Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21178 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21178 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 996/2024 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BRESCIA n. 922/2023, depositata il 31/05/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE e C. (per brevità d’ora in avanti RAGIONE_SOCIALE) che, avendo concluso con RAGIONE_SOCIALE un contratto di cessione gratuita dell’uso dell’impianto di distribuzione di prodotti petroliferi sito nel comune di Bibbiena (Ar), distribuiva carburanti con marchio e insegna Esso, conveniva in giudizio la RAGIONE_SOCIALE, all’epoca dei fatti RAGIONE_SOCIALE divenuta cessionaria del ramo d’azienda cui apparteneva l’impianto di distribuzione di Bibbiena, affinché fosse condannata a corrisponderle la somma di euro 29.600,00, come previsto nell’Accordo Aziendale sulla Viabilità Ordinaria della rete di Distribuzione della RAGIONE_SOCIALE, intercorso con le associazione di categoria dei gestori maggiormente rappresentative a livello nazionale –RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE – del 16.07.2014, già disciplinato nel precedente Accordo Aziendale del 19.12.2011, nella parte relativa alla cosiddette quote fisse, la quale prevedeva che ai gestori sarebbe stato applicato «l’ulteriore sconto variabile (…) con liquidazione dello stesso in tre tranches da Euro 3.700,00 cadauna con scadenze fisse entro il 20 febbraio, il 20 giugno e il 20 ottobre di ogni anno».
La RAGIONE_SOCIALE contestava di essere subentrata nell’Accordo Aziendale del 16.7.2014, assumendo essere la vicenda disciplinata dall’art. 19, comma 3, della l. n. 57/2001 piuttosto che dall’art. 2558 cod. civ.
Si doleva della illegittimità della clausola di ultrattività contenuta nell’Accordo Aziendale del 16.7.2014 e del mancato adempimento
dell’onere della prova in ordine al quantum richiesto da parte della RAGIONE_SOCIALE
Con ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 702 bis e ss. cod.proc.civ. in data 3.11.2022 il Tribunale di Brescia accoglieva la domanda, condannando la RAGIONE_SOCIALE al pagamento dell’importo di euro 29.600,00, oltre agli interessi di mora.
Il gravame interposto dalla RAGIONE_SOCIALE è stato rigettato dalla Corte d ‘A ppello di Brescia, con la sentenza n. 922/2023, depositata il 31/05/2023, ha rigettato il gravame.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso la società RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
Le parti, hanno depositato rispettiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione dell’art. 2558 cod. civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3 cod.proc.civ., per avere la corte territoriale, ritenendo non pertinente la giurisprudenza di legittimità evocata a loro supporto, disatteso tutte le argomentazioni con cui aveva dedotto che alla vicenda per cui è causa non dovesse applicarsi l’art. 2558 cod.civ.
Lamenta non essersi dalla corte di merito considerato che, attesa la natura aziendale degli accordi intercorsi tra la RAGIONE_SOCIALE e le associazioni di categoria, gli stessi fossero applicabili solo alle parti che li avevano sottoscritti.
Si duole non essersi dalla corte di merito considerata l’inapplicabilità dell’art. 2558 cod.civ., atteso che « l’automatico subentro del cessionario nei contratti stipulati dal suo dante causa si verifica solo a condizione che si tratti di contratti a carattere non
personale, inerenti all’esercizio dell’impresa, per i quali non sussista una regolamentazione specifica e diversa, come per i contratti di lavoro, di consorzio e di edizione, rispettivamente regolati dagli art. 2112 cod.civ., 2610 cod.civ. e 132 l. 22 aprile 1941 n. 633».
Nel dedurre che trattasi di elencazione non tassativa, lamenta che «le peculiarità dei contratti collettivi e l’esistenza di norme di carattere primario ad essi distintamente riferite» supportano il convincimento che le vicende successorie che li riguardano (come quella che per cui è causa) siano soggette alle citate norme costituendo le stesse una specifica diversa disciplina, volta a normare la liberalizzazione dell’attività di distribuzione di carburante e l’ammodernamento della rete distributiva».
Si duole essersi la corte di merito limitata ad affermare che l’attività di erogazione di carburante è un servizio pubblico soggetto al d.lgs. n. 32/1998 e alla legge n. 57/2001 e che dette discipline depongono per l’esistenza del collegamento negoziale tra i diversi contratti che i titolari delle autorizzazioni per la vendita di carburante sono soliti concludere con i gestori dei distributori (e le loro associazioni di categoria) di cui sono proprietari, anziché considerare che proprio l’ esistenza di «specifica diversa disciplina» precludeva la possibilità di applicare l’art. 2558 cod.civ. , atteso che altrimenti il cessionario si ritroverebbe a dover adottare un regolamento negoziale completamente avulso dalle proprie esigenze aziendali a fronte del d.lgs. n. 32/1998 e della l. n. 57/2001, prevedenti l’applicabilità al «titolare di autorizzazione, concessione, o fornitore» di «specifici accordi aziendali» da lui stesso conclusi «con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale dei gestori».
Il motivo è infondato.
Il ragionamento della corte d’appello si basa su una pluralità di argomenti, alcuni dei quali sono stati ignorati o almeno sottovalutati dalla società ricorrente.
In sintesi, il giudice a quo ha ritenuto che:
l’erogazione dell’attività di carburanti è da ricondurre nell’ambito dei servizi pubblici (p. 12);
ii) in conformità del Regolamento eurounitario n. 2790/1999 i rapporti economici tra soggetti titolari di autorizzazione e/o di concessione, i fornitori e le associazioni di categoria dei gestori di impianti di distribuzione del carburanti sono regolati secondo modalità e termini definiti nell’ambito di specifici accordi aziendali, stipulati tra ciascun soggetto titolare di autorizzazione e/o concessione o fornitore e le associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale dei gestori (p. 14);
iii) l’art. 19, comma 3, della l. n. 57/2001 ha disciplinato le modalità di conclusione di detti accordi (p. 15);
iv) stante l’obbligatorietà della regolamentazione collettiva dei rapporti contrattuali ed economici tra i titolari di concessioni/autorizzazioni, i fornitori e i gestori degli impianti di distribuzione del carburante, in particolare quanto ai criteri di formazione dei prezzi di vendita (e dei margini per i gestori), e, quindi, in considerazione dell’efficacia vincolante rispetto al contenuto dei contratti individuali, da attuarsi anche mediante la sanzione di nullità delle clausole difformi volute dalle parti, ai sensi dell’art.1, comma 10, dlgs. n. 32/1998, l’odierna ricorrente era subentrata nell’accordo stipulato da RAGIONE_SOCIALE non avendone stipulato uno diverso;
tra il contratto di cessione gratuita dell’impianto e il contratto di fornitura, nonché tra il contratto di fornitura e l’accordo aziendale disciplinante le condizioni economiche sono negozi collegati;
vi) tale collegamento è confermato dalla previsione di cui al punto 5.1 del contratto stipulato da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE secondo cui «il prezzo di vendita dei carburanti sarà determinato sulla base dei criteri definiti dall’Accordo aziendale concluso tra la
Esso e le Associazioni di categoria dei gestori maggiormente rappresentative a livello nazionale, valido al momento del rifornimento»;
quanto all’art. 2258 cod.civ., non «vi è alcuna espressa preclusione all’applicabilità di tale disposizione normativa anche all’Accordo aziendale stipulato nel 2014, essendo quest’ultimo riconducibile ad un contratto stipulato per l’esercizio dell’azienda»;
vi) la ricorrente volontariamente è subentrata nel suddetto A ccordo, non essendosi avvalsa della facoltà prevista dall’art. 2558, 2° comma, cod.civ. di pattuire diversamente.
Le censure della ricorrente non scalfiscono invero la fondatezza dell’impugnato provvedimento.
Va anzitutto osservato che non risulta (quantomeno idoneamente) censurata la conclusione della corte territoriale in ordine all’efficacia normativa vincolante dell’ Accordo con le associazioni di categoria.
L’odierna ricorrente non ha mai allegato di avere stipulato individualmente un nuovo e diverso Accordo, in conformità «a quanto stabilito dall’art. 1, comma 6 D.lgs. n. 32/1998 e dall’art. 19, comma della L. n. 57/2001»), essendosi limitata a insistere sula formulata tesi del mancato subentro alla sua dante causa in detto A, senza invero dimostrare di avere dato attuazione alla previsione normativa stipulando un diverso Accordo, atteso che solo detto Accordo avrebbe potuto regolare i rapporti tra le parti, in particolar modo rispetto ai prezzi di vendita dei prodotti e al margine di guadagno.
Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’istituto del collegamento negoziale con riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 3 cod.proc.civ.
Si duole che la corte d’appello, richiamati l’art. 1, comma 6, d.lgs. n. 32/1998; l’art. 19, comma 3, l. 57/2001; l’art. 5.1 del contratto di fornitura, abbia rigettato il motivo di gravame relativo all’errata
applicazione delle disposizioni in materia di collegamento negoziale da parte del giudice di primo grado, il quale ne aveva fatto derivare il suo subentro automatico nell’accordo collettivo, affermando che «nel caso specifico i rapporti contrattuali risultano collegati, in quanto unicamente l’esistenza e la funzionalità congiunta di tutti consentono la realizzazione dell’attività di distribuzione dei carburanti in conformità alle disposizioni normative, ai principi di tutela della concorrenza e della parte contrattuale più debole».
Lamenta di non avere contestato la sussistenza del collegamento negoziale, ma di avere evocato il principio secondo cui «i contratti collegati mantengono ognuno la propria causa, conservando la propria individualità giuridica cosicché sono disciplinati dalla normativa tipica del loro schema negoziale», di talché avrebbe dovuto concludersi che non poteva che applicare alla sua azienda «specifici accordi aziendali» da lei stessa conclusi «con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale dei gestori» piuttosto che da società da cui era «ontologicamente e ineludibilmente» diversa.
Il motivo è inammissibile.
Si tratta in verità di un non motivo.
La ricorrente non tiene invero conto, sicché deve dirsi che non coglie e non censura la ratio decidendi della sentenza impugnata nel limitarsi a ribadire la propria tesi difensiva senza formulare una censura espressa e specifica in ordine alle ragioni dalla corte di merito poste a fondamento dell’adottata decisione (Cass. 16/04/2021, n. 10128; Cass. 10/08/2017, n. 19989).
Con il terzo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della disciplina di cui all’art. 1353 cod. civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3 cod.proc.civ.
Si duole che la corte appello, considerando irrilevanti le difficoltà incontrate nel corso delle trattative con le associazioni di categoria dei gestori degli impianti di distribuzione del carburante, non abbia
adeguatamente valutato e considerato le circostanze del caso concreto e le problematiche ad esse sottese, e in particolare:
che a partire dal giugno del 2017, le associazioni di categoria dei gestori avevano promosso, ai suoi danni, svariate iniziative giudiziarie, formulando al contempo, in sede contrattuale, richieste economiche ingiustificate, oltre che insostenibili, rendendosi favorevoli soltanto alla sottoscrizione di un accordo aziendale alle identiche condizioni di quelle convenute con la RAGIONE_SOCIALE il 16.07.2014;
che i gestori dei distributori di carburante hanno posto in essere iniziative di discredito pubblico attraverso articoli ed interviste televisive che avevano considerevolmente danneggiato il suo buon nome, procurandole danni consistenti anche con giornate di chiusura totale degli impianti di distribuzione;
che si è rivolta al Ministero dello Sviluppo Economico chiedendo l’avvio di un tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 1, comma 6, d.lgs. n. 32/1998.
Lamenta essersi dalla corte d’appello erroneamente ritenute irrilevanti siffatte circostanze, dalla cui considerazione avrebbe dovuto indurre il giudice a quo a considerare violato il principio della naturale temporaneità delle obbligazioni.
Lamenta che la previsione contenuta nell’Accordo Aziendale RAGIONE_SOCIALE con le tre Associazioni che impediva all’accordo di decadere per scadenza del termine e/o per revoca unilaterale, sottoporrebbe detto accordo ad una condizione di estinzione aleatoria e imprevedibile.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, le difficoltà addotte a giustificazione la mancata conclusione di un diverso Accordo con le associazioni di categoria non valgono invero a scalfire le ragioni poste a fondamento dell’impugnata decisione.
Né il lamentato ostruzionismo delle associazioni di categoria che per ipotesi si sia risolto in una lesione del suo diritto soggettivo alla rinegoziazione non può essere addotto a causa di giustificazione della violazione dell’obbligo di applicare alla controricorrente solo le condizioni economiche previste dall’accordo stipulato dal suo dante causa che essa stessa aveva accettato di applicare.
Con il quarto motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3 cod.proc.civ.
Si duole che, con riferimento all ‘Accordo Aziendale del 19.12.2011, espressamente richiamato dall’Accordo Aziendale del 16.07.2014, disciplinante all’art. 2, l’ ‘Ulteriore Sconto Variabile’ (cioè il trattamento economico previsto in favore dei gestori che avevano venduto carburante in modalità Self Service Post Pay, sui primi 100 metri cubi di carburante ritirati nel corso dell’anno solare) ha in realtà contestato a controparte il mancato assolvimento dell’onere della prova, e in particolare di non avere documentato l’esistenza del preteso credito ovvero dei presupposti costitutivi del medesimo, avendo depositato esclusivamente una relazione di parte che, oltre ad essere «una semplice allegazione difensiva priva di autonomo valore probatorio», nulla comprovava, a suo parere, in ordine all’ an e al quantum della pretesa creditoria.
La corte territoriale ha sul punto rilevato anzitutto che la decisione del giudice di prime cure di non disporre la conversione del rito ha carattere meramente ordinatorio, ed è insuscettibile di sindacato in sede di impugnazione ex art. 702 quater cod.proc.civ., essendosi le contestazioni dell’odierna ricorrente risolte in una «mera contestazione generica della consulenza di parte e solo in quanto tale, senza addurre alcuno specifico profilo per il quale il calcolo dovrebbe ritenersi errato, limitandosi a richiedere ‘un’adeguata indagine istruttoria’ e quindi il mutamento del rito da sommario a ordinario», che le prove testimoniali dedotte nella
comparsa di risposta avanti al tribunale, oltre ad avere carattere estremamente generico, nulla deducevano quanto alla negazione del diritto dell’appellata agli sconti, essendo relative alle modalità di stipula degli accordi, che l’odierna ricorrente, in qualità di proprietaria dell’impianto, era assolutamente a conoscenza della tipologia di impianto gestito dalla controricorrente e della quantità di carburante erogato, che ciononostante non aveva efficacemente contestato i calcoli effettuati dal CTP, basati su documentazione contabile, depositata e proveniente dalla lei stessa, censurando, come avrebbe dovuto, il mancato acquisto da parte del gestore dell’ammontare minimo previsto di 100 metri cubi ritirati nel corso dell’anno solare, indicandone la differenza e producendone prova.
La ricorrente sostiene di avere, invece, contestato efficacemente il quantum richiesto, pur non essendo tenuta a farlo (atteso che la controparte non aveva adempiuto al suo onere probatorio), avendo formulato precise censure in ordine all’inesistenza dei presupposi costitutivi dell’invocato sconto, sin da quando aveva negato di essere subentrata nell’Accordo Aziendale del 16.07.2014, e imputa alla corte d’appello, confermando la decisione del tribunale: i) di avere reiterato la violazione dell’art. 2697 cod. civ., in quanto, statuendo che andavano provati i fatti estintivi della pretesa creditoria piuttosto che quelli costituitivi della stessa, non ha rilevato che la RAGIONE_SOCIALE non aveva soddisfatto l’onere della prova su di lei gravante; ii) di avere omesso di considerare che la perizia di parte non è una prova, ma una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico «priva di autonomo valore probatorio», trattandosi di una motivata opinione sulle questioni controverse, che peraltro presentava evidenti lacune.
Il motivo è infondato.
La censura non coglie la ratio decidendi .
L a corte d’appello ha ritenuto soddisfatto l’onere della prova del fatto costitutivo della pretesa creditoria della RAGIONE_SOCIALE e, per
contro
, non ha ritenuto le censure formulate dall’odierna ricorrente specifiche e volte a superarla.
Non corrisponde dunque al vero che la corte d’appello abbia erroneamente applicato la distribuzione dell’onere della prova, esonerando la controricorrente dall’onere di privare il fatto costitutivo e pretendo da lei la prova del fatto estintivo.
Le censure che la ricorrente formula hanno un contenuto apoditticamente oppositivo rispetto alle conclusioni cui è giunta l corte di merito, e come tali non integrano gli estremi della violazione di legge che la ricorrente vorrebbe attribuire loro.
Va ribadito al riguardo che un motivo denunciante la violazione dell’art. 2697 cod.civ. si configura effettivamente e, dunque, dev’essere scrutinato come tale solo se in esso risulti dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni. Viceversa, allorquando il motivo deducente la violazione del paradigma dell’art. 2697 cod.civ. non risulti argomentata in questi termini, ma solo con la postulazione (erronea) che la valutazione delle risultanze probatorie ha condotto ad un esito non corretto, il motivo stesso è inammissibile come motivo in iure ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod.proc.civ. (se si considera l’art. 2697 cod.civ. norma processuale) e ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ.(se si considera l’art. 2697 cod.civ. norma sostanziale, sulla base della vecchia idea dell’essere le norme sulle prove norma sostanziali) e, nel regime dell’art. 360 n. 5 oggi vigente si risolve in un surrettizio tentativo di postulare il controllo della valutazione delle prove oggi vietato ai sensi di quella norma (Cass., Sez. Un., 5/08/2016, n. 16598 e successiva giurisprudenza conforme).
All’ inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 3.400,00, di cui euro 3.200,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente all’ufficio del merito competente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 16 maggio 2025 dalla