere del ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe non solo violato il principio della giurisprudenza di legittimità per cui, in presenza di un esercizio sistematico e reiterato di un potere di fatto sulla cosa, gli atti di tolleranza che impediscono l’acquisto del possesso non sono tutti, bensì solo quelli transitori e saltuari, ma anche omesso di esporre l’ iter -logico giuridico nell’applicazione del concetto di tolleranza.
Il ricorrente, inoltre, evidenzia che, anche ammettendo una tolleranza nel lungo periodo, sarebbe onere del soggetto che contesta l’altrui possesso provarla, onere che non sarebbe stato adempiuto dall’odierno controricorrente.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1158 c.c. in relazione
all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché la nullità della sentenza per contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per aver il giudice di secondo grado desunto l’inesistenza dell’ animus possidendi uti dominus in capo al ricorrente dalla documentazione in atti e, significativamente dalle ricevute di pagamento delle imposte/tasse relative al bene immobile da parte dell’odierno controricorrente. Secondo il ricorrente, con tale assunto la Corte sembrerebbe implicitamente affermare che pagando tutte le spese di gestione, il ricorrente avrebbe dimostrato la sussistenza dell’ animus , ponendosi così in contraddizione con l’affermazione della Corte stessa per cui il pagamento delle spese di gestione e delle imposte relative all’immobile non è utile ai fini dell’usucapione.
Il sesto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per omessa od errata applicazione dell’art. 1164 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché la nullità della sentenza per motivazione contraddittoria in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per aver la Corte territoriale applicato alla fattispecie l’istituto dell’interversione del possesso, ritenendo erroneamente che l’intenzione di possedere uti dominus debba essere manifestata al proprietario, al contrario di quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità per cui è sufficiente che sia esercitata in modo pubblico.
A parere del ricorrente, l’esercizio pubblico del possesso da parte dello stesso sarebbe stato provato e sarebbe desumibile non solo dall’avvenuta locazione del bene a terzi e dalla sussistenza di un’ipoteca giudiziale esclusivamente sui suoi beni a seguito di un giudizio di risarcimento del danno promosso da alcuni condomini,
ma anche dalla sua partecipazione alle assemblee di condominio, a differenza del controricorrente, invece, mai convocato.
Il ricorrente inoltre censura la sentenza per aver la Corte adottato una motivazione contraddittoria nella parte in cui afferma l’inapplicabilità dell’istituto dell’interversione del possesso ai fini dell’acquisto per usucapione.
I primi sei motivi di ricorso, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
La sentenza impugnata, nel rigettare la domanda di usucapione del bene comune avanzata dal ricorrente ha deciso la controversia facendo puntuale applicazione dei principi reiteratamente affermati da questa Corte.
In punto di diritto, e quanto al tema sollecitato dal ricorso, relativo all’usucapione di un bene comune, occorre ricordare che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5226/2002), a tal fine, sebbene non sia necessaria l’interversione del titolo del possesso (artt. 1102, 1164 e 1411 cc) è sufficiente l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività. Tuttavia, in vista di tale obiettivo non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall’uso della cosa, occorrendo altresì che il comproprietario ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere ” uti dominus ” e non più ” uti condominus ” (Cass. n. 1783/93, Cass. n. 5687/96, Cass. n. 7075/99).
Peraltro tale inequivoca volontà non può desumersi dal fatto che il comproprietario abbia utilizzato ed amministrato il bene,
provvedendo fra l’altro al pagamento delle imposte e alla manutenzione, sussistendo al riguardo la presunzione ” juris tantum ” che egli abbia agito nella qualità e che abbia anticipato le spese anche relativamente alla quota degli altri comunisti; pertanto colui che invochi l’usucapione ha l’onere di provare che il rapporto materiale con il bene si sia verificato in modo da escludere, con palese manifestazione del volere, gli altri comunisti dalla possibilità di instaurare un analogo rapporto con il bene comune.
In tal senso si veda anche Cass. n. 7221/2009, per la quale il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus , non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune (conf. Cass. n. 24133/2009, per la quale può integrare possesso idoneo all’acquisto per usucapione del bene medesimo solo quando presenti connotati di esclusività e incompatibilità con il compossesso degli altri partecipanti e si traduca, pertanto, in un’attività durevole, apertamente contrastante e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, e non anche – pertanto – per il mero fatto che si risolva in una utilizzazione di detto bene più intensa o diversa da quella
praticata dagli altri comunisti o condomini; Cass. n. 21612/2021; Cass. n. 5416/2011; Cass. n. 23539/2011; Cass. n. 6775/2012; Cass. n. 17630/2013; Cass. n. 11903/2015).
Anche la più recente giurisprudenza ha confermato tale orientamento esegetico, essendosi sostenuto che, ancorché il coerede, prima della divisione, possa usucapire la quota degli altri coeredi, senza necessità di invertire il titolo del possesso, allorché eserciti il proprio possesso in termini di esclusività, ossia in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare l’inequivoca volontà di possedere ” uti dominus ” e non più ” uti condominus “, della cui prova è onerato, non è però sufficiente a tal fine che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa. Peraltro, tale volontà non può desumersi dal fatto che lo stesso ha utilizzato e amministrato il bene ereditario attraverso il pagamento delle imposte e lo svolgimento di opere di manutenzione, operando la presunzione ” iuris tantum ” che egli abbia agito nella qualità di coerede e abbia anticipato anche la quota degli altri (Cass. n. 35067/2022).
Inoltre, è stato precisato che (Cass. n. 9359/2021) il coerede che, dopo la morte del ” de cuius “, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede ” animo proprio ” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere ” uti dominus ” e non più ” uti condominus “, risultando a tal fine insufficiente
l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune (nella specie la Corte, riformando la pronuncia di merito, ha escluso che possa costituire prova dell’usucapione di un appartamento la circostanza che il coerede, che già vi abitava con il padre, abbia continuato, dopo la morte di questi, ad essere l’unico ad averne la disponibilità).
Una volta poste tali coordinate ermeneutiche, alle quali la Corte intende assicurare continuità, si palesa l’infondatezza delle varie censure mosse.
Quanto al primo motivo, ed in disparte l’impossibilità di denunciare il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1, c.p.c., trovando applicazione nella fattispecie l’art. 348 ter ultimo comma, in presenza di un’ipotesi di cd. doppia conforme, va esclusa la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le
prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).
In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui i tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio
prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).
La critica del ricorrente non intende a ben vedere contestare l’erroneo utilizzo delle norme in materia di valutazione delle prove, ma assume, in contrasto con i citati precedenti, che la volontà di escludere il coerede dal possesso sarebbe evincibile anche per il solo fatto di essere rimasto da solo nel godimento del bene ovvero nell’avere concesso in locazione l’appartamento oggetto di causa, trascurando invece che tali condotte, secondo la costante giurisprudenza, non appaiono idonee a configurare un possesso esclusivo, preclusivo del possesso uti condominus degli altri coeredi.
Con specifico riferimento poi alla conclusione di un contratto di locazione della cosa comune da parte del singolo comunista, le Sezioni Unite hanno affermato che siffatta locazione rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 cod. civ., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa (Cass. S.U. n. 11135/2012), affermazioni queste che non permettono di inferire da tale condotta l’esistenza anche di un possesso idoneo ad escludere quello degli altri
coeredi, trattandosi di attività svolta anche nel loro interesse.
I fatti per i quali vi sarebbe la non contestazione sono quindi inidonei a fondare la pretesa di avere maturato un possesso utile ad usucapire, né, come sostenuto nella memoria depositata dal ricorrente, il ragionamento del giudice di merito avrebbe rilevato un’eccezione, sebbene in senso lato, ma tardivamente dedotta, atteso che era onere di colui che invoca l’usucapione dimostrare che il possesso esercitato consentisse l’acquisto a titolo originario, avendo quindi il giudice di merito semplicemente rilevato l’assenza di uno dei fatti costitutivi della pretesa, liberamente riscontrabile in tutto il corso del giudizio (Cas. S.U. n. 2951/2016).
L’erronea individuazione dei presupposti necessari per l’usucapione del bene comune si riflette quindi sulla fondatezza delle ulteriori censure mosse dal ricorrente.
Ad esempio, quanto al secondo motivo, la sentenza impugnata non ha mai posto in discussione il fatto che il ricorrente era effettivamente possessore del bene comune, ma ha piuttosto escluso che tale comportamento, unitamente all’astensione dal godimento del fratello, potesse tramutare il possesso originario in quello avente modalità tali da permettere l’acquisto per usucapione della piena proprietà. Non è in discussione la circostanza che il ricorrente sia rimasto nel godimento del bene sin dalla data della morte del genitore, ma piuttosto è stato escluso che la sua condotta fosse idonea a manifestare l’affermazione di un possesso esclusivo, non apparendo in tal senso risolutivi né che la gestione del bene fosse effettivamente operata dal ricorrente, né che il fratello non avesse mai avuto il
possesso materiale, né che la maggior parte delle spese fossero effettivamente sostenute dal ricorrente, e ciò perché, in assenza di una condotta apertamente ed obiettivamente contrastante con il possesso di diritto vantato dall’altro comunista, la permanenza nel possesso non permette di invocare l’usucapione della quota altrui.
I precedenti richiamati dalla difesa del ricorrente si attagliano alla diversa ipotesi dell’usucapione vantata nei confronti dell’estraneo alla comunione, ma non possono invece costituire valido riferimento ai fini della soluzione della vicenda in esame.
Va poi sottolineato che, per pervenire al rigetto della domanda di usucapione, rileva il solo fatto che non sia stato dimostrato un atteggiamento volto a contestare obiettivamente il possesso del germano, così che il richiamo compiuto in sentenza, circa il fatto che lo stesso ricorrente aveva invocato, in un giudizio di impugnativa di una delibera condominiale, la necessità che allo stesso prendesse parte anche il fratello, più che costituire la ratio che fonda la decisione di rigetto, è un’argomentazione spesa al fine di corroborare la complessiva valutazione degli elementi di prova, onde ricavare che lo stesso ricorrente aveva in realtà inteso ribadire la contitolarità del bene in capo al fratello. Così come del tutto ultronea, sempre ai fini dell’individuazione delle ragioni che sorreggono il rigetto della domanda di usucapione, è il richiamo alla tolleranza operato dalla sentenza di appello, e specificamente attinto dal quarto motivo di ricorso, atteso che, ove anche la possibilità di permanere nel godimento esclusivo prescinda da un atteggiamento di tolleranza da parte del controricorrente, è mancata la prova delle condizioni affinché il
possesso del ricorrente fosse idoneo a determinare l’acquisto della piena proprietà nei confronti del fratello compossessore.
Del pari inidoneo a scalfire la correttezza della decisione impugnata è il quarto motivo di ricorso, e ciò perché, ove anche tutte le spese per la manutenzione del bene fossero state sostenute dal ricorrente, in ogni caso non sarebbe dato rinvenire in tale condotta un elemento idoneo a connotare il possesso in termini di esclusività (e ciò anche a tacere dell’inammissibilità, ex art. 348 ter ultimo comma c.p.c., della denuncia del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1, c.p.c.).
Analoghe considerazioni valgono quanto al sesto motivo, posto che anche in questo caso, oltre ad affermarsi in contrasto con quanto invece sostenuto dal giudice di merito che si sarebbe richiesta un’interversione del possesso (avendo la Corte d’Appello fatto puntuale richiamo ai precedenti di legittimità che per la fattispecie in esame non richiedono un’ interversio possessionis ), si individuano una serie di condotte che non appaiono in alcun modo idonee a configurare quel possesso esclusivo necessario per assicurare l’usucapione del bene comune (locazione dell’appartamento, possesso delle chiavi, convocazione alle assemblee condominiali, azione risarcitoria per danni cagionati dall’appartamento, per la cui legittimazione passiva rileva anche la sola qualità di comproprietario, in quanto corresponsabile in solido).
5. Il settimo motivo lamenta la nullità della sentenza per omessa od errata applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché la nullità della sentenza per contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360, co. 1, n.
4, c.p.c. per aver il giudice di seconde cure, da un lato, applicato in maniera illegittima il disposto dell’art. 91 c.p.c. e, dall’altro, omesso di tener conto dei giusti motivi -in particolare il principio della soccombenza reciproca e complessità della materia -idonei all’applicazione dell’art. 92 c.p.c.
In particolare, secondo il ricorrente, la Corte avrebbe dovuto fare applicazione del citato art. 92 c.p.c., vertendosi nell’ipotesi di soccombenza reciproca, ovvero di solo parziale accoglimento delle domande attoree, con conseguente decisione di procedere con la compensazione parziale delle spese di lite e conseguente condanna del controricorrente al pagamento della quota parte di esse o, quantomeno, la compensazione integrale delle spese.
Il giudice di secondo grado, nella valutazione della soccombenza, avrebbe inoltre dovuto effettuare un esame globale e sistematico della fattispecie che tenesse conto anche della natura complessa della vertenza.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello, contrariamente a quanto riferito dal ricorrente, lungi dal riformare la sentenza di primo grado per il capo relativo alle spese, ha rigettato l’appello ed ha regolato, in base al principio di soccombenza le sole spese del giudizio di appello. Resta pertanto ferma la compensazione delle spese del giudizio di primo grado, non essendo stato tale capo attinto da un motivo di appello incidentale.
Avendo il giudizio di appello ad oggetto quasi esclusivamente la questione relativa all’usucapione, ed essendo il ricorrente risultato all’esito del gravame totalmente soccombente (anche in relazione alla diversa questione concernente il rimborso delle
spese asseritamente sostenute per il bene comune), la sentenza ha fatto corretta applicazione del principio di soccombenza che, limitatamente al giudizio di appello, cui si riferisce il capo oggetto del motivo di ricorso, trova piena applicazione, non potendo invocarsi le diverse considerazioni espresse dal giudice di primo grado per pervenire alla compensazione delle spese del giudizio di primo grado, che a differenza dell’appello, aveva ad oggetto anche la decisione sulla domanda di scioglimento della comunione.
E’ poi del tutto priva di fondamento la pretesa del ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe dovuto espressamente motivare sul perché non riteneva di disporre la compensazione delle spese, essendo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, quello secondo cui la facoltà di disporre la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. n. 14989/2005; Cass. n. 11329/2019).
Il ricorso è rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese in favore di parte controricorrente, che si liquidano come da dispositivo che segue, con attribuzione all’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO dichiaratosene anticipatario.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare
atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente, che si liquidano in complessivi € 5.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, se dovuti, con attribuzione all’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO COGNOME dichiaratosene anticipatario;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 17 aprile 2025