Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 1327 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 1327 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 12127/2018 R.G. proposto da FIRENZE COGNOME, rappresentato e difeso dall’Avv. Prof. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO; -ricorrente –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dallo Avv. NOME COGNOME con domicilio in Roma, INDIRIZZO presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
-controricorrente – avverso la sentenza del la Corte d’appello di Genova n. 1314/17, depositata il 17 ottobre 2017.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 settembre 2024 dal
Consigliere NOME COGNOME
uditi gli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME COGNOME, già Sindaco di Carro (SP), convenne in giudizio il Comune, per sentirlo condannare alla restituzione della somma di Euro 5.518,18, da lui indebitamente corrisposta all’Avv. NOME COGNOME a titolo di compenso per l’attività difensiva svolta nel procedimento penale promosso nei suoi confronti per il reato di cui all’art. 51 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, per avere egli omesso il controllo sull’osservanza delle prescrizioni contenute nella determinazione provinciale n. 140 del 24 agosto 2005, relativa al rinnovo dell’autorizzazione alla gestione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti urbani situato nel territorio comunale.
Premesso che il procedimento si era concluso dinanzi alla Corte d’appello di Genova, che con sentenza del 29 gennaio 2009 aveva confermato la condanna pronunciata in primo grado, l’attore riferì che, pur avendo la Giunta municipale autorizzato il conferimento dell’incarico difensivo con deliberazione n. 20 del 9 marzo 2006, il Comune aveva rifiutato di pagare il compenso all’Avv. COGNOME costringendolo a provvedervi direttamente.
Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 5 luglio 2013, il Tribunale di Chiavari rigettò la domanda.
L’impugnazione proposta dal Firenze è stata rigettata dalla Corte d’appello di Genova con sentenza del 17 ottobre 2017.
Premesso che, dopo aver avviato la procedura di difesa legale in favore dell’attore, mediante il conferimento dell’incarico all’Avv. COGNOME la Giunta municipale, con delibera n. 11 del 15 febbraio 2012, aveva dato atto dell’esito del giudizio penale, affermando che le spese legali erano a carico dell’indagato, la Corte ha ritenuto legittima tale determinazione, escludendo l’applicabilità sia dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, poiché la qualifica e le funzioni
del sindaco non sono assimilabili a quelle di dipendente dell’amministrazione statale, sia dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., poiché tra il sindaco e l’ente territoriale non è configurabile un rapporto di mandato. Ha aggiunto che l’art. 18 cit., non applicabile agli amministratori degli enti locali, ma ai dipendenti degli enti pubblici, presuppone, oltre all’esistenza di una connessione tra i fatti addebitati ed i compiti dell’ufficio e all’assenza di un conflitto d’interessi con il Comune a causa dei predetti fatti, l’intervenuta assoluzione in sede penale, il cui esito non può ritenersi pertanto irrilevante. Precisato inoltre che, in quanto legato all’ente pubblico da un rapporto assimilato a quello del funzionario onorario, l’amministratore comunale che non sia anche dipendente del Comune può ottenere, in applicazione analogica dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., soltanto il rimborso delle spese sostenute a causa del proprio incarico, e non anche di quelle sostenute in occasione dello stesso, ha rilevato che tra le prime non possono essere incluse quelle sostenute per difendersi in un processo penale, ancorché lo stesso sia stato iniziato per fatti connessi all’incarico, poiché, in caso di condanna, la commissione di un reato non è riconducibile nei limiti di un mandato validamente conferito. Ha escluso infine la possibilità di rimettere in discussione l’accertamento compiuto in sede penale, avente carattere incontrovertibile, in quanto risultante da sentenza passata in giudicato.
Avverso la predetta sentenza il Firenze ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
La causa, avviata alla trattazione in camera di consiglio, è stata rimessa alla pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria del 17 gennaio 2004, avendo il Collegio rilevato che, con riguardo al rimborso delle spese sostenute dagli amministratori degli enti locali per la difesa nel processo penale, in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 7bis del d.l. 19 giugno 2015, n. 78 (introdotto dalla legge di conversione 6 agosto 2015, n. 125, che ha modificato l’art. 86, comma quinto, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), non applicabile nel caso in esame, si sono susseguiti nella giurisprudenza di legittimità indirizzi non sempre convergenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché il difetto di motivazione e/o l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando che, nell’escludere il diritto al rimborso delle spese legali, la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi in ordine al rapporto professionale instauratosi tra il Comune e l’Avv. Peri in virtù della delibera n. 20 del 2006. Premesso che nel giudizio penale non è parte l’Amministrazione, ma il dipendente cui viene ascritto l’illecito, osserva che, ove l’ente pubblico affidi l’assistenza legale ad un difensore di propria fiducia, il rapporto professionale s’instaura tra questo ultimo e l’Amministrazione, non assumendo alcun rilievo l’estraneità della stessa al giudizio. Afferma la legittimità della delibera, anche se non recante l’approvazione dell’impegno di spesa, non necessaria ai fini dell’assunzione dell’obbligazione da parte dell’Amministrazione, in quanto adempimento meramente contabile, e comunque non richiesta per la partecipazione alle liti. Aggiunge che, in quanto avente ad oggetto un incarico conferito a titolo istituzionale e non già personale, la delibera è stata validamente adottata con la sua partecipazione, avvenuta in qualità di Sindaco e di Presidente della Giunta municipale. Sostiene infine che la sussistenza del rapporto di clientela con il Comune trova conferma nel Codice Deontologico Forense, il quale ammette il conferimento dell’incarico difensivo da parte di un terzo, con il consenso dell’assistito.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 18 del d.l. n. 67 del 1997, dell’art. 1720 cod. civ. e degli artt. 101, 112 e 345 cod. proc. civ., nonché il difetto di motivazione, osservando che, nell’escludere l’applicabilità dell’art. 18 del d.l. n. 67 del 1997 e dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., la Corte territoriale ha fondato la propria decisione su circostanze non fatte valere dalle parti, senza provvedere ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. Premesso che il Comune non aveva contestato l’applicabilità dell’art. 18 cit., essendosi limitato ad eccepire l’insussistenza di un rapporto professionale con l’Avv. COGNOME sostiene che l’esito del giudizio penale risultava ininfluente ai fini del rimborso delle spese legali, assumendo rilievo esclusivamente nel caso in cui le stesse riguardino un incarico
conferito ad un difensore di fiducia dell’amministratore, laddove nella specie il rapporto professionale intercorreva tra il difensore e l’Amministrazione. Aggiunge che tra l’esito del giudizio penale ed il rimborso delle spese non sussiste alcun automatismo, poiché anche in caso di assoluzione il diritto al rimborso è subordinato all’insussistenza di qualsiasi profilo di colpa nell’operato dell’amministratore.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 97 Cost. e degli artt. 107 e 109 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nonché il difetto di motivazione, sostenendo che, nell’escludere la possibilità di verificare la responsabilità di esso attore, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del principio di separazione funzionale tra organi di indirizzo politico ed organi di gestione, per effetto del quale egli non era responsabile della gestione della discarica, sottoposta alla vigilanza del responsabile del servizio. Premesso che detta separazione, riconducibile ai canoni di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione e qualificabile come un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico, costituisce un cardine della vigente disciplina delle Amministrazioni locali, che comporta il superamento del rapporto gerarchico tra organi politici e dirigenza, afferma che la vigilanza sulla corretta gestione della discarica comunale e la predisposizione delle opere di presidio tecnico e manutenzione spettava al responsabile dell’Ufficio tecnico da lui nominato ai sensi dell’art. 59 dello statuto comunale, il quale costituiva l’unico soggetto che avrebbe dovuto rispondere del reato ascrittogli. Aggiunge che, nell’invocare la predetta verifica, egli non aveva inteso rimettere in discussione il giudicato penale, ma ribadire l’autonomia del Giudice civile nella decisione relativa al rimborso delle spese legali.
Il primo motivo, riguardante l’omessa valutazione del rapporto professionale instauratosi tra il Comune e l’Avv. COGNOME è inammissibile.
Attraverso tale deduzione, il ricorrente censura in realtà l’interpretazione dell’atto di citazione risultante dalla sentenza impugnata, lamentando che quest’ultima abbia pronunciato in ordine ad una domanda diversa da quella da lui proposta, ovvero abbia omesso di pronunciare in ordine ad una delle domande da lui proposte, avente ad oggetto la restituzione del pagamento da lui effettuato in favore della professionista, la quale non era titolare di un
credito nei suoi confronti, potendo vantare il diritto al compenso esclusivamente nei confronti del Comune, che le aveva conferito l’incarico difensivo.
Come più volte affermato da questa Corte, la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda costituisce un’attività riservata al giudice di merito, il cui risultato è censurabile in sede di legittimità a) ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., ove si faccia valere la difformità della attività del giudice dal paradigma di una norma processuale, e quindi una nullità di ordine processuale, b) ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, qualora si denunci un’inesatta rilevazione del contenuto della domanda che comporti un vizio attinente all’individuazione del petitum , c) ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 o 5 cod. proc. civ., quando si lamenti rispettivamente un’errata qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo, configurabile come error in judicando , o l’omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato avente portata decisiva (cfr. Cass., Sez. V, 6/11/2023, n. 30770; Cass., Sez. III, 22/09/2023, n. 27181; 11/06/2020, n. 11103). Nella specie, le censure proposte dal ricorrente possono essere inquadrate nelle ipotesi di cui alle lettere b) e c) , seconda parte, in quanto incentrate sull’assunto che la domanda giudiziale non aveva ad oggetto il rimborso delle spese sostenute per la difesa in giudizio, ai sensi dell’art. 18 del d.l. n. 67 del 1997 o dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., come ritenuto sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello, ma la ripetizione di un indebito soggettivo ex latere solventis , ai sensi dell’art. 2036 cod. civ., essendo fondata sull’allegazione dell’avvenuto conferimento dell’incarico difensivo da parte del Comune, anziché da parte di esso ricorrente.
Le medesime censure risultano peraltro prive di specificità, risolvendosi nella mera insistenza sull’errore di diritto commesso dai Giudici di merito e sulla pretermissione del fatto allegato, non accompagnata dalla trascrizione dei passi dell’atto di citazione e del corrispondente motivo di gravame, dai quali possono desumersi correttamente la causa petendi e il petitum della pretesa avanzata in giudizio, con la conseguenza che risulta impossibile controllare la veridicità del predetto assunto, prima ancora di verificarne la fon-
datezza. La parte che in sede di legittimità intenda dolersi di un’errata interpretazione della domanda giudiziale non può infatti limitarsi a prospettarne una diversa, ma è tenuta, in ossequio al disposto dell’art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., ad indicare gli elementi dell’atto introduttivo del giudizio e di altri atti processuali idonei a confortarla, riportandone, a corredo delle proprie censure, le parti salienti, in modo tale da permettere questa Corte di orientarsi tra le argomentazioni svolte nel giudizio di merito e di valutarne la ritualità, senza dover compiere verifiche generali degli atti (cfr. Cass., Sez. II, 14/10/2021, n. 28072; Cass., Sez. lav., 2/12/2014, n. 25482; 4/07/2014, n. 15367). Nessun rilievo può assumere, in contrario, la natura processuale del vizio deducibile nelle ipotesi di cui alle lettere a) e b) , nell’accertamento del quale questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo al riscontro della violazione denunciata attraverso l’esame diretto degli atti, dal momento che la valutazione della fondatezza della censura presuppone che la stessa sia stata formulata nel rispetto dei requisiti di contenuto-forma del ricorso (cfr. Cass., Sez. III, 3/11/2020, n. 24258; Cass., Sez. VI, 25/09/2019, n. 23834; Cass., Sez. lav., 5/08/2019, n. 20924).
A ciò si aggiunga che la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui la domanda da lui proposta avrebbe dovuto essere qualificata come ripetizione dell’indebito, si pone in contrasto con l’avvenuta proposizione della domanda direttamente nei confronti del Comune, non giustificata dalla ricostruzione dei fatti risultante dal ricorso: per un verso, infatti, l’insistenza sull’avvenuto conferimento dell’incarico difensivo da parte del Comune e sulla conseguente estraneità del ricorrente al rapporto di prestazione d’opera professionale da cui traeva origine il diritto dell’Avv. Peri al compenso per l’attività svolta nel giudizio penale, imporrebbe la qualificazione del pagamento effettuato dal Firenze come adempimento del terzo, che in tanto può legittimare l’esercizio dell’azione di ripetizione, ai sensi dell’art. 2036, primo comma, cod. civ., in quanto il pagamento abbia avuto luogo per errore scusabile; per altro verso, l’affermazione contenuta nella narrativa del ricorso, secondo cui, prima di adempiere, il Firenze contestò gl’inviti al pagamento rivoltigli sia dal Comune che dall’Avv. COGNOME facendo presente che l’incarico professionale era stato conferito dall’Amministrazione, evidenzierebbe la consapevolezza da parte del
ricorrente di adempiere un debito altrui, impedendo pertanto di ravvisare un errore scusabile, ed escludendo conseguentemente l’ammissibilità dell’azione di ripetizione. In proposito, va richiamato il principio, ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’adempimento spontaneo di un’obbligazione da parte del terzo, ai sensi dell’art. 1180 cod. civ., determina l’estinzione dell’obbligazione, anche contro la volontà del creditore, ma non attribuisce automaticamente al terzo un titolo per agire direttamente nei confronti del debitore, non essendo in tal caso configurabili né la surrogazione per volontà del creditore, prevista dall’art. 1201 cod. civ., né quella per volontà del debitore, prevista dall’art. 1202 cod. civ., né infine quella legale di cui all’art. 1203 n. 3 cod. civ., la quale presuppone che il terzo che adempie sia tenuto con altri o per altri al pagamento del debito. La consapevolezza da parte del terzo di adempiere un debito altrui esclude inoltre l’operatività della surrogazione legale di cui agli artt. 1203 n. 5 e 2036, terzo comma, cod. civ., la quale, postulando che il pagamento sia riconducibile all’indebito soggettivo ex latere solventis , ma non sussistano le condizioni per la ripetizione, presuppone nel terzo la coscienza e la volontà di adempiere un debito proprio: pertanto, il terzo che abbia pagato sapendo di non essere debitore può agire unicamente per ottenere l’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, stante l’indubbio vantaggio economico ricevuto dal debitore (cfr. Cass., Sez. Un., 29/04/2009, n. 9946; Cass., Sez. I, 11/11/1992, n. 12111). Nel caso di specie, tuttavia, l’avvenuta proposizione di una domanda ai sensi dell’art. 2041 cod. civ. non è stata in alcun modo prospettata, neppure in questa sede, né emerge dagli elementi addotti a sostegno delle censure proposte con il motivo in esame, le quali risultano pertanto generiche e contraddittorie.
5. Il secondo motivo, riflettente l’applicabilità dell’art. 18, comma primo, del d.l. n. 67 del 1998 e dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., è anch’esso inammissibile, in quanto, postulando che il rapporto di prestazione d’opera professionale si fosse instaurato tra l’Avv. COGNOME ed il Comune, muove da una ricostruzione dei fatti non solo incompatibile con le predette disposizioni, le quali presuppongono che le spese di cui viene chiesto il rimborso siano state sostenute in adempimento di un debito proprio, ancorché contratto per fatti connessi all’espletamento del servizio o all’assolvimento di obblighi istituzio-
nali, ma anche diversa da quella, non validamente censurata, risultante dalla sentenza impugnata, la quale, nel ricondurre la domanda alternativamente all’art. 18 o all’art. 1720 cit., anziché all’art. 2036 cod. civ., ha ritenuto che l’oggetto della pretesa azionata fosse costituito dal rimborso del compenso pagato al professionista per l’espletamento di un incarico difensivo conferitogli dal ricorrente, e non già dalla ripetizione di un importo corrisposto da quest’ultimo in qualità di terzo, nell’adempimento di un debito del Comune.
6. Resta conseguentemente assorbito il terzo motivo, concernente l’intangibilità, nel giudizio civile avente ad oggetto il rimborso delle spese legali sostenute dall’amministratore dell’ente locale, del giudicato penale di condanna formatosi in ordine ai fatti connessi all’espletamento del servizio o all’assolvimento di obblighi istituzionali.
Ai fini dell’esclusione del diritto al rimborso, la sentenza impugnata ha fatto ricorso a due distinti ordini di considerazioni, singolarmente idonei a giustificarla sul piano logico e giuridico, e consistenti rispettivamente nell’inapplicabilità dell’art. 18, primo comma, del d.l. n. 67 del 1997 agli amministratori degli enti locali, e nell’insussistenza dei presupposti di fatto richiesti da tale disposizione, in ragione dell’intervenuta condanna del ricorrente in sede penale, ritenuta idonea ad escludere anche la riconducibilità dei fatti addebitati all’adempimento dei compiti istituzionali, e quindi l’applicabilità dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ. La mancata proposizione di valide censure in ordine al primo profilo, determinando il passaggio in giudicato della decisione adottata, rende pertanto superfluo l’esame delle censure attinenti al secondo, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre alla cassazione della sentenza impugnata, idonea a reggersi autonomamente sulla base della ratio decidendi divenuta definitiva (cfr. Cass., Sez. III, 6/07/2020, n. 13880; 13/06/2018, n. 15399; Cass., Sez. I, 18/05/2005, n. 10420).
7. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in fa-
vore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 , comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 , della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 25/09/2024