Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27722 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L   Num. 27722  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21121-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro tempore,  rappresentata  e  difesa  dagli  avvocati  NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso  la  sentenza  n.  140/2021  della  CORTE  D’APPELLO  di L’AQUILA, depositata il 11/02/2021 R.G.N. 254/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/09/2025 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Fatti di causa
Oggetto
R.G.N. 21121/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 09/09/2025
CC
La Corte d’appello di L’Aquila, con la sentenza in atti, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE ed ha confermato la sentenza del tribunale di Lanciano che aveva respinto l’opposizione al decreto ex art. 28 L. n. 300/70 che aveva dichiarato l’antisindacalità della condotta tenuta da RAGIONE_SOCIALE per aver omesso di effettuare le trattenute sindacali in relazione alla cessione di credito di cui aveva ricevuto la comunicazione da parte dei suoi dipendenti di versare alla RAGIONE_SOCIALE contributi sindacali trattenuti mensilmente sulle retribuzioni e dovuti in forza delle deleghe conferite dai lavoratori aderenti alla predetta OS; il tribunale aveva altresì ordinato alla RAGIONE_SOCIALE di cessare siffatto comportamento e di rimuoverne gli effetti procedendo all’immediato pagamento di euro 10 mensili per ciascuno iscritto full time e ciò sino alla data di revoca delle iscrizioni predette (per chi aveva revocato) ovvero sino alla data di accredito ordinario dei contributi, oltre a rivalutazione ed interessi.
A fondamento della sentenza, la Corte d’appello ha ritenuto la legittimazione attiva del sindacato RAGIONE_SOCIALE sulla scorta della effettiva diffusa attività sindacale (sottoscrizione di numerosi accordi, indizione di scioperi, partecipazione all’iniziative di confronto sindacale) su almeno gran parte del territorio nazionale siccome accertato in giudizio; ha inoltre disatteso l’eccezione di tardività del ricorso ex art. 28 depositato in data 14/12/2018 in quanto nella fattispecie, pur se la prima comunicazione della parziale cessione del credito in favore del sindacato RAGIONE_SOCIALE era del 9/2/2017, RAGIONE_SOCIALE aveva continuato a non operare le trattenute sindacali sugli stipendi dei lavoratori richiedenti, anche nelle mensilità successive, con effetti permanenti rinnovando mensilmente la propria condotta
negatoria  che  era  proseguita  anche  a  seguito  della  ricezione delle note di diffida in data 19/4/2017 e 9/8/2018.
La Corte d’appello ha anche affermato l’irrilevanza dell’elemento soggettivo ai fini dell’integrazione del comportamento sindacale e nel merito ha sostenuto che, a seguito del referendum abrogativo del 2° e 3°comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, la materia delle trattenute sindacali era regolata dalla autonomia privata ed in particolare dal principio generale della libera cedibilità dei crediti sancito dall’art. 1260 c.c. anche senza il consenso del creditore (come affermato dalla Cassazione n. 14032/2004 e ribadito dalle Sezioni Unite n. 28269/2005); era perciò legittima la cessione del credito operata dai lavoratori in favore del proprio sindacato di appartenenza secondo i principi civilistici che regolano la cessione del credito con conseguente antisindacalità del comportamento del datore di RAGIONE_SOCIALE che rifiuti di darvi corso.
Ha rilevato inoltre che la normativa del d.p.r. n. 180/1950, nel testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalle leggi nn. 311 del 2004 e 80 del 2005, non vietava affatto la cessione di credito di natura retributiva ma aveva soltanto resa più rigida la disciplina in materia di cessione del quinto dello stipendio finalizzata all’estinzione di prestiti monetari allo scopo di contrastare il fenomeno dell’usura. La nuova normativa non vietava pertanto ai dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito retributivo per il pagamento delle quote associative alle organizzazioni sindacali, trattandosi di fattispecie indubbiamente ricompresa nelle previsioni del novellato art. 52 del d.p.r. 180 del 1950.
La Corte ha altresì evidenziato che la stessa disposizione non era menzionata nella sentenza impugnata e che non era stato proposto un motivo di appello di omessa pronuncia sul punto.
Ha inoltre escluso i profili di incostituzionalità dedotti rispetto al precetto di cui all’art. 75 della Costituzione ed infine – quanto al preteso diritto di ottenere il rimborso di spese aggiuntive necessarie per dar corso in modo reiterato con cadenza mensile alla contabilizzazione ed al versamento della quota di credito ceduta – ha osservato che la parte appellante non aveva provato in modo puntuale e convincente che l’obbligo di effettuare le trattenute ed i successivi versamenti alle organizzazioni sindacali avesse comportato e comporterà in concreto a suo carico un aggiuntivo ed insostenibile onere in rapporto alla sua organizzazione aziendale.
Da ultimo la Corte territoriale ha pure rigettato l’appello in punto di errata quantificazione delle spese di lite di primo grado, sostenendo che il primo giudice aveva correttamente applicato lo scaglione delle cause di valore indeterminabile, atteso che il petitum della domanda non era costituito solo dal pagamento dei contributi essendo stato chiesto anche e soprattutto l’accertamento della antisindacalità della condotta datoriale al fine di ottenere la rimozione degli effetti prodotti in passato, ma anche la cessazione della medesima condotta antisindacale in proiezione futura.
Avverso  la  sentenza  ha  proposto  ricorso  per  cassazione  RAGIONE_SOCIALE con sei motivi ai quali ha resistito RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. All’esito della decisone il Collegio ha riservato il deposito dell a motivazione nel termine di 60 giorni.
Ragioni della decisione
1.-  Con  il  primo  motivo  si  deduce  ex  art.  360  n.3  c.p.c. violazione o falsa applicazione dell’articolo 28, legge n. 300 del 1970 e dell’articolo 116 c.p.c. in relazione all’eccepito difetto di legittimazione attiva di RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE .
Il motivo è inammissibile perché mira in realtà al riesame dell’accertamento di fatto effettuato motivatamente dal giudice di merito circa l’esistenza della legittimazione del sindacato ricorrente sulla scorta della effettiva attività svolta anche a livello nazionale; quello che la censura sollevata richiede e’ appunto il riesame dei documenti allegati da RAGIONE_SOCIALE a sostegno della diffusione nazionale della propria attività sindacale, una valutazione istruttoria non appartenente a questo Corte di cassazione e di pertinenza del giudice di merito, non potendo il vizio di legittimità essere mediato dal riesame di dati istruttori. Quanto all’art. 116 c.p.c. non sussiste alcuna violazione di detta norma non avendo la Corte violato i limiti stabiliti dalla norma valutando secondo il suo prudente apprezzamento delle prove legali, ovvero considerando come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione discrezionale ( Cass. n. 1229 del 17/01/2019).
Inoltre va rilevato che il potere del giudice di legittimità di sindacare gli accertamenti di fatto è limitato alla mancanza della motivazione nei termini indicati da SU n. 8053/2014 o alla mancata valutazione di un fatto decisivo o al travisamento del fatto, nei limiti in cui esso è deducibile in cassazione e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707)
2.- Con il secondo motivo, si deduce ex articolo 360 n. 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 28, l. n. 300 del 70 per l’inammissibilità del ricorso avversario in quanto tardivo.
2.1.  Il  motivo  è  infondato  attesa  la  pacifica  permanenza  e persistenza  della  condotta  sindacale  messa  in  atto  e  la  sua
proiezione nel tempo, per come argomentato dal giudice di merito con valutazione logica ed argomentata e pertanto non sindacabile in questa sede. Ed invero in punto di attualità della condotta deve rilevarsi che essa esiste anche quando sono durevoli gli effetti di un comportamento antisindacale già consumato. Nel caso di specie, inoltre, le istanze di accredito delle somme dovute a titolo di contributivo sono state riproposte anche in seguito, con reiterazione del comportamento illegittimo, come accertato dal giudice di merito.
3.- Col terzo motivo ex articolo 360, numero 3 c.p.c. si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 28 della legge n. 300 del  1970  in  relazione  alla  inesistenza  del  comportamento antisindacale per carenza dell’elemento soggettivo.
Il  motivo  è  infondato  sia  perché  non  occorre  l’elemento soggettivo ai fini dell’art. 28  e sia perché  esso  involge accertamenti  di  merito,  essendo  apodittico  sostenere  che  la volontà  di  non  volersi  sobbarcare  costi  che  non  sono  di competenza, porti automaticamente ad escludere l’intenzione di danneggiare l’organizzazione RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE.
4.-  Col  quarto  motivo,  si  sostiene  ex  art.  360,  n.  3  c.p.c.  la violazione o falsa applicazione dell’art. 26 legge n. 300 del 70, dell’art. 1260 c.c. e dell’art.1 d.p.r. n. 180 del 1950, attesa la insussistenza del diritto di RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE alle cessioni di credito.
Il motivo  è infondato, anche  alla luce delle precisazioni effettuate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 13/1995, con cui è stato ammesso il referendum abrogativo sul  2° e 3° comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, avendo la Corte rileva to come ‘l’intento dei promotori del referendum è quello di restituire la materia all’autonomia privata facendo semplicemente  venir  meno  l’obbligo  giuridico  che,  scaturito
dalle abrogande disposizioni, avrebbe in concreto determinato un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore, anche indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo. Ben altra sarebbe l’ipotesi in cui l’assunzione dell’obbligo datoriale derivasse da una genuina espressione di autonomia negoziale. Allora l’operare di altri istituti civilistici quali la cessione di credito o la delegazione di pagamento, al medesimo fine utilizzabili, si collocherebbe su un piano contrattuale e non sarebbe attuativo di una prescrizione legislativa”.
In altri termini, come affermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, l’effetto del referendum abrogativo è stato quello di eliminare dall’ordinamento il diritto del sindacato e l’obbligo del datore di RAGIONE_SOCIALE da tale norma nascente, ma non di porre un divieto e rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote  associative  sindacali  a  mezzo  trattenuta  operata  dal datore di RAGIONE_SOCIALE.
Non esistono perciò i presupposti, ad avviso del Collegio, per investire la Corte Cost. di una nuova questione di legittimità costituzionale, per contrarietà all’esito del referendum, atteso che quella in vigore non rappresenta una regolamentazione identica o analoga a quella oggetto del referendum abrogativo. Anche dopo il referendum sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali che prevedono l’effettuazione delle trattenute ed è stata sostituita la fonte contrattuale a quella legale; la normativa valevole sul piano contrattuale non è contraria all’esito scat urito dal referendum, perché l’effetto di questo è stato soltanto di eliminare una norma attributiva di un diritto, ma non di vietare comunque la condotta con cui tale diritto si esplicava.
La Corte di Cassazione lo ha ribadito nella sentenza n. 3917/2004, successiva al referendum, sostenendo l’assoluta legittimità dell’utilizzo della cessione del credito come strumento per ottenere il pagamento da parte delle organizzazioni sindacali delle quote associative e stabilendo che una norma che vieta al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative attraverso le trattenute sulla retribuzione dei dipendenti non esiste, né è stata introdotta come effetto o a seguito del referendum.
L’effetto del referendum è stato quello di espungere una norma, ma non certamente quello di determinare l’interpretazione di altre norme in vigore ( come l ‘a rt.1260 c.c.) o di imporre di per sé  effetti  impeditivi,  quali  ad  esempio  un  ipotetico  divieto  di cessione.
E poi, evidente che l’istituto della cessione del credito di natura privatistica  non  preveda  in  generale  il  consenso  del  debitore ceduto, essendo solamente necessaria la notificazione  di  tale decisione  (Cass.  n.  5321/2017);  né  si  vede  perché  diversa dovrebbe essere la materia delle trattenute sindacali.
Pertanto,  a  seguito  della  cessione  di  credito,  il  sindacato ricorrente  è  divenuto  titolare  del  credito  ceduto  e  la  società convenuta  aveva  l’obbligo  legale  di  adempiere  secondo  le disposizioni impartite dal lavoratore cedente risultando quindi inadempiente nei confronti di RAGIONE_SOCIALE.
Risulta perciò che la datrice di RAGIONE_SOCIALE rimanendo inadempiente abbia dato luogo anche ad un comportamento antisindacale ai sensi  dell’art.    28  dello  Statuto,  che  si  caratterizza  per  la plurioffensività, configurando esso una violazione nei confronti dei lavoratori cedenti ed una condotta lesiva nei confronti del RAGIONE_SOCIALE  cessionario  del  credito  che  dai  contributi  dei  propri associati  trae  anche  i  mezzi  per  lo  svolgimento  dell’attività
sindacale. Il rifiuto  opposto dalla convenuta di procedere alle trattenute  in  favore  del      RAGIONE_SOCIALE  assume  anche  caratteri discriminatori rispetto agli altri sindacati che invece ricevono i contributi  sindacali,  a  nulla  rilevando  la  diversità  dei  mezzi giuridici utilizzati allo scopo atteso che il rifiuto dell’azienda di effettuare le trattenute sindacali costituisce un ostacolo all’esercizio e allo sviluppo dell’attività sindacale (Cass. 3917/2004, n. 24612 del 02/10/2019 ).
Tutto ciò è stato pure ribadito dalle Sezioni Unite n. 28269/05 le cui giuste e consolidate considerazioni resistono ai rilievi critici sollevati nell’infondato ricorso che si giudica ; è stato infatti osservato dalla SU che ‘Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 dello statuto dei lavoratori, e il susseguente d.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di RAGIONE_SOCIALE, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato – cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore -, richiedere al datore di RAGIONE_SOCIALE di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso; qualora il datore di RAGIONE_SOCIALE affermi che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza. L’eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l’inadempimento del debitore ceduto, finché il creditore non collabori a modificare le modalità della prestazione in modo da
realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto del datore di RAGIONE_SOCIALE di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività ‘ . Non rileva nemmeno la mancata sottoscrizione del contratto collettivo da parte di RAGIONE_SOCIALE in quanto la cessione di credito è uno strumento che prescinde dall’esistenza di un contratto collettivo.
