Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1122 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1122 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8297/2019 R.G. proposto da
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
COGNOME e COGNOME NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME -controricorrenti –
Avverso la sentenza n. 2/2019 della Corte d’Appello di Venezia, pubblicata il 2/1/2019 e notificata via pec il 2/1/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre 2023 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con atto di citazione notificato il 2 agosto 2011, NOME e NOME COGNOME convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Verona, il fratello NOMECOGNOME onde ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria formatasi alla morte del padre NOME, avvenuta il 17 settembre 2008, esponendo che, in data 25 luglio 2000, il de cuius aveva venduto al convenuto la nuda proprietà delle sue 38.000 azioni (pari al 19%) della RAGIONE_SOCIALE poi RAGIONE_SOCIALE, che il fratello aveva, a tal fine, circonvenuto il padre, all’epoca incapace di intendere e di volere, con conseguente nullità dell’atto e rientro delle quote e dei relativi frutti nella massa ereditaria, che, in subordine, il trasferimento di quel diritto parziario era avvenuto a titolo gratuito ed era, quindi, soggetto a collazione per imputazione, e che, in via ulteriormente gradata, la cessione della nuda proprietà delle azioni dissimulava una donazione o comunque un negozio misto con donazione, sicché, in entrambi i casi, avrebbe dovuto essere disposta la riduzione della donazione e la reintegrazione delle quote di riserva.
Costituitosi in giudizio, NOME COGNOME non si oppose alla domanda di divisione ereditaria, ma eccepì, preliminarmente, la nullità della citazione ex art. 164 cod. proc. civ., in relazione alla domanda principale risarcitoria e a quella di nullità per simulazione relativa al negozio di trasferimento delle azioni, e, nel merito, contestò integralmente i fatti posti a sostegno delle domande attoree, documentando di aver pagato la nuda proprietà delle azioni ed evidenziando il possesso, in capo al padre, della capacità di intendere e volere. Peraltro, in seguito all’integrazione delle domande attoree, il predetto chiese, in via di ulteriore subordine, che, in caso di accoglimento della domanda di nullità della compravendita delle azioni per simulazione e di rigetto dell’usucapione, venisse riconosciuto il
suo diritto di ripetizione del prezzo della nuova proprietà, pari a 300 milioni di lire, oltre rivalutazione e interessi.
Nelle more del primo giudizio, i medesimi NOME e NOME COGNOME convennero nuovamente in giudizio il fratello NOMECOGNOME sostenendo che due lettere dell’Ufficio Reclami di Unicredit del 31 luglio 2013 e del 14 settembre 2013 avevano rivelato che l’assegno di lire 300 milioni, con cui, il 25 luglio 2000, il convenuto aveva pagato al padre la nuda proprietà delle azioni della società, erano state utilizzate per regolare un bonifico di pari importo disposto lo stesso giorno da NOME COGNOME in favore del figlio NOME e hanno perciò invocato la declaratoria di nullità, per simulazione assoluta, del negozio di cessione della nuda proprietà della partecipazione societaria in questione e chiesto, in subordine, l’accertamento della simulazione relativa della predetta compravendita e, per l’effetto, la declaratoria di nullità, per difetto di forma, della donazione dissimulata, con condanna del convenuto alla restituzione alla massa ereditaria della partecipazione societaria.
Costituitosi in giudizio, NOME COGNOME eccepì la nullità della domanda risarcitoria contenuta nella seconda citazione e, in via riconvenzionale subordinata, ribadì l’intervenuta usucapione ex art. 1161 della proprietà delle azioni-quote della società.
Con ordinanza dal 14 febbraio 2013 le due cause furono riunite.
Nel medesimo giudizio, gli attori chiesero e ottennero, con ordinanza del 26 marzo 2013, il sequestro giudiziario delle quote contese.
