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Società di fatto: quando la confessione non basta

In un caso tra due fratelli imprenditori, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’ammissione di una gestione aziendale congiunta non è sufficiente a provare l’esistenza di una società di fatto. Per intentare un’azione basata su un rapporto sociale, è indispensabile dimostrare anche un accordo sulla ripartizione degli utili, in assenza del quale resta esperibile l’azione per ingiustificato arricchimento.

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Società di Fatto: La Confessione sulla Gestione Comune Non Basta

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 14272 del 2024 offre un’importante lezione sui requisiti necessari per dimostrare l’esistenza di una società di fatto e sui limiti della confessione in un processo civile. Quando la collaborazione tra imprenditori si spinge oltre la semplice cooperazione, è fondamentale capire dove finisce la gestione comune e dove inizia un vero e proprio vincolo societario. Questo caso, nato da una controversia tra due fratelli, chiarisce che ammettere di gestire le proprie aziende come un’unica entità non è sufficiente per provare l’esistenza di una società di fatto.

I Fatti del Caso: Due Fratelli e una Gestione Condivisa

La vicenda vede protagonisti due fratelli, entrambi imprenditori agricoli titolari di aziende distinte. Uno dei due conviene in giudizio l’altro per ottenere la restituzione di una somma di denaro, sostenendo di averla pagata per l’acquisto di vitelli destinati all’azienda del fratello. L’attore espone che, nonostante le due aziende fossero formalmente separate, venivano gestite “come se fossero un unico centro di interessi nei rapporti con terzi e fornitori”.

Il Tribunale di primo grado accoglie la domanda, qualificandola come azione di ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.). Il fratello convenuto, tuttavia, appella la sentenza, sostenendo che l’azione corretta sarebbe dovuta essere quella contrattuale, derivante da una società di fatto esistente tra i due. Secondo la sua tesi, la presenza di un rapporto sociale escluderebbe la possibilità di ricorrere all’azione di arricchimento, che ha natura residuale. La Corte d’Appello rigetta il gravame, ritenendo non provata l’esistenza della società.

La Decisione della Corte: La prova della società di fatto

Il caso giunge dinanzi alla Corte di Cassazione. Il ricorrente basa il suo unico motivo sulla violazione delle norme sulla confessione. Sostiene che il fratello, nel suo stesso atto di citazione e in alcune lettere, avrebbe “confessato” l’esistenza della società di fatto ammettendo la gestione comune e definendosi “soci ed amministratori entrambi”.

La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile per tre ragioni fondamentali, delineando confini precisi sulla prova della società di fatto e sull’uso della confessione come strumento probatorio.

Le Motivazioni della Cassazione: I Limiti della Confessione

Le motivazioni della Corte sono un compendio di rigore processuale e sostanziale. Vediamole nel dettaglio.

La Novità della Questione in Cassazione

In primo luogo, la Corte rileva che la questione del valore confessorio delle dichiarazioni dell’attore non era mai stata sollevata in appello. Stabilire se una dichiarazione costituisca confessione richiede un accertamento misto di fatto e di diritto (valutando sia l’elemento oggettivo, cioè il contenuto sfavorevole, sia quello soggettivo, l’ animus confitendi). Tale questione non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità.

L’Irrilevanza della Mancata Valutazione delle Prove

In secondo luogo, la doglianza relativa alla mancata considerazione di alcune lettere da parte dei giudici di merito è ritenuta inammissibile. La mancata valutazione di una fonte di prova non è, di per sé, un vizio che può essere fatto valere in Cassazione, se non nei casi eccezionali di errore revocatorio o di omesso esame di un fatto storico decisivo, circostanze non riscontrate nel caso di specie.

Il Difetto di Decisività: L’Elemento Mancante della società di fatto

Questo è il punto cruciale. La Corte spiega che, anche se si volesse ammettere che l’attore avesse confessato una gestione comune delle aziende, ciò non basterebbe a dimostrare l’esistenza di una società di fatto. Per la costituzione di una società, anche non formalizzata, è necessario un elemento ulteriore e fondamentale: l’accordo sulla ripartizione degli utili e delle perdite in misura proporzionale ai conferimenti (affectio societatis orientata al lucro). La Corte d’Appello aveva già accertato, con una valutazione di merito non sindacabile in Cassazione, che questo accordo non era stato provato. Pertanto, l’eventuale confessione sulla sola gestione comune sarebbe stata irrilevante ai fini della decisione.

Conclusioni: Cosa Imparare da questa Ordinanza

L’ordinanza in esame ribadisce un principio cardine del diritto societario: la gestione comune di attività economiche non implica automaticamente la nascita di una società di fatto. È indispensabile provare la volontà dei soggetti di vincolarsi per un fine comune, dividendo profitti e perdite. In assenza di tale prova, le dichiarazioni su una gestione unitaria non assumono valore di confessione decisiva. Per gli imprenditori che collaborano strettamente, questa decisione sottolinea l’importanza di formalizzare i propri rapporti per evitare controversie future e per definire chiaramente la natura giuridica della loro cooperazione. In mancanza di un contratto sociale provato, l’azione per ingiustificato arricchimento rimane la via corretta per regolare i rapporti di dare-avere tra le parti.

Ammettere di gestire due aziende “come se fossero una sola” equivale a confessare l’esistenza di una società di fatto?
No. Secondo la Corte, questa ammissione non è sufficiente. Per provare una società di fatto è necessario dimostrare anche l’esistenza di un accordo sulla ripartizione degli utili e delle perdite, elemento che in questo caso non è stato provato.

Perché l’azione di ingiustificato arricchimento non era applicabile secondo il ricorrente?
Il ricorrente sosteneva che esistesse una società di fatto tra i fratelli. Di conseguenza, l’azione legale corretta sarebbe stata quella contrattuale derivante dal rapporto sociale, e non l’azione di ingiustificato arricchimento, che ha carattere residuale (cioè si può usare solo se non ci sono altre azioni specifiche disponibili).

È possibile sollevare per la prima volta in Cassazione la questione relativa al valore di confessione di una dichiarazione?
No. La Corte ha stabilito che la valutazione della natura confessoria di un atto è una questione mista di fatto e di diritto. Come tale, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità (davanti alla Cassazione), ma deve essere stata sollevata nei gradi di giudizio precedenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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