Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24385 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24385 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27340/2019 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME e COGNOME
-ricorrente principale- contro
COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME -ricorrenti incidentali-
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME;
-ricorrente incidentale- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 657/2019, depositata il 15/02/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
PREMESSO CHE
1. Gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno chiesto e ottenuto due decreti che hanno ingiunto a NOME COGNOME il pagamento di euro 250.000 in favore di COGNOME e di euro 180.000 in favore di COGNOME, in relazione all’attività difensiva eseguita in favore di COGNOME in un processo penale. In tale processo, che si è svolto presso il Tribunale di Lodi, COGNOME era indagato per il reato di false comunicazioni sociali ed è stato assolto per non avere commesso il fatto con sentenza del 6 ottobre 2009. COGNOME ha proposto opposizione a entrambi i decreti, sostenendo l’infondatezza della pretesa; ha poi chiesto di chiamare in giudizio Banco Popolare società RAGIONE_SOCIALE (in cui si era fusa la Banca Popolare di Lodi), quale suo datore di lavoro, per essere manlevato in ipotesi di eventuale condanna. Banco Popolare si è costituito, eccependo l’incompetenza territoriale e funzionale dell’adito Tribunale di Milano, essendo competente il Tribunale di Lodi quale giudice del lavoro, a fronte della domanda riconvenzionale svolta nei propri confronti da COGNOME; nel merito ha sostenuto l’inoperatività della clausola del contratto collettivo invocata da COGNOME, trattandosi di attività difensive svolte in relazione a un reato commesso in danno della società; ha infine chiesto in via
riconvenzionale il risarcimento dei pregiudizi subiti quantificati in euro 45.700.000.
Con sentenza n. 11682/2017 il Tribunale di Milano, respinta l’eccezione di incompetenza per territorio a seguito dell’incorporazione di Banco Popolare nella Banca Popolare di Milano e, quanto all’applicabilità del rito del lavoro, la mancata allegazione di eventuali lesioni del diritto di difesa, ha riconosciuto in favore degli avvocati difensori per compensi la somma di euro 106.423,30, condannando Vismara al relativo pagamento e riconoscendo il diritto del medesimo a essere manlevato da Banco BPM; ha dichiarato la nullità della domanda riconvenzionale di Banco BPM per mancata enunciazione dei fatti e delle ragioni di diritto posti a base della medesima.
2. La sentenza è stata impugnata innanzi alla Corte d’appello di Milano in via principale da Banco BPM e in via incidentale dagli avvocati COGNOME e COGNOME. In relazione alla declaratoria di nullità della domanda riconvenzionale di risarcimento del danno di Banco BPM, posta in essere senza concessione di un termine per la relativa integrazione, la Corte d’appello ha ritenuto la domanda inammissibile, in quanto non dipendente dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già apparteneva alla causa come mezzo di eccezione, essendo il presente processo originato dalla richiesta di pagamento dei compensi vantati dagli avvocati per l’assistenza prestata in favore di COGNOME per il processo penale svoltosi presso il Tribunale di Lodi, mentre la domanda risarcitoria di Banco BPM si riferisce a danni sofferti in dipendenza dei reati oggetto del processo svoltosi a Milano, essendo poi il diritto di manleva fatto valere da COGNOME dipendente dal contratto collettivo di lavoro, mentre la domanda risarcitoria dipende dal contratto individuale di lavoro. La Corte d’appello ha poi accolto parzialmente la censura di Banco BPM relativa alla quantificazione dei compensi riconosciuti agli avvocati e ha così rideterminato tali compensi in
euro 104.727. La Corte d’appello ha infine respinto il motivo dell’appello incidentale degli avvocati, che lamentava il mancato accoglimento della domanda di condanna di Banco BPM al diretto pagamento delle somme loro riconosciute.
Avverso la sentenza n. 657/2019 della Corte d’appello di Milano hanno proposto ricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché Banco BPM s.p.a., ricorsi che devono essere qualificati come principale quello fatto valere da Banco BPM, essendo stato proposto per primo, e incidentale quello di COGNOME e COGNOME proposto per secondo (cfr. al riguardo Cass. n. 27680/2021).
Ha resistito con controricorso NOME COGNOME che ha proposto a sua volta ricorso incidentale.
COGNOME e COGNOME hanno resistito con controricorso al ricorso di Banco BPM.
Banco BPM ha resistito con controricorso al ricorso di COGNOME e COGNOME con il quale ha riproposto come ricorso incidentale i sei motivi del proprio ricorso principale; ha inoltre resistito con controricorso al ricorso incidentale di Vismara.
Memoria è stata depositata da Banco BPM, nonché da COGNOME e COGNOME.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso principale di Banco BPM è articolato in sei motivi.
Il primo motivo lamenta, in relazione ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132, n. 4, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5, 19, 40, 132, 413, 645 c.p.c.’: la sentenza d’appello ha confermato il rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale e funzionale sollevata dalla ricorrente, con diversa motivazione; la sentenza di primo grado aveva erroneamente ritenuto che, a seguito del trasferimento della sede della Banca da Lodi a Milano, si sarebbe spostata la competenza in favore del Tribunale di Milano inizialmente adito; la sentenza di secondo grado ha invece ritenuto
che l’incompetenza territoriale e funzionale del Tribunale di Milano in favore di quello di Lodi sarebbe stata data dalla domanda riconvenzionale della Banca che, intervenuta solo in un secondo momento quale terza chiamata, non poteva dare luogo a un successivo spostamento della competenza; in tal modo la Corte d’appello non ha considerato che l’eccezione di incompetenza della ricorrente non si fondava solo sulla proposizione della propria domanda riconvenzionale, ma sulla proposizione da parte di Vismara di un’eccezione di carenza della sua legittimazione passiva e di una domanda di condanna della Banca a tenerlo indenne e manlevato, domanda che si fondava sul rapporto di lavoro intercorso tra Vismara e la Banca.
Il motivo non può essere accolto. Ad avviso della ricorrente la Corte d’appello, nel confermare il rigetto dell’eccezione di incompetenza, non avrebbe considerato che la denunciata incompetenza per territorio del Tribunale di Milano in favore di quello di Lodi discenderebbe non solo dalla proposizione della sua domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ma pure dalla chiamata in garanzia della Banca posta in essere dall’opponente Vismara, chiamata in garanzia fondata sul contratto collettivo nazionale e quindi, in quanto causa di lavoro, di competenza del tribunale competente per territorio ai sensi del comma 2 dell’art. 413 c.p.c.
Anche seguendo la prospettazione della ricorrente, la conclusione non è l’incompetenza del Tribunale di Milano. È vero che la competenza per territorio del tribunale in funzione di giudice del lavoro è competenza inderogabile, così che non può valere la deroga disposta dall’art. 32 c.p.c. per la proposizione della domanda di garanzia. Nel sostenere l’incompetenza del Tribunale di Milano, però, la ricorrente considera soltanto il foro del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro e quello dove si trovava la sede presso la quale il lavoratore prestava la propria opera al momento della fine del rapporto. La ricorrente non considera così il foro della sede
dell’azienda: l’ex dipendente COGNOME ha fatto valere la sua domanda nei confronti di Banco Popolare, nel quale si era fusa la Banca popolare di Lodi, Banco Popolare che si è a sua volta fuso con la Banca Popolare di Milano per costituire Banco BPM, che ha sede in Milano. Anche a ravvisare una originaria incompetenza per territorio, il Tribunale di Milano è in ogni caso divenuto competente in corso di causa. L’art. 5 c.p.c. va infatti interpretato in conformità alla sua ratio di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis , onde, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della domanda, l’incompetenza non può essere dichiarata se quel giudice è diventato competente (in tal senso, da ultimo, Cass. 5 gennaio 2022, n. 214).
2. Il secondo motivo contesta, ai sensi dei nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 132, 115 e 116 c.p.c., 6 del CCNL dirigenti settore credito, violazione e/o falsa applicazione in relazione agli artt. 2 Cost. e 1175, 1229, 1343, 1362 e seguenti c.c. nell’interpretazione del richiamato art. 6, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.’: la ratio degli artt. 5 e 6 del contratto collettivo nazionale di lavoro richiamato è chiara, nel senso che, se il dirigente ha commesso un reato, il datore ha il diritto di valutare se ciò ha minato la fiducia alla base del rapporto di lavoro; il che significa che, laddove l’art. 6 prevede che le spese giudiziali del dirigente, nei cui confronti venga esercitata azione penale in relazione a fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, sono a carico dell’azienda, va letto nel senso di fatti penalmente rilevanti commessi dal dirigente nell’esercizio legittimo delle funzioni affidategli e in linea con le direttive del datore e con le finalità istituzionali dell’azienda bancaria; COGNOME, nell’ambito del processo penale incardinato a Lodi, era accusato di avere commesso il reato di false comunicazioni sociali, ossia di avere omesso di rilevare numerose voci passive nei bilanci di esercizio, in violazione delle finalità di correttezza e trasparenza a
cui ogni banca è istituzionalmente tenuta; nell’applicare la tutela prevista dal richiamato art. 6 la Corte d’appello ha violato tutti i canoni di ermeneutica contrattuale, nonché le regole sulle prove. Il motivo è fondato. Ad avviso della Corte d’appello è rilevante ai fini della corretta interpretazione del richiamato art. 6, comma 1, la verifica della natura e della struttura del reato oggetto dell’azione penale promossa nei confronti del dirigente in quanto, anche a prescindere da un eventuale giudizio di assoluzione dell’imputato, è a rigore da escludere l’obbligazione di pagamento delle spese giudiziali a carico della Banca se quest’ultima risulti annoverabile tra i soggetti potenzialmente offesi dal reato; del resto sarebbe irragionevole ritenere che la Banca, avendo un interesse alla condanna dell’imputato, dovesse comunque farsi carico delle spese sostenute da quest’ultimo per difendersi dalle accuse. Dopo questa premessa, del tutto condivisibile e in linea con l’orientamento di questa Corte, il giudice d’appello ha osservato che, nello specifico, COGNOME era stato imputato del delitto di cui all’art. 2622, commi 1 e 2 c.c., disposizione quest’ultima che riconosce quali possibili soggetti offesi dal reato esclusivamente i soci e i creditori, così che non vi è modo di considerare il reato ascritto a COGNOME come commesso sia pure astrattamente in danno dell’impresa bancaria, con l’ ‘ovvia’ conseguenza della sicura operatività della garanzia di cui al citato art. 6 del contratto collettivo nazionale di lavoro.
La conclusione del giudice d’appello non è corretta. Il reato di false comunicazioni sociali, distinto -secondo la formulazione applicabile al caso in esame -a seconda che la condotta abbia cagionato (art. 2622 c.c.) o meno (art. 2621 c.c.) un danno patrimoniale ai soci o ai creditori è infatti tradizionalmente considerato reato con il quale ‘il legislatore ha voluto tutelare la veridicità delle fonti di prova in rapporto agli interessi delle imprese, dei soci uti singuli , dei creditori e comunque delle altre persone che possono entrare in rapporti con l’impresa; si tratta di un’ipotesi di falsità ideologica in
scrittura privata, che, per la sua funzione, è degna di particolare tutela e il reato è plurioffensivo, perché da un lato offende gli interessi economici, alla cui tutela è sostanzialmente diretto l’ordinamento giuridico delle società commerciali e, dall’altro, offende l’interesse pubblico, per bisogni inerenti alle esigenze della vita organizzata del cittadini di potersi fidare di determinate cose particolarmente indicate dalla legge come idonee alla formulazione di un giudizio di certezza; per la esistenza del reato non sono sufficienti la coscienza e la volontà della immutatio veri , essendo invece necessario che l’ immutatio sia compiuta con la intenzione di ingannare i soci ed i terzi sulla reale situazione patrimoniale della società, senza che sia necessario il proposito di cagionare un danno alla società, a determinati gruppi di soci, a terzi’ (così Cass. pen. n. 1598/1965). D’altro canto, come ha precisato questa Corte in relazione all’analoga disposizione prevista da un previgente contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale direttivo delle aziende di credito, l’interpretazione della locuzione “in relazione a fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni” va effettuata secondo i criteri letterali e logici, avendo cura di accertare la comune intenzione delle parti che hanno stipulato lo specifico contratto collettivo, dovendosi attribuire, nell’ambito del processo interpretativo, una particolare importanza al principio di buona fede ex art. 1366 c.c., che, operando come criterio di reciprocità nei rapporti tra debitore e creditore, enuncia un dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost. e impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire così da preservare i reciproci interessi. È quindi censurabile, in sede di legittimità, l’interpretazione del giudice di merito – in quanto effettuata in violazione dei canoni ermeneutici – ove la clausola contrattuale venga intesa come diretta ad addossare all’impresa le spese giudiziali del lavoratore sottoposto a procedimento penale con riguardo a tutte le ipotesi di reato poste in essere “in occasione”
dell’attività di lavoro e, quindi, in riferimento a una mera coincidenza temporale o materiale, anziché solamente alle condotte criminose inerenti al corretto svolgimento dell’attività funzionale, dovendosi ritenere che la tutela apprestata dalla norma collettiva abbia ad oggetto l’esercizio delle funzioni conforme agli interessi dell’azienda (ancorché con comportamenti perseguiti penalmente dagli organi giudiziari) e non anche la violazione delle funzioni stesse, in danno alla stessa azienda e in contrasto con le istruzioni impartite (in questi termini Cass. n. 24733/2008, si vedano anche Cass. n. 34457/2019, che sottolinea, in relazione al rimborso delle spese legali sostenute dal personale non dirigente di Poste Italiane, come l’assenza di conflitto di interessi costituisca il presupposto per l’assunzione dell’onere di pagamento da parte datoriale e vada valutata ex ante nel momento in cui è stata posta in essere la condotta generatrice di responsabilità; Cass. n. 17874/2018, che evidenzia anch’essa che il diritto al rimborso delle spese legali presuppone che non vi sia un conflitto d’interessi, come pure Cass. n. 25379/2011).
Il terzo e il quarto motivo sono tra loro strettamente connessi, attenendo entrambi alla declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale fatta valere dalla Banca:
il terzo motivo contesta ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101, secondo comma, 112 e 346 c.p.c., nullità della sentenza di secondo grado ex art. 101, secondo comma c.p.c.’, in quanto la Corte d’appello ha ritenuto di potersi pronunciare sulla inammissibilità della domanda riconvenzionale, considerando che COGNOME aveva proposto la relativa eccezione in primo grado e che la stessa fosse stata ‘implicitamente richiamata anche in appello’;
il quarto motivo lamenta ‘violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132, n. 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36 e 104 c.p.c. ‘ , in quanto la Corte d’appello ha ritenuto la domanda riconvenzionale della ricorrente
inammissibile ex art. 36 c.p.c. per una asserita mancanza di collegamento con la domanda principale; mentre la domanda di manleva di COGNOME sarebbe fondata sul processo penale c.d. Lodi e sul contratto collettivo di lavoro, quella riconvenzionale della ricorrente sarebbe invece fondata sul c.d. processo penale Milano e sul contratto individuale di lavoro, assunto errato in quanto vi è un evidente collegamento tra i due processi penali e i contratti di lavoro, quello collettivo e quello individuale.
La Corte d’appello , a fronte della censura di Banco BPM che lamentava sia la declaratoria di nullità della domanda riconvenzionale senza concessione di un termine per la relativa integrazione, sia la sua ritenuta infondatezza per mancanza di prova della responsabilità di Vismara, ha ritenuto manifestamente contraddittorio da parte del Tribunale avere da un lato sostenuto di non essere in grado di comprendere i fatti posti alla base della domanda e dall’altro lato di essersi ‘profuso in una disamina affatto epidermica dei profili di fatto e di diritto sottesi’ alla medesima, concludendo per la mancanza dei presupposti per la declaratoria di nullità. La Corte d’appello ha poi sostenuto che, in base al proprio dovere di riesaminare le questioni pregiudiziali di rito, anche non riproposte dalla parte, prima di potere statuire sul merito della domanda, occorreva pronunciare sulla eccezione di inammissibilità della medesima sollevata in primo grado da COGNOME, basata sul presupposto che le riconvenzionali dell’attore e quella proposta dalla terza chiamata sono fondate su un titolo diverso rispetto a quello oggetto del presente giudizio, eccezione ‘implicitamente richiamata in appello’. Tale eccezione la Corte d’appello ha ritenuto fondata per ‘difetto dei requisiti di cui all’art. 36 c.p.c.’: mancherebbe la stretta connessione tra le due vicende, riguardando le contrapposte pretese due diversi processi, il processo di Lodi e il processo di Milano, e non vi sarebbe neppure identità di titoli.
Il ragionamento seguito dal giudice d’appello è sicuramente ambiguo per quanto concerne la rilevabilità della inammissibilità, sostenendone subito il dovere di rilevarla d’ufficio e poi affermando che l’eccezione doveva ritenersi come riproposta in secondo grado. Il terzo motivo è però infondato laddove contesta alla Corte d’appello di non avere rilevato la mancata riproposizione dell’eccezione, trattandosi di questione della quale questa Corte ha da ultimo espressamente affermato la rilevabilità d’ufficio (cfr. Cass. n. 5484/2024). Non è in precedenza mancata la contraria affermazione per la quale l’inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile d’ufficio, ma solo su eccezione della controparte, sempre che non si sia verificata la preclusione derivante dall’accettazione del contraddittorio (v. Cass. n. 8814/2015). Tale affermazione si richiama però a un orientamento che si è formato prima delle riforme processuali degli anni 1990, in relazione alla tardività della proposizione della domanda riconvenzionale (si vedano ad esempio Cass. n. 3370/1985 e Cass. n. 3116/1990), che appare collegato a un’idea dei rapporti tra eccezione della parte e poteri d’ufficio del giudice oggi superata. Nella vigenza del regime giuridico delle preclusioni introdotto dalla legge n. 353 del 1990, l’inammissibilità della domanda formulata nel corso del giudizio è rilevabile anche d’ufficio da parte del giudice, trattandosi di una questione sottratta alla disponibilità delle parti, in virtù del principio secondo cui il thema decidendum può mutare soltanto nei limiti e nei termini a tal fine previsti (al riguardo si veda, da ultimo, Cass. n. 12633/2024), con la conseguenza che, ove in primo grado tali condizioni non siano state rispettate, l’inammissibilità della domanda riconvenzionale può essere rilevata d’ufficio anche in sede di gravame (purché su di essa il giudice di primo grado non si sia pronunciato).
È invece fondato il quarto motivo, che deduce la violazione dell’art. 36 c.p.c., non dovendo dichiararsi l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, restando ammissibile la riconvenzionale che comunque sia legata da un collegamento obiettivo con l’oggetto della lite. L’ammissibilità della domanda riconvenzionale, avanzata dal convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore (e lo stesso discorso vale per la domanda riconvenzionale proposta dal terzo chiamato), è subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio dall’attore o di quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione, ai sensi dell’art. 36 c.p.c., ma ciò solo al fine di ritenerle devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per materia o per valore. Quando la domanda riconvenzionale non comporti lo spostamento di competenza, occorre ‘un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus ‘ (tra le tante, cfr. da ultimo Cass. n. 533/2020 e Cass. n. 6091/2020). Tale collegamento oggettivo, che renda opportuno il simultaneus processus , è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, al quale è chiesto di motivare al riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale inammissibile giacché lo ‘spazio, ulteriore rispetto alla lettera che l’interpretazione nomofilattica ha evinto dall’articolo 36 c.p.c., discende da una implicita presunzione di opportunità del processo simultaneo, come strumento finalizzato tanto all’accelerazione procedurale quanto alla coerenza dell’esito’ (così Cass. n. 533/2020).
Nel caso in esame -nel quale non si pone un problema di competenza dell’adito Tribunale di Milano la motivazione circa la mancanza di un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra la domanda proposta nei
confronti della Banca, terza chiamata, e la domanda riconvenzionale fatta valere da quest’ultima è da ritenersi meramente apparente e quindi mancante. La Corte d’appello (v. le pagg. 20 e 21 della sentenza impugnata) si è limitata ad affermare il difetto dell’identità di titoli e a sostenere in modo apodittico che non vi è ‘alcun collegamento tra i fatti posti a fondamento delle contrapposte pretese delle parti’ e ‘neppure consta la stretta connessione tra le due vicende’ relative l’una al processo di Lodi e l’altra al processo di Milano, in piena contraddizione con la stessa impostazione da essa seguita, avendo nella premessa delle ‘ragioni della decisione’ parlato di entrambi i processi, sottolineando il coinvolgimento di Vismara nella c.d. scalata Banca Antonveneta nella sua qualità di stretto collaboratore di NOME COGNOME.
