Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 14272 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 14272 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/05/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 23142/20 proposto da:
-) COGNOME NOME , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
-) COGNOME NOME , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia 22 maggio 2020 n. 489; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3 aprile 2024 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
Per quanto ancora rileva in questa sede, nel 2013 NOME COGNOME convenne dinanzi al Tribunale di Bergamo il germano NOME, esponendo che:
-) l’attore ed il convenuto erano imprenditori agricoli e gestivano le aziende agricole denominate rispettivamente ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘;
-) essi, tuttavia, gestivano le due aziende ‘ come se fossero un unico centro di interessi nei rapporti con terzi e fornitori’ ;
-) in virtù di questa modalità gestoria l’attore aveva eseguito numerosi pagamenti a beneficio anche del convenuto; tra questi, aveva versato il prezzo di euro 39.870 per un acquisto di vitelli, venduti dalla società RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME.
Oggetto:
ingiustificato
arricchimento dell’azione .
–
residualità
Sulla base di questi fatti chiese , tra l’altro (tra le altre domande che qui più non rilevano, perché ormai coperte da giudicato) la condanna del convenuto alla rifusione anche della suddetta somma.
Con sentenza n. 1011/17 il Tribunale di Bergamo, qualificata la domanda di restituzione del suddetto importo come azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., la accolse.
La sentenza fu appellata da NOME COGNOME, il quale contestò l’applicabilità nella specie dell’art. 2041 c.c., per difetto del requisito della residualità.
Dedusse che tra i due fratelli esisteva una società di fatto, e che per la restituzione del suddetto importo NOME COGNOME aveva a disposizione l’azione contrattuale scaturente dal contratto di società. Sicché, disponendo l’attore d’una azione ad hoc , non si sarebbe potuta esaminare ed accogliere la domanda di ingiustificato arricchimento.
Con sentenza 22.5.2020 n. 489 la Corte d’appello di Brescia rigettò, sul punto, il gravame; in particolare, ritenne che l’esistenza di una società di fatto tra NOME COGNOME e NOME COGNOME fosse stata genericamente dedotta e comunque non provata e che, di conseguenza, correttamente era stata esaminata ed accolta dal Tribunale la domanda di ingiustificato arricchimento.
La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione da NOME COGNOME con ricorso fondato su un motivo ed illustrato da memoria.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Il Collegio ha disposto il deposito della motivazione nel termine di cui all’art. 380 bis, secondo comma, c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo il ricorrente lamenta la violazione delle norme sulla confessione (artt. 27332735 c.c.), ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c..
Deduce, in sostanza, che l’esistenza d’una società di fatto tra i due fratelli COGNOME era stata ammessa dall’attore nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, nonché in alcune missive da questi inviate al fratello prima dell’introduzione del giudizio.
Nell’atto di citazione, infatti, si affermava che le due aziende agricole erano gestite dai due fratelli ‘ come se fossero un’unica realtà impr e nditoriale’ (p. 2); mentre in una lettera del 13.12.2012 NOME COGNOME dichiarava apertamente che i due fratelli erano stati ‘ soci ed amministratori entrambi’ delle due aziende agricole; tali deduzioni erano stato poi ribadite nella comparsa di costituzione in grado di appello.
Conclude il ricorrente sostenendo (e ribadendo nella memoria) che la Corte d’appello, ritenendo non provata l’esistenza d’una società di fatto, ha violato le norme che sollevano la parte, a cui favore è stata resa la confessione, dall’onere della prova.
1.1. Il motivo è inammissibile per tre ragioni.
In primo luogo per la sua novità .
Stabilire se un atto o un documento abbiano natura confessoria è un accertamento misto di fatto-diritto, in quanto:
sul piano soggettivo impone di stabilire se quella dichiarazione sia sorretta dall’ animus confitendi ;
sul piano oggettivo impone di stabilire se la dichiarazione sia o meno sfavorevole al dichiarante ( ex multis , Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 3698 del 14/02/2020, Rv. 657253 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5330 del 04/04/2003, Rv. 561903 – 01).
In quanto questione (anche) di fatto, l’esistenza d’una confessione non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, al contrario delle questioni di puro diritto.
Tuttavia non risulta che in appello tale questione sia stata sollevata: di essa infatti non si fa menzione nel quarto motivo d’appello, per come trascritto alle pp. 8-11 del ricorso.
1.2. In secondo luogo il motivo, nella parte in cui lamenta la mancata considerazione delle due missive del 15.1.2013 e del 13.12.2012, è inammissibile, perché la mancata considerazione d’una fonte di prova non è vizio censurabile in sede di legittimità, salve le ipotesi dell’errore revocatorio o dell’omesso esame del fatto decisivo.
1.3. In terzo luogo, il motivo è inammissibile per difetto di decisività.
Anche a supporre, infatti, che l’attore NOME COGNOME avesse confessato di gestire, in comune col fratello NOME COGNOME, le loro due aziende agricole, ciò non bastava come esattamente rilevato dalla Corte d’appello – per ritenere sussistente una società di fatto. Sarebbe stata necessaria infatti anche la dimostrazione (e, prima ancora, la allegazione) dell’altro elemento costitutivo del contratto di società, anche di fatto: ovvero un accordo per la ripartizione degli utili in misura proporzionale al conferimento. Questo accordo è stato tuttavia ritenuto non provato dalla Corte d’appello ; e tale valutazione, concernendo una questione di merito, è qui insindacabile.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
P.q.m.
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) condanna NOME COGNOME alla rifusione in favore di NOME COGNOME delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 5.500, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della