Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3454 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3454 Anno 2024
AVV_NOTAIO: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 07/02/2024
sul ricorso 1830/2019 proposto da:
TRAINA NOME, elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente –
contro
BANCA AGRICOLA POPOLARE RAGUSA SCPA, domiciliata ex lege in Roma, presso la cancelleria della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
-controricorrente – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di CATANIA n. 1873/2018 depositata il 07/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/10/2023 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME ricorre per cassazione avverso l’epigrafata sentenza adottata dalla Corte d’Appello di Catania, che, respingendone il gravame avverso la decisione di primo grado, ne ha confermato le statuizioni di rigetto in relazione ai rapporti intrattenuti dal COGNOME in proprio, nonché nella veste di socio amministratore e legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE con la Banca Agricola Popolare di Ragusa, convenuta in giudizio per sentire accogliere le domande di nullità di alcune clausole figuranti nel contratto di conto corrente intestato alla società e della clausola di capitalizzazione degli interessi presente in un contratto di mutuo stipulato dal COGNOME in proprio, nonché la domanda di ripetizione delle somme indebitamente girocontate dal COGNOME sui conti della società.
La Corte d’Appello, per quel che qui ancora interessa, ha motivato le proprie ragioni rilevando, quanto alla domanda di nullità afferente al contratto di mutuo, che, essendo intestataria di questo la società, rettamente il primo giudice ne aveva rilevato l’improponibilità, atteso che la società si era estinta per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, si ché il COGNOME non poteva spenderne il nome nella sua veste di amministratore e legale rappresentante della stessa, siccome neppure avrebbe potuto esercitarne i diritti nella sua veste di socio e, quindi, secondo il diritto vivente impostosi anche per le società di persone a seguito della novellazione dell’art. 2495 cod. civ., di successore universale della stessa, giacché nell’atto di citazione la circostanza dell’estinzione non era mentovata, mentre era inequivocabile che la società avesse agito in proprio; e quanto alla domanda di indebito, che ancora rettamente il primo giudice
aveva considerato che, avendo il COGNOME autorizzato il giroconto delle somme in questione sul conto della società, l’azione di ripetizione non poteva che essere esercitata nei confronti di questa.
Il mezzo ora azionato dal COGNOME si vale di quattro motivi di ricorso, illustrati pure con memoria, ai quali replica con controricorso la banca intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso, con il quale si deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2312 e 2495 cod. civ., perché il giudice d’appello, nel rigettare il proposto atto di gravame in punto alle pretese esercitate con riferimento al conto corrente, in quanto il COGNOME avrebbe agito nella sua veste di amministratore di una società estinta, sarebbe incorso in errore, vero che era al contrario documentato dal frontespizio dell’atto di citazione che il COGNOME avesse fatto espresso riferimento alla sua qualifica di socio all’interno della RAGIONE_SOCIALE, è inammissibile e si sottrae dunque pregiudizialmente allo scrutinio qui richiesto.
3. Due ne sono in principalità le ragioni.
La declinata doglianza, ricordati i rilievi al riguardo formulati dal decidente, intende rappresentare un vizio di interpretazione della domanda a cui la sentenza avrebbe messo capo ritenendo nell’occasione la domanda non potesse che essere imputata alla società, ma in tal modo essa confligge con il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui l’interpretazione della domanda è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Cass., Sez. III,, 22/09/2023, n. 27181; Cass.,
Sez. III, 20/10/2005, n. 20322; Cass., Sez. III, 12/05/2003 , n . 7198) o, come si è più diffusamente argomentato, «a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.» (Cass., Sez. III, 10/06/2020, n. 11103).
La doglianza non si accorda poi con l’esatto tenore del decisum . Ed infatti è ben vero che nel frontespizio dell’atto di citazione figura la precisazione che il COGNOME intendeva agire anche quale socio dell’omonima società, ma la Corte d’Appello, esaminando il punto e confermando l’improponibilità della domanda, si è data cura di considerare non solo che nell’atto di citazione non era contenuto alcun riferimento alla circostanza che la società fosse estinta, ma che la spendita della qualità di socio amministratore e legale rappresentata rendeva «inequivocabile» che la domanda fosse stata esercitata dalla società e non dal COGNOME nella sua veste di successore
nei rapporti di questa; e dunque la doglianza non coglie in tutta la sua estensione il ragionamento decisorio e pecca perciò di specificità.
4. Il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., perché il giudice d’appello, in relazione al quarto motivo di appello, declinato con riferimento al capo della decisione di primo grado che aveva ricusato l’azione di ripetizione, aveva ritenuto che erroneamente il Tribunale avesse dato mandato al CTU, in difetto di conformi allegazioni di parte, di determinare i saldi di conto corrente adottando la metodica del “saldo zero”, ed il quarto motivo di ricorso, con il quale si deduce la nullità della sentenza in relazione agli art. 2033 e 1418 cod. civ., perché il giudice d’appello, sempre in relazione al medesimo motivo di appello aveva negato che il credito della banca fosse inesistente quantunque la formazione del debito corrispondente fosse stata determinata esclusivamente dall’applicazione di clausole contrattuali nulle, esaminabili congiuntamente, in quanto afferenti al medesimo tema decisionale, sono entrambi inammissibili per estraneità alla ratio decidendi .
5. La Corte d’Appello ha invero motivato il rigetto del gravame in punto all’azione di ripetizione reiterando il convincimento, già osteso dal giudice di prime cure, in ragione del quale la domanda, considerato che oggetto di ripetizione non erano somme versate alla banca, ma somme di cui il COGNOME aveva bonificato il conto corrente della società, avrebbe dovuto essere indirizzata non nei confronti della banca, estranea al circuito giuridico solvens-accipiens , ma alla società che l’indebito aveva ricevuto mediante l’accredito delle somme sul proprio conto corrente. Rispetto a questa ragione, pienamente sufficiente a suffragare da sé l’assunto decisorio in cui si è concretizzata il rigetto della domanda, l’odierna prospettazione difensiva si intrattiene su un profilo della complessiva dinamica della
vicenda sostanziale che non ha rilevanza decisoria, essendosi, per vero, le ragioni della decisione estrinsecatesi compiutamente con il rilievo che la domanda avrebbe dovuto essere proposta nei confronti della società e non nei confronti della banca.
Il terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce la nullità della sentenza in relazione agli artt. 2033 e 1428 cod. civ., perché il giudice d’appello, in relazione al medesimo quarto motivo di appello, determinandosi nei sensi di cui sopra, si era astenuto dall’inquadrare la vicenda processuale in un contesto unitario nel quadro di un’e voluzione del rapporto contrattuale in grado di evidenziare il collegamento personale tra il COGNOME e la società, indirettamente avallato dalla condotta della banca che aveva di fatto dato corso ad una novazione soggettiva del rapporto e dall’adottare una pronuncia di accertamento negativo del debito una volta che per le modalità della sua formazione ne fosse stata dichiarata l’inesistenza, è inammissibile e non è dunque scrutinabile come richiesto.
La doglianza, attraverso un’operazione di rilettura della realtà processuale, ancorata peraltro a profili valutativi di dubbia consistenza e di incerto contenuto, intende promuovere una rivalutazione del quadro fattuale della vicenda che non solo chiama questa Corte ad esercitare un ufficio non suo, sostituendo all’apprezzamento dei fatti operato dal decidente di merito un proprio contrario giudizio, ma che si colloca manifestamente fuori dal perimetro della decisione impugnata, avendo questa esaurito le ragioni del proprio deliberato per mezzo di affermazioni non debitamente censurate dal ricorrente e per questo divenute inoppugnabili.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto, sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 7200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il giorno 27.10.2023.
Il AVV_NOTAIO COGNOME