RAGIONE_SOCIALE sostiene inoltre che nella fattispecie opererebbe il divieto di cui  al  novellato  art.  1  del  d.p.r.  n.  180  del  1950,  nel  testo vigente  (a  seguito  delle  norme  introdotte  dalle  leggi  nn. 311/2004 ed 80/2005) ai sensi del quale non possono essere sequestrati, pignorate e cedute, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge e gli stipendi, salari e le paghe.
Ma, al contrario, la corretta interpretazione del sistema normativo sorregge la conclusione presa dalla Corte di merito secondo cui il d.p.r. n.180/1950 non vieti ai lavoratori dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito retributivo per il pagamento delle quote associative alle organizzazioni sindacali, trattandosi di fattispecie derogatoria consentita dalla stessa normativa indicata ai sensi del successivo art. 52 d.p.r. 180/ 1950, il quale prevede il diritto dei lavoratori di cedere quote della retribuzione, per finalità diverse dall’estinzione dei debiti, alle condizioni ivi stabilite.
D’altra parte la tesi sostenuta dalla ricorrente solleva essa sì un sospetto di legittimità costituzionale della normativa in
commento, ai sensi degli artt. 3 e 39 Cost., laddove si tradurrebbe in un illogico impedimento del sostegno volontario dei lavoratori all’efficace esplicarsi della azione sindacale protetta dalla Costituzione come strumento per l’elevazione dei medesimi lavoratori e con essi dell’intero Paese ed introdurrebbe un divieto di cessione che si pone esplicitamente contro la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 3917/2004) la quale, come già detto, ha osservato che in seguito al referendum un divieto di cessione non esiste, né è stato introdotto dal legislatore.
Inammissibile è poi la pretesa di voler accertare in questa sede l’insussistenza  di  un  comportamento  antisindacale  in  fatto (Cass.  22229 del 2024).
5.-  Col  quinto  motivo  si  sostiene  ex  art.  360  n.  4.  .c.p.c.  la violazione o falsa applicazione dell’art. 116  c.p.c. ai fini dell’accertamento  e  la  declaratoria  del  diritto  della  società  di ottenere il rimborso delle spese necessarie per decorso in modo reiterato con cadenze mensili alla contabilizzazione del versamento della quota di credito ceduto.
Il motivo ò inammissibile sia perché mira alla rivalutazione degli accertamenti in fatto effettuati dal giudice di merito in ordine all’inesistenza di chiare prove sui pretesi costi da rimborsare ad RAGIONE_SOCIALE; sia perché il giudice di merito non ha violato  l’art.  116 c.p.c. nei termini in cui il contenuto della norma viene inteso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016).
6.Col sesto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art.  91 cpc circa la condanna alle spese per l’errata  quantificazione,  avendo  i  giudici  d’appello  ritenuto corretta la sentenza di primo grado in punto di quantificazione delle spese di lite pari a 12.500 oltre rimborsi, Iva e cpa che la
società in quanto soccombente era stata condannata a corrispondere  in  favore  dell’RAGIONE_SOCIALE applicando erroneamente lo scaglione relativo al valore indeterminabile per essere l’importo preteso dal sindacato pari a complessive 18 20 € e quindi di valore non indeterminabile.
Il  motivo  è  inammissibile  in  quanto  privo  di  autosufficienza posto  che  la  censura  avrebbe  dovuto  indicare  in  che  misura sarebbero  stati  violati  i minimi  tariffari;  inoltre  esso  non sottopone  a  critica  e  non  si  confronta  con  la  ratio  decidendi avendo il giudice di merito accertato che l’oggetto della causa non comprendesse solo il pagamento di una somma precisa, ma anche  l’accertamento  della  condotta  antisindacale  e  fosse pertanto di valore indeterminabile
7.- In conclusione, per  le ragioni sopra indicate,  il ricorso deve essere  rigettato  e  la  ricorrente  va  condannata  al  pagamento delle spese processuali, che si liquidano come da dispositivo con distrazione per l’AVV_NOTAIO antistataria .
Sussistono altresì le condizioni per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’articolo 13, comma 1 bis d.p.r. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in € 6000,00 per compensi e € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli altri oneri di legge, con distrazione per l’AVV_NOTAIO antistataria. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater d.p.r. numero 115 del 2000, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 9.9.2025 La Presidente dott.ssa NOME COGNOME