Con sentenza non definitiva n. 2521 del 3 novembre 2014, successivamente corretta con ordinanza del 9 dicembre 2014, il Tribunale di Verona rigettò la domanda attorea di nullità del contratto di compravendita della nuda proprietà della partecipazione societaria, escludendo che, all’epoca del
contratto, ossia il 25 luglio 2000, NOME COGNOME fosse incapace di intendere e di volere, dichiarò l’infondatezza della domanda di accertamento della simulazione assoluta del medesimo contratto, ritenne, invece, provata l’esistenza di un accordo simulatorio relativo, nelle forme di una vendita della nuda proprietà senza effettivo pagamento del prezzo, dissimulante una donazione nulla per difetto di forma ex artt. 782 cod. civ. e 47 legge n. 89 del 1913, escluse la buona fede del convenuto ai fini dell’usucapione ex art. 1161 cod. civ., rigettò la domanda risarcitoria degli attori, in assenza di prova del danno, dichiarò la nullità per simulazione relativa del negozio di cessione, ordinò, per l’effetto, la restituzione al patrimonio ereditario di tutte le quote, confermò il sequestro giudiziario e dispose la divisione ereditaria, rinviando la causa, con separata ordinanza dal 4 novembre 2014, ad altra udienza, nella quale dispose c.t.u. per la ricostruzione e la valutazione dell’asse relitto e la predisposizione di un progetto di divisione.
Con sentenza definitiva n. 24 del 30 dicembre 2016, successivamente corretta con ordinanza del 26 aprile 2017, il tribunale sciolse la comunione ereditaria, assegnando un bene immobile in comproprietà agli attori e altri due al convenuto, il quale fu anche dichiarato tenuto a conguagliare il maggior valore e il 19% delle quote della società nella misura di 1/3 per ciascun erede.
Il giudizio d’appello, incardinato da NOME COGNOME avverso la sentenza non definitiva n. 2521 del 3 novembre 2014 e quella definitiva n. 24 del 30 dicembre 2016, nel quale si costituirono NOME e NOME COGNOME proponendo a loro volta appello incidentale sulle spese e appello incidentale condizionato, si concluse con la sentenza n. 2/2019 del 2 gennaio 2019, con la quale la Corte d’Appello di Venezia rigettò l’appello proposto,
confermò integralmente la sentenza non definitiva, e, in parziale accoglimento di quello incidentale avverso la sentenza definitiva, dichiarò superiore a quello precedentemente riconosciuto il valore dell’immobile assegnato a COGNOME NOME e condannò il predetto a corrispondere a ciascuno degli originari attori il conguaglio e alla rifusione delle spese processuali di primo e secondo grado.
Contro la predetta sentenza COGNOME NOME propone ricorso per cassazione sulla base di sette motivi illustrati anche con memoria. Si difendono con controricorso, illustrato anche con memoria, COGNOME NOME e COGNOME NOME
Considerato che :
1.Preliminarmente deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai controricorrenti. Il ricorso, che si articola in numerosi motivi, invoca il controllo di legittimità su plurime questioni di diritto, ed è pertanto ammissibile dal punto di vista della conformità al modello legale tipico, impregiudicata la possibilità di dichiarare inammissibili singoli motivi ove le dedotte violazioni di legge sostanziale o processuale risultassero apparenti (da ultimo, Cass. Sez. U 27/12/2019, n. 34476).
1.1 Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza, con riferimento all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per mancanza dell’elemento essenziale previsto dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., la motivazione apparente e la generica condivisione senza vaglio critico dei motivi d’appello, per avere i giudici di merito confermato la sentenza del G.O.T. veronese, rendendo una motivazione soltanto apparente e condividendo senza alcun esame critico i precisi motivi di gravame sollevati con l’appello, in quanto aveva riportato
testualmente sia la lettera dell’ufficio reclami di Unicredit del 31 luglio 2013 e le dichiarazioni del teste NOME COGNOME che aveva parlato di due operazioni (una consistita nella realizzazione di un bonifico di lire 300 milioni, ordinato da COGNOME NOME in favore di COGNOME NOME e COGNOME NOME e l’altra consistita nell’emissione di un assegno circolare di lire 300 milioni, addebitato sul conto corrente di NOME COGNOME e COGNOME NOME, sul quale era stato accreditato il precedente bonifico) e aveva affermato che la prova della simulazione del pagamento del prezzo era documentale, che l’estratto del libro giornale era stato acquisito su ordine di esibizione del giudice e che la complessa operazione bancaria presupponeva un accordo tra le parti, senza considerare, invece, i motivi di gravame che erano stati fondati sull’assenza di evidenza delle scritture contabili, non essendo state queste conservate dalla Unicredit, sull’inammissibilità delle testimonianze attoree, non essendo stato indicato il nome di un testimone diretto e non potendo prendersi in esame il libro giornale della banca in quanto non ne era stata ritualmente disposta la acquisizione, sull’inammissibilità della deposizione del teste NOME COGNOME in quanto non indicato nei modi e termini di cui all’art. 244 cod. proc. civ., sull’inammissibilità dell’acquisizione dell’estratto del libro giornale, portato con sé dal teste COGNOME, benché fossero rimasti ignoti l’autore, la data di formazione e l’appartenenza di quella stampa, il libro giornale non potesse essere quello della banca, avendo questa affermato di non averlo più per decorso dei termini di conservazione di cui all’art. 2220 cod. civ., e la sua riproduzione su supporto fotografico fosse priva dell’attestazione di conformità all’originale, e, infine, sulla non qualificabilità della testimonianza e del predetto documento come indizi gravi, precisi e concordanti, non essendo stato provato il fatto noto.
1.2 Il primo motivo è infondato.
Invero, la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U, 03/11/2016, n. 22232).
La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve, infatti, essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella ‘motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487).
Nella specie, i giudici di merito non si sono affatto limitati a richiamare la motivazione della sentenza di primo grado, ma hanno compiutamente analizzato le doglianze espresse
dall’appellante con l’atto di gravame, adeguatamente argomentando sui motivi della loro reiezione, sicché la censura si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia di fatto, certamente estranea alla natura e ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez. U., 25/10/2013, n. 24148).
2.1 Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 2724, n. 1, cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto ravvisabile un principio di prova scritta, costituita dall’estratto del libro giornale della banca, da cui emergevano le operazioni bancarie descritte dai testi, superando la contestata ammissibilità della prova per testi afferente alla simulazione della quietanza, costituita dalla firma di girata posta per l’incasso da NOME COGNOME sul retro dell’assegno circolare. In particolare, la Corte d’appello, qualificando come libro giornale il foglio di carta portato con sé dal teste COGNOME e attribuendogli la valenza di principio di prova scritta, aveva violato la norma sopracitata perché il documento non proveniva dalla persona contro la quale era diretto, ossia NOME COGNOME o il figlio NOME, ma dal teste COGNOME che l’aveva qualificato come libro giornale della banca, in contrasto con quanto stabilito da questa Corte con la sentenza n. 7093/2017.
2.2 La censura è infondata, sebbene si ponga in parte la necessità di correggere la sentenza d’appello.
Innanzitutto, occorre evidenziare come i giudici di merito non abbiano affatto individuato nel c.d. ‘foglio di carta’ portato con sé dal teste COGNOME (ossia nel libro giornale della banca) l’unico principio di prova scritta necessario a rendere ammissibile la prova testimoniale, come affermato nel motivo, ma hanno altresì fatto riferimento ad altro documento, ossia il contratto simulato,
in applicazione del principio, affermato da questa Corte, secondo cui questo può legittimamente configurarsi, quoad probationis , in termini di “principio di prova scritta”, sufficiente, come tale, a rendere ammissibile la prova testimoniale inter partes a norma degli artt. 1417 e 2724 n. 1 cod. civ., e può, altrettanto legittimamente, venir posto, in concorso con altri elementi di prova, a fondamento del giudizio circa la sussistenza di una vicenda negoziale di carattere simulatorio (vedi Cass., Sez. 3, 13/11/1997, n. 11232), ribadito anche in altri casi (in tal senso vedi Cass., Sez. 2, 12/11/1979, n. 5830; Cass., Sez. 2, 4/5/1985, n. 2790).
Ciò comporta l’inammissibilità della censura, non essendo stata con essa attinta anche questa parte della motivazione.
Va, peraltro, osservato come la questione rilevata nel motivo, secondo la quale il libro giornale della banca non avrebbe potuto essere considerato principio di prova scritta in quanto non proveniente dalla controparte, secondo quanto sancito dall’art. 2724, n. 1, cod. civ., non rilevi affatto in una situazione come quella di specie, nella quale gli originari attori avevano agito quali legittimari del de cuius , proponendo altresì domanda di riduzione, sicché sotto questo profilo anche la motivazione della sentenza deve essere corretta.
Va innanzitutto premesso che, in tema di simulazione di un contratto di compravendita immobiliare, la prova per testi soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa, giacché, nel primo caso, l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 cod. civ., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem , menzionati dall’art. 2725 cod. civ., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente
stipulato, sicché la prova testimoniale è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 cod. civ. (Cass., Sez. 2, 7/4/2006, n. 8210; Cass., Sez. 2, 26/2/2004, n. 3869), mentre nel secondo caso, occorre distinguere, in quanto se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 citato, cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta a far valere l’illiceità del negozio (Cass., Sez. 2, 16/4/1988, n. 2998; Cass., Sez. 2, 4/5/2007, n. 10240; Cass., Sez. 2, 10/3/2017, n. 6262).
Ciò comporta che l’argomentazione contenuta in sentenza, secondo la quale troverebbe applicazione l’art. 2724, n. 1, cod. civ., nonostante la qualificazione della fattispecie in termini di simulazione relativa e non assoluta, è solo per questo erronea.
Ma ciò che più conta è che il ricorrente e, sotto questo profilo la stessa sentenza, non tiene conto della disciplina applicabile quando la simulazione si innesti in un giudizio volto a far valere i diritti degli eredi legittimari, come nella specie.
La necessità del principio di prova scritta onde ammettere quella testimoniale, ai sensi dell’art. 2722, n. 1, cod. civ., e i principi richiamati nella sentenza impugnata si riferiscono, infatti, ai soli casi di azione ordinaria di simulazione, ossia di quella fatta valere da uno dei contraenti e, analogamente, dall’erede che subentri nella medesima posizione del de cuius senza allegare la qualità di legittimario (Cass., Sez. 2, 4/5/2023, n. 11659), onde ottenere
l’accertamento dell’assenza di una volontà di trasferire beni che quindi solo in apparenza sono pervenuti al cessionario, rispetto ai quali la disciplina della prova della simulazione ricade appieno nella previsione di cui all’art. 1417 cod. civ., che pone specifici limiti alla prova per testimoni a carico delle parti contraenti, e ciò anche per l’ipotesi di simulazione assoluta, la quale, oltre che a mezzo di produzione della controdichiarazione, e quindi tramite atto in forma scritta, al più potrebbe essere fornita a mezzo di interrogatorio formale (cfr. Cass., Sez. 2, 10/4/2018, n. 8804; Cass., Sez. 3, 26/2/2004, n. 3869), ma non anche con il ricorso a presunzioni (vedi Cass., Sez. 2, 4/5/2023, n. 11659; Cass., Sez. 2, 2022, n. 18434).
Diversamente accade, invece, quando la parte spenda la propria qualità di legittimario, interessato a tutelare la quota di riserva spettantegli, come nel caso di specie.
Questi, infatti, in quanto terzo rispetto al contratto dissimulato, è, invece, ammesso a provare, per testimoni e presunzioni, la simulazione di una vendita fatta dal de cuius , senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 cod. civ. (Cass., Sez. 2, 21/12/2021, n. 41132; Cass., Sez. 6-2, 11/1/2018, n. 536; Cass., Sez. 2, 22/9/2014, n. 19912; Cass., Sez 2, 25/5/2001, n. 7134; Cass., Sez. 2, 21/4/1998, n. 4024), a condizione che la relativa situazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia, senza che sia necessario anche l’esercizio dell’azione di riduzione, essendo, invece, sufficiente che l’accertamento della simulazione sia preordinato all’inclusione del bene, oggetto della donazione dissimulata, nella massa di calcolo della legittima e alla determinazione, così, dell’eventuale riduzione delle porzioni dei coeredi concorrenti nella successione ab intestato , in conformità a quanto dispone l’art. 553 cod. civ. (Cass., Sez. 2, 9/5/2019, n.
12317; Cass., Sez. 2, 4/5/2023, n. 11659), giacché solo in questa ipotesi l’erede, che attraverso l’azione ex art. 1414 cod. civ. miri a reintegrare la quota spettantegli quale legittimario, si pone come “terzo” rispetto all’atto impugnato e difende un diritto proprio che gli spetta per legge, in una posizione antagonista rispetto al de cuius (cfr. Cass., Sez. 2, 18/4/2003, n. 6315; Cass., Sez. 2, 4/5/2023, n. 11659).
Ciò fa sì che, in tali situazioni, non assuma alcuna rilevanza la prescrizione contenuta nell’art. 2724, n. 1, cod. civ. della necessaria sussistenza di un principio di prova scritta, la quale rileva soltanto in caso di azione di simulazione relativa ordinaria esercitata da una delle parti del contratto simulato, ma non anche in caso di azione simulatoria esercitata dal legittimario, per la quale opera, invece, il diverso regime probatorio di cui all’art. 1417 cod. civ., che, in relazione a domande proposte dalle stesse parti quando facciano valere l’illiceità del contratto dissimulato oppure da terzi o creditori, consente senza limiti di provare la simulazione attraverso testimoni.
Alla stregua di tali principi, i giudici di merito hanno allora errato, allorché hanno ritenuto di valorizzare il principio di prova scritta onde ammettere la prova per testi e per presunzioni, non avendo considerato la superfluità, nella specie, della questione, sicché la motivazione della sentenza deve essere sotto questo profilo corretta.
La censura, invece, in quanto fondata su un aspetto del tutto superfluo, deve essere dichiarata inammissibile.
3.1 Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 2215 -bis , cod. civ. e dell’art. 20 d.lgs. n. 82 del 2005, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché la valenza probatoria della documentazione informatica, per avere i giudici di merito qualificato il documento prodotto dal teste COGNOME
come estratto del libro giornale della banca, nonostante fosse inefficace la sua valenza probatoria, non essendo mai state messe a disposizione le registrazioni contenute negli strumenti informatici in cui erano tenuti i libri obbligatori e le altre scritture contabili ex art. 2214 cod. civ., tra cui il libro giornale, e nonostante la stessa banca avesse affermato, per il tramite di due suoi funzionari, di non avere conservato il libro giornale, essendo decorso il termine decennale di conservazione di cui all’art. 2220 cod. civ.. Inoltre, la valida acquisizione di quei dati al processo avrebbe richiesto un’ispezione telematica da parte di un c.t.u. che consentisse la loro estrapolazione dal computer e l’estrazione di copia conforme all’originale, garantendone integrità e immodificabilità, posto che il documento informatico soddisfa il requisito della prova scritta e garantisce il suo valore probatorio solo quando abbia alcune caratteristiche, che possono essergli conferite esclusivamente quando la sua acquisizione avvenga nell’osservanza delle regole tecniche stabilite dall’art. 71 d.lgs. n. 82 del 2005 e in conformità alle best practices internazionali in materia richiamate dalla legge n. 48 del 2008.
3.2 Il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità, è parimenti infondato.
Qualora, infatti, una questione giuridica -implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa
(Cass., Sez. 6-5, 13/12/2019, n. 32804), non essendo consentita, nel giudizio di cassazione, la prospettazione di nuove questioni di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum ed implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, anche ove si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Sez. 2, 06/06/2018, n. 14477; Cass., Sez. 2, 15/3/2022, n. 12877).
Ebbene, la questione sollevata con la censura in esame non è stata in alcun modo trattata nella decisione impugnata, sicché sarebbe stato onere del ricorrente indicare in quale fase del giudizio precedente lo avesse fatto e non limitarsi ad evidenziare le richieste istruttorie proposte sul punto dalla sua controparte, come accaduto nella specie.
Peraltro, le doglianze hanno avuto riguardo ad aspetti che nulla hanno a che vedere con la validità e la valenza probatoria delle copie estratte da strumenti informatici.
L’art. 2215 -bis cod. civ. stabilisce, invero, che « i libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria per disposizioni di legge o di regolamento o che sono richiesti dalla natura o dalle dimensioni dell’impresa possono essere formati e tenuti con strumenti informatici. Le registrazioni contenute nei documenti di cui al primo comma devono essere rese consultabili in ogni momento con i mezzi a disposizione del soggetto tenutario e costituiscono informazione primaria e originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge . I libri, i repertori e le scritture tenuti con strumenti informatici, secondo quanto previsto dal presente articolo, hanno l’efficacia probatoria di cui agli articoli 2709 e 2710 cod. civ. », mentre l’art. 20 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, in tema di codice dell’amministrazione digitale, stabilisce che « il documento informatico da chiunque
formato, la registrazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, se conformi alle disposizioni del presente codice e alle regole tecniche di cui all’art. 71 » (afferenti alla trasmissione, conservazione, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici).
Quanto alle copie di atti e documenti informatici, l’art. 23 del predetto d.lgs., dispone che « i duplicati, le copie, gli estratti del documento informatico, anche se riprodotti su diversi tipi di supporto, sono validi a tutti gli effetti di legge, se conformi alle vigenti regole tecniche » (comma 2), « i documenti informatici contenenti copia o riproduzione di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi di ogni tipo, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai sensi degli articoli 2714 e 2715 del codice civile, se ad essi è apposta o associata, da parte di colui che li spedisce o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata (comma 3) », « le copie su supporto informatico di documenti originali non unici formati in origine su supporto cartaceo o, comunque, non informatico sostituiscono, ad ogni effetto di legge, gli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale è assicurata dal responsabile della conservazione mediante l’utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’art. 71 » (comma 4).
Le disposizioni testé esaminate regolano sostanzialmente il processo di dematerializzazione e di conservazione delle scritture native cartacee e trasformate e conservate in digitale, attribuendo a quelle tenute a norma di legge l’efficacia probatoria di cui agli artt. 2709 e 2710 cod. civ..
A ben vedere, però, queste norme, nello statuire che i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, la prima, e che i libri bollati e vidimati possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa se regolarmente tenute, la seconda, regolano, come anche recentemente ricordato da questa Corte, l’efficacia probatoria delle scritture contabili contro l’imprenditore e nei rapporti tra imprenditori (Cass., Sez. 3, 6/10/2023, n. 28217; Cass., Sez. 2, 16/5/2016, n. 9968), ponendo una presunzione semplice di veridicità, a sfavore per l’appunto dell’imprenditore (Cass., Sez. 1, 22/5/2009, n. 11912), ma non rilevano nei rapporti con i terzi (si veda, sul punto, Cass., Sez. 6-1, 4/12/2020, n. 27902, sia pure per il diverso caso di inopponibilità al curatore fallimentare, che agisca nella sua funzione di gestore del patrimonio del fallito e non in via successione in un rapporto facente capo al fallito, dell’efficacia probatoria tra imprenditori di cui alle predette disposizioni), come nella specie, nella quale non si discute affatto di rapporti imprenditoriali tra le parti e nella quale i contenuti del libro giornale prodotto rileva soltanto come questio facti .
4.1 Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 1161 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., con riguardo al possesso di beni immobili e alla buona fede del possessore, perché la Corte veneziana, conformemente a quanto affermato in primo grado, aveva rigettato la domanda di usucapione delle quote societarie, escludendo la buona fede dell’originario convenuto, sul presupposto che l’unica motivazione che muoveva i contraenti dell’accordo simulatorio fosse quella di nascondere la donazione effettivamente voluta all’attenzione e alle ragioni degli altri coeredi, e affermando che mancassero sia un titolo astrattamente idoneo a trasferire il
possesso, stante la nullità di quello esaminato, sia lo stesso possesso, posto che tutte le facoltà inerenti lo status di socio, dopo la cessione della nuda proprietà, erano state esercitate da NOME COGNOME Ad avviso del ricorrente, erano state, in tal modo, violate le norme citate, in quanto la donazione simulata, ancorché priva del requisito di forma, era idonea a trasmettere il possesso della partecipazione azionaria, sicché quello esercitato per oltre dieci anni dall’atto aveva comportato l’acquisto della proprietà per usucapione.
4.2 Il motivo è infondato.
Il ricorrente pretende infatti di accreditare la tesi secondo la quale il titolo, ancorché nullo, sarebbe idoneo a consentire l’acquisto della proprietà del bene (mobile) sotto il profilo della buona fede, con ciò sovrapponendo due concetti, quello della invalidità del titolo e quello della buona fede che devono invece tenersi distinti.
L’usucapione abbreviata di beni mobili postula, infatti, per un verso che il titolo a favore del possessore di buona fede sia invalido, tale essendo il negozio di trasferimento mancante o radicalmente nullo, ma ritenuto dall’acquirente per qualsiasi ragione esistente (titolo putativo) (in tal senso, Cass., Sez. 1, 6/4/1982, n. 2103), e, per altro verso, la sussistenza della buona fede del possessore, la quale è costituita non dall’ignoranza dell’altrui diritto, ma dall’ignoranza di arrecare danno all’altrui diritto, senza che al riguardo possa rilevare la conoscenza della validità (o invalidità) formale dell’atto dispositivo (Cass., Sez. 2, 24/2/1982, n. 1134; Cass., Sez. 1, 6/4/1982, n. 2103).
Escluso che detta ignoranza possa dirsi sussistente quando il negozio dissimulato sia idoneo a ledere i diritti del legittimario, i quali possono essere esercitati anche prima dell’apertura della successione, attraverso l’opposizione alla donazione ex art. 563,
quarto comma, cod. civ. (Cass., Sez. 2, 14/9/2022, n. 27065; Cass., Sez. 2, 11/2/2022, n. 4523), deve evidenziarsi come, se è vero che la nullità della scrittura ne inibisce l’utilizzo in giudizio come mezzo di prova del trasferimento del bene e che tale situazione non impedisce di tenerne conto per accertare lo stato di buona (o mala) fede nel momento in cui ebbe inizio la situazione possessoria (Cass., Sez. 2, 2/10/2018, n. 23853), sia altrettanto vero che l’apprezzamento del giudice del merito sull’esistenza dei requisiti che condizionano la legittimità del possesso idoneo all’usucapione e, dunque, sulla idoneità della scrittura a suffragare il requisito soggettivo, come pure sulla sussistenza del possesso, è incensurabile in cassazione se motivato in modo esauriente e corretto (Cass., Sez. 2, 4/7/1969, n. 2468; Cass., Sez. 2, 31/7/1980, n. 4903), non essendo sindacabili, in tale sede, le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale (Cass. 29/10/2018 n. 27415; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857).
Infatti, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 cod. proc. civ. n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), sia
perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 5), sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
Alla stregua di quanto detto, deve perciò dichiararsi l’infondatezza della censura.
5.1 Con il quinto motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il mero riferimento a precedenti di legittimità e l’omessa ricostruzione della fattispecie concreta, nonché la carenza di motivazione, per avere la sentenza impugnata completamente ignorato il primo motivo d’appello avverso la sentenza definitiva e affermato che l’appellante aveva lamentato l’inosservanza dell’art. 789 cod. proc. civ. in tema di processo di divisione, benché la prima critica avesse riguardato il fatto che l’intera parte motiva della sentenza definitiva di primo grado era integralmente formata da un repertorio di massime della Suprema Corte, neppure collegate l’una all’altra da un pur minimo percorso argomentativo, critica alla quale non vi era stata alcuna risposta.
5.2 La censura è infondata, dovendosi riportare alle medesime considerazioni già svolte con riguardo al primo motivo di ricorso.
6.1 Con il sesto motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., con riguardo alla divisione giudiziale, al progetto di divisione del giudice istruttore e all’adesione al progetto del c.t.u., perché i giudici di merito, senza dare risposta al motivo di gravame, avevano condiviso la sentenza di primo grado, che aveva disposto la divisione ereditaria in mancanza di qualsiasi progetto divisionale, in adesione a un precedente di questa Corte (n. 242 del 2010), che, in contrasto con l’assunto, imponeva, invece, l’esistenza di un progetto di divisione, sia esso formato dal giudice o dal consulente tecnico, progetto che, nella specie, non era stato redatto, non potendo considerarsi tale quello, pur intestato ‘progetto divisionale’, nel quale erano indicati unicamente i valori dei singoli lotti.
6.2 La censura è infondata, in quanto, nel procedimento per lo scioglimento di una comunione, non occorre una formale osservanza delle disposizioni previste dall’art. 789 cod. proc. civ. – ovvero la predisposizione di un progetto di divisione da parte del giudice istruttore, il suo deposito in cancelleria e la fissazione dell’udienza di discussione dello stesso – essendo sufficiente che il medesimo giudice istruttore faccia proprio, sia pure implicitamente, il progetto approntato e depositato dal c.t.u., così come non è necessaria la fissazione dell’apposita udienza di discussione del progetto quando le parti abbiano già escluso, con il loro comportamento processuale, la possibilità di una chiusura del procedimento mediante accettazione consensuale della proposta divisione, in tal modo giustificandosi la diretta rimessione del giudizio alla fase decisoria (Cass., Sez. 2, 30/5/2017, n. 13621; Cass., Sez. 2, 11/1/2010, n. 242; Cass., Sez. 2, 1/12/1983, n. 7525), sicché non può considerarsi motivo
di nullità dello scioglimento della comunione il fatto che i giudici di merito non abbiano seguito tutte le tappe del procedimento di divisione.
Peraltro, i giudici di merito, contrariamente a quanto affermato nella censura, hanno preso posizione sul motivo di gravame col quale si lamentava il mancato rispetto della sequenza procedimentale propria del giudizio di divisione, osservando, per quanto qui interessa, che il c.t.u. aveva suddiviso il compendio relitto in quattro lotti, a ciascuno dei quali aveva attribuito un valore, e reputato non divisibile in tre quote il compendio, mentre il giudice di primo grado aveva accorpato due quote in una in seguito alla richiesta provenuta dagli stessi condividendi, sicché non può dirsi che nessun progetto di divisione fosse stato predisposto o che i giudici d’appello non abbiano preso posizione sul punto.
Deve perciò dichiararsi l’infondatezza della censura.
7.1 Con il settimo motivo di ricorso, infine, si lamenta, in via subordinata, la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., con riguardo all’accoglimento dell’appello condizionato e al conguaglio tra i condividenti, perché i giudici di merito, senza motivare, avevano ingiustificatamente determinato il conguaglio dovuto da NOME COGNOME ai fratelli NOME e NOME nella misura di € 60.750,00 ciascuno, previa rideterminazione del valore del lotto B, a lui assegnato, senza considerare che, col pagamento di tale conguaglio nella misura totale di € 120.500,00, la quota assegnata a lui avrebbe avuto un valore di € 148.500,00 (€ 270.000,00 -€ 60.750,00 -€ 60.750,00 = € 148.500,00), mentre col pagamento del conguaglio i fratelli avrebbero ottenuto una quota di valore pari €
240.500,00 ciascuno (€ 359.500,00 + € 120.500,00 = € 481.000,00: 2= € 240.500,00).
7.2 Il motivo è fondato.
Si è già detto che il vizio motivazionale previsto dall’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dall’ art. 54 del d.l. del 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis , presuppone che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico (Cass., sez, U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass., sez. 6 – 3, 20/11/2015, n. 23828), e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (in tal senso, Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20721), dovendosi la norma così come riformulata interpretare alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Vedi Cass., sez, U., 07/04/2014, n. 8053).
Orbene, i giudici di merito, nel riformare la sentenza di primo grado in relazione alla stima del lotto B), assegnato a NOME COGNOME, valutandolo nei medesimi termini suggeriti dal
c.t.u., a fronte di una sua riduzione deliberata dai giudici di merito, hanno provveduto ad aumentare l’importo del conguaglio dovuto agli altri due condividenti, senza tener conto della parità delle quote spettanti a ciascuno di essi e incidendo, dunque, in modo sostanziale, senza in alcun modo motivare, sul relativo riparto, non avendo considerato che la ripartizione, sotto il profilo quantitativo, va ricercata nella idoneità delle quote a perpetuare nella sfera dei singoli il valore della quota astratta di comproprietà, che la disciplina della divisione è intesa a conservare questa proporzionalità di valori e che le operazioni divisionali pongono al centro la preventiva determinazione del valore venale del bene (in tal senso, Cass., Sez. U, 9/6/20022, n. 18641, in motivazione).
Ciò comporta che l’errore compiuto non può essere emendato con il procedimento di correzione di errore materiale ex art. 287 cod. proc. civ., come vorrebbero i controricorrenti, il quale è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute nella motivazione, senza che possa incidere sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione (Cass., Sez. L, 11/8/2020, n. 16877), come accadrebbe, invece, nella specie, nella quale l’erronea determinazione, per eccesso, del conguaglio non può che ridondare nella sostanziale sottrazione di parte della proprietà spettante al comunista chiamato alla sua corresponsione, costituendo la quota ideale di comproprietà proiezione del bene stesso e della misura della titolarità del comunista su di esso e andando a impattare, dunque, la determinazione del conguaglio in ultima analisi sull’entità del
bene attribuito al comunista in sede di scioglimento della comunione.
Ne consegue l’accoglimento della censura.
In conclusione, dichiarata la fondatezza del settimo motivo e respinti gli altri, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, che, in diversa composizione, dovrà statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso limitatamente al settimo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del