4. Il quinto motivo denuncia ‘nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132, n. 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 334 c.p.c.’: nell’accogliere l’appello incidentale dei difensori, laddove chiedevano l’applicazione dei criteri previsti dal d.m. 127/2004 invece di quelli previsti dal d.m. 55/2014, la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sull’eccezione preliminare sollevata dalla ricorrente di inammissibilità di tale appello, in quanto tardivamente proposto, trattandosi di appello il cui interesse sorgeva direttamente dalla pronuncia della sentenza di primo grado e non dall’appello fatto valere dalla ricorrente/appellante principale.
Il motivo è infondato. A partire dalla sentenza delle sezioni unite n. 4640 del 7/11/1989, questa Corte afferma che l’art. 334 c.p.c. che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione, di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale (sull’istituto della impugnazione
incidentale tardiva si veda, da ultimo, Cass., sez. un., n. 8486/2024). Gli avvocati COGNOME e COGNOME, di fronte all’appello principale della ricorrente che contestava il quantum della liquidazione dei loro compensi, modificando così il loro ‘assetto di interessi’, erano legittimati ad appellare tardivamente la sentenza di primo grado in relazione ai parametri da essa applicati. La Corte d’appello si è pertanto correttamente pronunciata sull’appello incidentale tardivo di COGNOME e COGNOME.
5. Il sesto motivo lamenta ‘violazione dell’art. 111 Cost. e/o nullità della sentenza ex art. 132, n. 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 336, primo comma c.p.c.: la Corte d’appello ha accolto, sia pure parzialmente, l’appello della ricorrente e ha di conseguenza parzialmente modificato le statuizioni della sentenza di primo grado, ma si è pronunciata solo sulle ‘spese del grado’; anche a ritenere che la Corte abbia voluto confermare la regolamentazione delle spese del primo grado, tale conferma è illegittima a fronte del parziale accoglimento dell’appello della ricorrente.
Il motivo è da ritenersi assorbito a seguito dell’accoglimento del secondo e del quarto motivo.
II. L’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale di COGNOME e COGNOME, che censurano -lamentando la violazione dell’art. 6 del CCNL per i dirigenti settore credito e degli artt. 1362-1371 e 1917 c.c. -la sentenza d’appello laddove ha confermato la pronuncia del Tribunale che ha condannato ‘Banco BPM s.p.a. a rifondere a NOME COGNOME quanto questi abbia a pagare’.
Allo stesso modo è da ritenersi assorbito, a seguito dell’accoglimento dei due motivi del ricorso principale, il ricorso incidentale di Vismara, articolato in due motivi, il primo che propone la stessa censura avanzata dal ricorso incidentale di COGNOME e COGNOME (al cui ricorso ‘si associa’) e il secondo che contesta
alla Corte d’appello di averlo condannato a pagare il 10% delle spese a Banco BPM, invece di condannare quest’ultimo a rimborsargli le spese, considerata la declaratoria di inammissibilità della sua domanda riconvenzionale risarcitoria.
III. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione al secondo e al quarto motivo del ricorso principale come sopra ritenuti fondati e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Milano, affinché in sede di rinvio:
-valuti la previsione dell’art. 6 del contratto collettivo nazionale di lavoro alla luce della natura plurioffensiva del reato di cui è stata imputato COGNOME e del canone ermeneutico di buona fede;
-in relazione alla domanda riconvenzionale della Banca riesamini il materiale istruttorio in atti alla luce del principio sopra ricordato, secondo il quale – ove la domanda riconvenzionale non comporti lo spostamento di competenza – si richiede un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus .
Il giudice di rinvio provvederà anche in relazione alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo e il quarto motivo, rigettati il primo, il terzo e il quinto motivo, assorbiti il sesto motivo del ricorso principale e i ricorsi incidentali; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione .
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione