Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5109 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2   Num. 5109  Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 26255-2019 proposto da:
COGNOME  NOME, rappresentata  e  difesa  dall’AVV_NOTAIO  e  domiciliata  presso  la  cancelleria  della  Corte  di Cassazione
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME,  rappresentate  e  difese  dall’AVV_NOTAIO  e domiciliate presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti –
avverso  la  sentenza  n.  666/2019  della  CORTE  D’APPELLO  di SALERNO, depositata il 15/05/2019;
udita  la  relazione  della  causa  svolta  in  camera  di  consiglio  dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato COGNOME NOME e COGNOME NOME evocavano in giudizio COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, eredi di COGNOME NOME, fratello degli attori, innanzi il Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Amalfi, per sentir accertare l’usucapione, in loro favore, di alcuni immobili siti in comune di Furore, compresi nell’asse ereditario della defunta COGNOME NOME, madre dei tre germani, ma posseduti dopo la morte di lei, quali unici proprietari, dagli attori.
Nella resistenza dei convenuti  il Tribunale,  con  sentenza  n. 5963/2016, accoglieva la domanda.
Con la sentenza impugnata, n. 666/2019, la Corte di Appello di Salerno riformava la decisione di prime cure, rigettando la domanda di usucapione originariamente proposta dagli attori in primo grado.
Propone ricorso  per  la  cassazione  di  detta  decisione  COGNOME NOME, erede universale di ambedue gli originari attori, affidandosi a quattro motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
In prossimità dell’adunanza camerale la parte controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con  il  primo  motivo  la  parte  ricorrente,  senza  dedurre  alcuna violazione  di  norma  di  legge,  ribadisce  la  sussistenza  della  sua legittimazione ad agire, in veste di erede universale sia di COGNOME
COGNOME che di COGNOME NOME. In relazione alla prima successione, in particolare, la ricorrente lamenta che la Corte di Appello abbia erroneamente ritenuto mai dichiarato il decesso di COGNOME, evidenziando che esso sarebbe stato, in realtà, ritualmente dichiarato in udienza dal procuratore, con deposito del certificato di morte della parte. Tanto è vero che il giudizio di appello sarebbe stato interrotto e riassunto, con costituzione dell’odierna ricorrente quale, appunto, erede della parte deceduta COGNOME COGNOME.
La  censura  è  inammissibile,  tanto  per  omessa  indicazione  delle norme di legge che si assumono violate, che per difetto di interesse all’impugnazione.
Sotto il primo profilo, va data continuità al principio secondo cui ‘In tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare -con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzionila norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 23745 del 28/10/2020, Rv. 659448; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18998 del 06/07/2021, Rv. 661805).
Sotto il secondo profilo, invece, va osservato che la Corte di Appello ha dato semplicemente atto che il decesso di COGNOME NOME non era  stato  dichiarato  in  primo  grado  e  che,  quindi,  il  giudizio  era
proseguito, in funzione della regola della cd. ultrattività del mandato, nei confronti delle parti originariamente costituite. Nessuna statuizione concernente la mancata costituzione di COGNOME NOME in appello, dunque, risulta dalla decisione impugnata. Dall’affermazione contestata nessuna conseguenza pregiudizievole, né processuale né sostanziale, è derivata per l’odierna ricorrente, onde la censura si risolve nel mero rilievo di un errore formale, in assenza di alcun concreto interesse della parte. Sul punto, va data continuità al principio secondo cui ‘L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice …’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28405 del 28/11/2008; Rv. 605612; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15355 del 28/06/2010, Rv. 613874; Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 2051 del 27/01/2011, Rv. 616029; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6749 del 04/05/2012, Rv. 622515). Infatti ‘… il processo non può essere utilizzato solo in previsione della soluzione in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche’ (Cass. Sez. L, Sentenza n. 27151 del 23/12/2009, Rv. 611498).
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione ed errata applicazione degli artt. 1158 c.c. e 116 c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso l’usucapione, valorizzando la circostanza che nel 2005 COGNOME NOME e COGNOME NOME avevano trasferito a COGNOME NOME soltanto i 2/3 della proprietà dell’immobile oggetto di causa, e non la totalità. Da questo, il giudice di merito avrebbe tratto, con un ragionamento inferenziale erroneo, la conseguenza che i cedenti avrebbero riconosciuto l’esistenza di un altro proprietario titolare del restante terzo della proprietà. La ricorrente
evidenzia, a contrario , che i due cedenti si erano trasferiti nell’appartamento oggetto di causa, che occupavano stabilmente, da oltre venti anni ed avevano quindi usucapito la quota dell’altro coerede, il quale si era del tutto disinteressato della proprietà, anche perché lo stesso viveva e risiedeva negli Stati Uniti e non era più tornato in Italia.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione ed errata applicazione degli artt. 1158 c.c. e 116 c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe esaminato tutte le risultanze istruttorie allegate agli atti del giudizio di merito. In particolare, non avrebbe considerato che i due germani COGNOME NOME e NOME avevano eseguito alcuni interventi sull’immobile e presentato la relativa istanza di condono edilizio; e che COGNOME NOME era stato anche imputato in un giudizio penale per detti interventi, poi definito con sentenza del 2016 con dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo e dissequestro e restituzione dell’immobile all’avente diritto.
Ed infine, con il quarto ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e motivazione inferiore al minimo costituzionale, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe considerato che nel 2005, all’atto della cessione dei 2/3 della proprietà dell’immobile da parte di COGNOME NOME NOME, il restante terzo non avrebbe potuto essere alienato, in assenza di sentenza dichiarativa della relativa usucapione.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
La Corte distrettuale ha dato atto che i due germani COGNOME NOME e NOME avevano posseduto l’immobile oggetto di causa dal 1981, abitandolo e provvedendo alla sua manutenzione. Ha poi rilevato che  il  coerede  può  usucapire  la  quota  dell’altro  coerede  anche  in
assenza di atti formale di interversione del possesso, essendo già egli stesso compossessore del bene, ma deve fornire la prova di aver esteso la sua relazione di fatto con la res in termini di esclusività, in guisa tale da escludere la possibilità di analoga relazione da parte degli altri coeredi. Ed infine, ha affermato che, nel caso di specie, il fatto che l’altro coerede, proprietario di 1/3 del bene ereditario, sia rimasto estraneo alla sua gestione era giustificata dalla circostanza che egli viveva lontano. Su tali premesse, la Corte di merito ha concluso che la materiale utilizzazione del cespite di cui è causa da parte dei danti causa dell’odierna ricorrente fosse dipesa dalla materiale lontananza dell’altro coerede ed ha quindi ritenuto non conseguita la prova del possesso utile ai fini dell’usucapione, in assenza della dimostrazione di ‘… atti univoci volti a dimostrare la volontà di escludere gli altri eredi dal possesso della cosa’ (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘Il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. Non è, al riguardo, univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10734 del 04/05/2018, Rv. 648439; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7221 del 25/03/2009, Rv.
607651; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 08/04/2021, Rv. 660860; nonché Cass. Sez. 2, Sentenza n. 35067 del 29/11/2022, Rv. 666319, secondo la quale la volontà di trasformare il possesso uti condominus in possesso esclusivo uti dominus non può desumersi dal fatto che il coerede abbia utilizzato e amministrato il bene ereditario attraverso il pagamento delle imposte e lo svolgimento di opere di manutenzione, operando anche in questo caso la presunzione iuris tantum che egli abbia agito nella qualità di coerede anticipando anche la quota degli altri e maturando quindi, al massimo, un diritto di credito verso i predetti).
Ciò  premesso,  la  Corte  di  Appello  ha  anche  evidenziato,  come argomento meramente rafforzativo del ragionamento poc’anzi riassunto,  che ‘…  la  vendita  parziale  del  bene,  avvenuta  nell’anno 2005,  per  la  quota  di  soli  2/3,  dimostra  la  consapevolezza  della spettanza  dell’altro  1/3  agli  appellanti’ (cfr.  sempre  pag.  6  della sentenza).
Ne consegue che la motivazione complessivamente resa dal giudice di  appello,  lungi  dall’essere  inferiore  al  cd.  minimo  costituzionale,  è pienamente idonea a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione, non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica o affetta da irriducibile contrasto logico (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
La Corte salernitana, infatti, ha ritenuto che, dal complesso delle risultanze  istruttorie  acquisite  agli  atti  del  giudizio  di  merito,  non emergesse  la  prova  certa  della  sussistenza  della  volontà  dei  due coeredi COGNOME NOME e NOME di escludere dal possesso del cespite ereditario l’altro coerede e loro germano COGNOME NOME.
Non appare decisivo, a contrario, il rilievo che sull’immobile siano stati eseguiti interventi, né che per essi COGNOME NOME sia stato sottoposto a procedimento penale, poiché tali circostanze non sono di per sé idonee, anche al di fuori di un contesto di compossesso, a dimostrare l’esistenza di una relazione con la res in termini di esclusività, né tantomeno possono valere, ove sussista -come nel caso di specie- il compossesso tra coeredi, ai fini della prova della volontà non equivoca di escludere dalla predetta relazione uno dei coeredi, richiesta ai fini della configurabilità dell’usucapione della quota di quest’ultimo.
Peraltro va evidenziato anche che il giudice di merito non è tenuto a dar conto, nella motivazione, di tutti gli elementi istruttori, poiché ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Le  censure  in  esame,  dunque,  finiscono  per  risolversi  in  una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le  spese  del  presente  giudizio  di  legittimità,  liquidate  come  da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater ,  del  D.P .R.  n.  115  del  2002-  della  sussistenza  dei presupposti  processuali  per  il  versamento  di  un  ulteriore  importo  a titolo  contributo  unificato,  pari  a  quello  previsto  per  la  proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la  Corte  dichiara  inammissibile  il  ricorso  e  condanna  la  parte ricorrente  al  pagamento  in  favore  della  parte  controricorrente  delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 4.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così  deciso  in  Roma,  nella  camera  di  consiglio  della  Seconda