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Spese processuali: chi paga se la causa si ferma?

Un lavoratore aveva impugnato il licenziamento. Durante il processo d’appello, l’azienda è stata posta in liquidazione coatta amministrativa. La Corte d’Appello ha dichiarato la causa improseguibile, condannando però il lavoratore al pagamento delle spese processuali. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, rigettando il ricorso del lavoratore. La Suprema Corte ha chiarito che, anche senza una decisione nel merito, le spese processuali sono a carico di chi ha dato causa al processo, applicando il cosiddetto principio di causalità.

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Spese processuali: chi le paga se il giudizio si interrompe?

La gestione delle spese processuali rappresenta un aspetto cruciale in ogni contenzioso. Ma cosa accade quando un processo si interrompe non per una decisione sul merito della questione, ma per un evento esterno come la messa in liquidazione della società convenuta? Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione fa luce su questo scenario, ribadendo l’importanza del principio di causalità nella determinazione di chi debba sostenere i costi del giudizio.

I Fatti del Caso

Un lavoratore aveva avviato una causa contro la propria azienda, una società cooperativa, per contestare la legittimità del suo licenziamento e ottenere il risarcimento dei danni. Dopo una prima sentenza sfavorevole, il lavoratore aveva proposto appello. Tuttavia, durante lo svolgimento del giudizio di secondo grado, la società cooperativa veniva posta in stato di liquidazione coatta amministrativa.

Di conseguenza, la Corte d’Appello dichiarava la domanda del lavoratore “improseguibile”, in quanto le pretese creditorie nei confronti di un’impresa in liquidazione devono essere accertate in quella specifica sede concorsuale. Nonostante l’interruzione del processo, la Corte condannava il lavoratore a pagare le spese processuali del grado di appello e confermava la sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

L’impugnazione e le questioni sulle spese processuali

Il lavoratore, ritenendo ingiusta la condanna, ricorreva in Cassazione basando la sua difesa su due motivi principali:
1. Violazione delle norme sulle spese processuali: Sosteneva che, non essendoci stata una decisione sul merito della causa, non si potesse parlare di “soccombenza”. Pertanto, non avrebbe dovuto essere condannato al pagamento delle spese, le quali, al massimo, avrebbero dovuto essere compensate tra le parti.
2. Errata applicazione delle norme sul contributo unificato: Contestava l’obbligo di versare il doppio del contributo unificato, dato che il suo appello non era stato respinto, ma dichiarato improseguibile per un evento sopravvenuto non a lui imputabile.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti sull’applicazione dei principi che regolano le spese processuali.

In primo luogo, la Suprema Corte ha affermato che il criterio principale per la ripartizione delle spese non è la soccombenza in senso stretto, ma il più ampio principio di causalità. Secondo questo principio, a prescindere dall’esito finale, le spese devono essere poste a carico della parte che ha dato causa al processo. Nel caso specifico, anche se il giudizio si è interrotto, è stato il lavoratore ad avviare l’azione legale, assumendosene il rischio. Quando un evento come la liquidazione coatta amministrativa rende l’azione improseguibile, il giudice deve comunque regolare le spese, e lo fa onerando la parte che ha promosso il giudizio.

In secondo luogo, riguardo al secondo motivo di ricorso, la Cassazione lo ha dichiarato inammissibile. La Corte ha ribadito un orientamento consolidato secondo cui la statuizione relativa alla sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio contributo unificato ha natura tributaria. L’obbligazione è verso l’Erario (lo Stato), che non è parte in causa. Di conseguenza, la questione non può essere oggetto di ricorso per cassazione tra le parti private del giudizio.

Conclusioni

Questa pronuncia conferma un principio fondamentale in materia di spese processuali: chi inizia una causa si assume il rischio dei relativi costi, anche qualora il procedimento non giunga a una conclusione sul merito a causa di eventi sopravvenuti. Il principio di causalità prevale su quello della soccombenza, imponendo alla parte che ha dato avvio al contenzioso di farsi carico delle spese sostenute dalla controparte fino al momento dell’interruzione. La decisione sottolinea inoltre la natura puramente fiscale dell’obbligo del doppio contributo unificato, sottraendolo al sindacato della Corte di Cassazione nell’ambito del giudizio tra le parti.

Perché il lavoratore è stato condannato a pagare le spese processuali anche se la causa è stata dichiarata improseguibile?
Perché la Corte di Cassazione applica il ‘principio di causalità’. Secondo tale principio, le spese sono a carico della parte che ha dato inizio al processo, assumendosene il rischio, a prescindere dal fatto che si arrivi o meno a una decisione sul merito della controversia.

Cosa accade a una causa di lavoro se l’azienda viene messa in liquidazione coatta amministrativa?
La causa intentata nel tribunale ordinario per l’accertamento di crediti e la condanna al pagamento diventa ‘improseguibile’. Il lavoratore dovrà far valere le proprie pretese creditorie all’interno della procedura di liquidazione, secondo le regole specifiche previste per le procedure concorsuali.

È possibile fare ricorso in Cassazione contro la condanna al pagamento del doppio del contributo unificato?
No, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, il ricorso è inammissibile. Si tratta di un’obbligazione di natura tributaria nei confronti dello Stato (Erario), che non è parte in causa nel processo civile, e la controparte è considerata indifferente a tale obbligazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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