Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 13407 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 13407 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23864/2021 R.G.,
proposto da
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore ; rappresentat a e difesa dall’AVV_NOTAIO (EMAIL), in virtù di procura su foglio separato da intendersi apposta in calce al ricorso;
-ricorrente – nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore ; rappresentata e difesa da ll’AVV_NOTAIO (EMAIL), in virtù di procura allegata al controricorso;
-controricorrente –
per la cassazione della sentenza n. 363/2021 della CORTE d’APPELLO di PERUGIA, depositata il 25 giugno 2021, notificata il 2 luglio 2021; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Perugia, la società RAGIONE_SOCIALE, chiedendo che fosse accertato che il contratto tra loro stipulato, cui formalmente era stato dato il nomen juris di affitto di azienda, dissimulava, in realtà, una locazione di immobile ad uso diverso da quello di abitazione e che, di conseguenza, cessato il rapporto alla scadenza naturale a seguito di disdetta inviata dalla locatrice RAGIONE_SOCIALE, quest’ultima fosse condannata a corrisponderle l’indennità per la perdita di avviamento, ai sensi dell’art. 34 della legge n. 392 del 1978, quantificabile in Euro 68.400,00, oltre interessi moratori.
Si costituì in giudizio la convenuta, che negò la sussistenza della dedotta simulazione relativa e resisté alla domanda, invocandone il rigetto.
Il Tribunale di Perugia, ritenuto che effettivamente le parti, dietro la simulazione del contratto di affitto di azienda, avessero dissimulato il diverso contratto di locazione di immobile commerciale, condannò la RAGIONE_SOCIALE al pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE, della
somma di Euro 50.400,00, a titolo di indennità per la perdita di avviamento, oltre intessi e spese.
RAGIONE_SOCIALE propose appello a cui resisté la RAGIONE_SOCIALE.
Con sentenza 25 giugno 2021, n.363, la Corte d’appello di Perugia ha rigettato l’impugnazione, condannando l’appellante alle spese, sui rilievi, tra gli altri: che la trattativa era stata incentrata esclusivamente sull’immobile; che le uniche dotazioni strumentali erano due scrivanie ed un registratore di cassa; che il magazzino ceduto era costituito sostanzialmente da una dotazione completa per bagno (un box doccia, un bidet, un lavabo, un wc, un sedile); che i beni costituenti il magazzino erano stati acquistati dalla locatrice pochi giorni prima della stipula del contratto e riacquistati dalla conduttrice poco dopo la stipula medesima; che la RAGIONE_SOCIALE aveva ampliato l’ oggetto sociale, includendovi il commercio dei beni oggetto dell’ attività del nuovo ramo di azienda pochi giorni prima della stipula del contratto; che la RAGIONE_SOCIALE era un’ azienda già operante da tempo con proprio marchio e organizzazione aziendale; che il contratto di cessione aveva espressamente escluso il trasferimento di debiti, crediti, rapporti commerciali o di lavoro; che il termine, le modalità di rinnovo e le possibilità di recesso per la cessionaria erano ricalcati sulla disciplina del contratto di locazione commerciale; che era evidente che l’ampliamento dell’ oggetto sociale da parte della RAGIONE_SOCIALE, unitamente all’acquisto dei cinque oggetti costituenti il magazzino, aveva quale preordinata finalità quella di poter vestire il contratto di locazione di immobile quale affitto di ramo d’azienda ; che, pertanto, avuto riguardo a tutte queste circostanze (le quali manifestavano la
finalità delle parti di realizzare solo la cessione in uso del locale), perdevano rilievo le espressioni verbali utilizzate nella redazione del contratto (formalmente definito come affitto di azienda), trattandosi di espressioni dissimulatorie.
Propone ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE, sulla base di tre motivi. Risponde con controricorso la RAGIONE_SOCIALE.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380 -bis .1 cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
La società ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo viene denunciata « violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art 360 n. 3 cpc, da intendersi come vizio di sussunzione, consistente nella riconduzione del fatto materiale accertato in corso di causa in una erronea fattispecie legale; in particolare, il rapporto intercorso tra le parti non è stato qualificato come un contratto di affitto di ramo di azienda, ex art 2562 cc, ma piuttosto -infondatamente -come un contratto di locazione commerciale, asseritamente dissimulato tra le stesse ».
La ricorrente premette il richiamo alla pronuncia di questa Corte n. 15603 del 2021, la quale ha affermato il principio secondo cui, ‘ a differenza dell’attività di interpretazione del contratto, che è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti e integra un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, l’attività di qualificazione giuridica è finalizzata a individuare la disciplina applicabile alla fattispecie e, affidandosi al metodo della sussunzione,
è suscettibile di verifica in sede di legittimità non solo per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico di riferimento, ma anche per quanto riguarda la rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati e le implicazioni effettuali conseguenti ‘ .
Ciò premesso, la ricorrente, dopo avere osservato -mediante il richiamo di altri arresti giurisprudenziali di legittimità -che l’affitto di azienda può avere ad oggetto anche un ‘ azienda non funzionante al momento della stipulazione del contratto, purché sussista la potenziale attitudine produttiva dei beni che la compongono, pone in evidenza che, nella fattispecie, le parti avevano espressamente qualificato il negozio tra loro stipulato come ‘affitto di ramo d’azienda’, ed avevano successivamente confermato tale qualificazione del contratto con un ‘atto modificativo di ramo d’azienda’.
Evidenzia, inoltre, che alla formale qualificazione giuridica corrispondeva anche la concreta sostanza dell’operazione negoziale, dal momento che essa aveva consegnato alla RAGIONE_SOCIALE « un ramo di azienda, inteso come un’ organizzazione di beni, comunque già esistente al momento della cessione, nonché finalizzata e ben funzionale per il tipo di attività che la medesima RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto svolgere », composta dall’immobile, dai beni strumentali e dalle giacenze di magazzino, cui si aggiungeva l’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, cod. proc. civ., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e
soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo al giudice della nomofilachia di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. 08/03/2007, n. 5353; Cass. 29/11/2016, n. 16700; Cass. 05/08/2020, n. 16700).
Precisamente, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art.366, n. 4, cod. proc. civ., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte di legittimità il compito di individuare -con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni -la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., Sez. Un., 28/10/2020, n. 23745).
Nel caso di specie, il predetto onere è stato totalmente disatteso, dal momento che la società ricorrente, pur prospettando, nell’intestazione del motivo in esame, la denuncia del vizio di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, non ha poi provveduto né all’ espressa indicazione delle norme di legge che assumeva essere
state violate, né alla formulazione di argomentazioni in iure intese a dimostrare gli errores in iudicando contenuti nella sentenza impugnata, evidenziando il contrasto tra le affermazioni in diritto in essa contenute e le norme regolatrici della fattispecie.
Del tutto generica è rimasta, poi, l’evocazione del vizio di sussunzione operata nell’intestazione del motivo, poiché l’illustrazione di tale specifico vizio, non solo avrebbe richiesto l’individuazione delle norme giuridiche falsamente applicate, del loro significato e dell’ interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, ma avrebbe imposto altresì l’ enunciazione di argomentazioni dirette ad evidenziare che, pur essendo la fattispecie concreta contrattuale riconducile alla (o sussumibile nella) ipotesi astratta da esse considerata, il giudice del merito aveva tuttavia erroneamente omesso di operare tale riconduzione, ovvero, al contrario , l’aveva erroneamente operata, pur non essendo la fattispecie concreta riconducibile a quella ipotesi astratta.
L’inosservanza dell’onere di specificità imposto dall’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., come appena illustrato, espone dunque la censura formulata alla sanzione processuale dell’inammissibilità, impedendone la delibazione nel merito.
Con il secondo motivo viene denunciata « violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art 360 n. 3 cpc, ed in particolare della disciplina di cui agli artt. 1414, 1417, 1397, 2697, 2729 e 2791 cc, da intendersi come erronea riconduzione della fattispecie per cui è causa ad una simulazione contrattuale avente ad oggetto un contratto di locazione di immobile commerciale, che infondatamente si assume stipulato tra le parti ».
La ricorrente sostiene, in sintesi, che, poiché la domanda intesa ad accertare la simulazione relativa del contratto era stata proposta da una delle parti stipulanti, la prova della simulazione avrebbe dovuto essere necessariamente fornita mediante la c.d. ‘controdichiarazione’ scritta. La sentenza di merito sarebbe quindi illegittima per aver violato la regola sui limiti della prova della simulazione, avendo condotto il detto accertamento sulla base della prova presuntiva, assoggettata ai medesimi limiti della prova testimoniale.
2.1. Il motivo è infondato.
Ai sensi dell’art. 1417 cod . civ., il principio generale per cui la prova per testimoni (e quindi anche per presunzioni: art. 2729, secondo comma, cod. civ.) della simulazione è ammessa solo se la domanda è proposta da creditori o da terzi, trova una deroga, nei rapporti tra le parti, allorché la domanda sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato.
Quando, dunque, come nella fattispecie in esame, si intenda dimostrare la dissimulazione di un contrato locativo ad uso commerciale come affitto di azienda, poiché la simulazione relativa è oggettivamente finalizzata ad eludere l’applicazione di una disciplina con diversi profili di imperatività (ad es. in tema di indennità, di durata, ecc.), la parte ben può avvalersi della prova presuntiva, la quale deve reputarsi ammessa, al pari di quella testimoniale, anche quando la domanda è proposta dalla parte, se diretta di far valere l’illiceità del contratto dissimulato (cfr. Cass. 16/04/2009, n. 9012).
Il secondo motivo, pertanto, deve essere rigettato.
Con il terzo motivo viene denunciata la « violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art 360 n. 3 cpc, da intendersi come
vizio nell’aver riconosciuta come dovuta l’indennità per la perdita di avviamento commerciale ex art 34. L. 392/78, in riferimento ad un contratto di affitto di ramo di azienda, ove una siffatta voce di addebito non è ex lege prevista ».
La ricorrente, sul presupposto dell’ accertamento dell ‘ erronea riconduzione della fattispecie contrattuale alla locazione commerciale di immobile e, pertanto, sul postulato dell’ avvenuto accertamento che tale fattispecie era qualificabile come affitto d’ azienda, deduce l’ indebita estensione ad essa della disciplina in tema di indennità per la perdita di avviamento; disciplina che è appunto applicabile, ai sensi dell’art. 34 legge n. 392/1978, unicamente alle locazioni commerciali e non anche ai casi di affitto di azienda.
3.1. Il motivo, presupponendo il previo accertamento della natura di affitto di azienda del negozio stipulato tra le parti, resta assorbito dal rigetto del motivo precedente, che ha confermato la legittimità del contrario accertamento, operato dal giudice del merito, circa la dissimulazione del diverso contratto di locazione commerciale.
In definitiva, il ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello
previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione