LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Ultrapetizione: domanda errata, risarcimento negato

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito che negava un’indennità a un dirigente dimessosi per demansionamento. Il motivo del rigetto risiede in un vizio di ultrapetizione: il lavoratore aveva richiesto un’indennità specifica prevista dal CCNL per ‘mutamento di posizione’, mentre il tribunale di primo grado gli aveva concesso, erroneamente, quella per ‘giusta causa’, che costituisce una domanda giuridicamente diversa. La Suprema Corte ha ribadito che il giudice non può pronunciarsi oltre i limiti della domanda formulata dalla parte.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Ultrapetizione: quando una domanda sbagliata annulla il diritto

Nel diritto del lavoro, avere ragione sui fatti non basta per vincere una causa. È fondamentale che la domanda presentata al giudice sia formulata correttamente, pena il rigetto della stessa per motivi procedurali, come il vizio di ultrapetizione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre un chiaro esempio di come un errore nella qualificazione giuridica della propria richiesta possa portare alla perdita totale del risarcimento, anche a fronte di un palese demansionamento.

I fatti di causa

Un dirigente, nominato direttore generale di una società nel 2001, subisce a partire dal 2018 un completo svuotamento delle sue mansioni. Ritenendo questa situazione una giusta causa, comunica le proprie dimissioni e agisce in giudizio per ottenere il pagamento di un’indennità pari a dodici mensilità, come previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL).

In primo grado, il Tribunale accoglie la sua domanda, riconoscendo l’esistenza di una giusta causa di dimissioni ai sensi dell’art. 2119 del codice civile e condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso. Sembrerebbe una vittoria su tutta la linea, ma la vicenda è tutt’altro che conclusa.

La decisione della Corte d’Appello e il vizio di ultrapetizione

La società datrice di lavoro impugna la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello, ribaltando la decisione, respinge integralmente la domanda del lavoratore. Il motivo? La Corte rileva una fondamentale distinzione tra due diverse ipotesi di dimissioni previste dal CCNL applicato:

1. Dimissioni per ‘mutamento di posizione’ (art. 24 e 39 CCNL): una specifica fattispecie che dà diritto a un’indennità se il dirigente si dimette entro 60 giorni da una modifica sostanziale della sua posizione.
2. Dimissioni per ‘giusta causa’ (art. 2119 c.c. e art. 38 CCNL): la classica ipotesi in cui il rapporto di lavoro si interrompe per un grave inadempimento del datore di lavoro, che dà diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte d’Appello evidenzia che il lavoratore, nel suo ricorso iniziale, aveva fondato la sua richiesta esclusivamente sulla prima ipotesi (mutamento di posizione), mentre il Tribunale gli aveva concesso un’indennità basata sulla seconda (giusta causa). Così facendo, il giudice di primo grado era incorso nel vizio di ultrapetizione, pronunciandosi su una domanda mai proposta e violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.).

Le motivazioni della Cassazione sul divieto di ultrapetizione

Il lavoratore ricorre in Cassazione, sostenendo che il Tribunale non avesse violato alcun limite, ma si fosse semplicemente limitato ad applicare una norma giuridica diversa (art. 38 CCNL) a fatti e richiesta (petitum) rimasti immutati. La Suprema Corte, tuttavia, rigetta il ricorso e conferma la decisione d’appello.

I giudici di legittimità spiegano che non si trattava di una mera diversa qualificazione giuridica dei medesimi fatti. Le due domande (quella per ‘mutamento di posizione’ e quella per ‘giusta causa’) hanno presupposti, disciplina e conseguenze diverse. Cambiare dall’una all’altra non è una semplice correzione (emendatio libelli), ma una vera e propria modifica sostanziale della domanda (mutatio libelli), inammissibile.

La Cassazione, esaminando gli atti del processo, ha confermato che il ricorso introduttivo del dirigente era inequivocabilmente basato solo sugli articoli 24 e 39 del CCNL. Pertanto, il Tribunale, riconoscendo l’indennità prevista dall’art. 38 dello stesso CCNL e dall’art. 2119 c.c., aveva effettivamente deciso su una domanda diversa e mai formulata, incorrendo in un palese vizio di ultrapetizione.

Le conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale del nostro ordinamento processuale: il giudice deve attenersi scrupolosamente ai limiti della domanda che gli viene sottoposta. Anche di fronte a una situazione di palese ingiustizia subita dal lavoratore, il sistema non permette al giudice di ‘sostituirsi’ all’avvocato e correggere una domanda mal impostata. La precisione nella redazione degli atti giudiziari è cruciale. Confondere due istituti giuridici, anche se apparentemente simili, può avere conseguenze fatali per l’esito della causa, trasformando una ragione fondata in una sconfitta processuale. La scelta della corretta azione legale e la sua precisa formulazione sono il primo, indispensabile passo per ottenere giustizia.

Cosa significa “ultrapetizione” in un processo?
Significa che il giudice ha emesso una decisione che va oltre (ultra) ciò che è stato richiesto (petitum) dalle parti. In questo caso, il giudice di primo grado ha concesso un’indennità per ‘giusta causa’ quando era stata richiesta solo quella per ‘mutamento di posizione’.

Perché il lavoratore ha perso la causa pur avendo subito un demansionamento?
Ha perso perché ha fondato la sua richiesta giudiziale su una base giuridica (indennità per ‘mutamento di posizione’) che la Corte d’Appello e la Cassazione hanno ritenuto distinta e non intercambiabile con quella per ‘giusta causa’. Poiché il giudice non può concedere qualcosa di diverso da ciò che è stato chiesto, la sua domanda è stata rigettata.

È possibile per il giudice applicare una norma diversa da quella indicata dalla parte?
Sì, il giudice può e deve applicare la norma giuridica corretta ai fatti presentati (principio ‘iura novit curia’), ma non può modificare la natura della domanda, ovvero il bene della vita richiesto (petitum) e i fatti costitutivi a suo fondamento (causa petendi). In questo caso, la Corte ha stabilito che le due domande erano così diverse da non permettere una semplice riqualificazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati