Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9525 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 9525 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/04/2025
SENTENZA
sul ricorso 2492-2020 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso l’avv. NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso l’avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 2430/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata in data 21/11/2019
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il Procuratore Generale, nella persona del Sostituto dott. NOME COGNOME
udito l’ avv. NOME COGNOME per la parte controricorrente, il quale ha concluso per il rigetto ricorso
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. del 3.12.2015 Banca del Fucino S.p.a. evocava in giudizio COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME innanzi il Tribunale di Foggia, invocando la dichiarazione di simulazione assoluta, o comunque la revocatoria, degli atti dispositivi posti in essere dal primo, a favore della seconda, sua coniuge, nonché la condanna del predetto COGNOME al pagamento della somma di € 114.842,88 oltre accessori. Si costituivano i convenuti, resistendo alla domanda ed eccependo il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, che veniva disposta dal Tribunale e non aveva esito positivo.
Con ordinanza del 22.9.2016 il Tribunale accoglieva la domanda, condannando il COGNOME al pagamento della somma di € 114.842,88 oltre interessi al tasso legale dal 1.7.2014 al soddisfo e dichiarando la simulazione assoluta degli atti a rogito notar Pepe del 18.5.2011 e del
notar COGNOME del 21.5.2013, con i quali il COGNOME aveva ceduto alla moglie COGNOME i suoi beni immobili.
Con la sentenza impugnata, n. 2430/2019, la Corte di Appello di Bari rigettava il gravame interposto dal COGNOME e dalla COGNOME avverso la decisione di prime cure, confermandola.
La Corte distrettuale evidenziava, in particolare, quanto al primo atto, la mancanza della prova del pagamento del corrispettivo pattuito tra le parti; che la COGNOME, priva di redditi propri (circostanza dichiarata dai coniugi nella loro separazione personale consensuale, formalizzata il 18.10.2011, pochi mesi dopo la simulata compravendita), non aveva indicato come si fosse procurata la disponibilità del denaro occorrente per gli acquisti; che il COGNOME aveva continuato a mantenere la sua residenza nell’immobile simulatamente ceduto alla moglie; che l’anteriorità del trasferimento al sorgere del credito, derivante da scoperto di conto corrente, non limita il diritto del creditore a far valere la simulazione dell’atto posto in essere dal debitore, se questo sia pregiudizievole per gli interessi del creditore; e che la Zaffarano si era impegnata, in sede di separazione personale, a retrocedere al COGNOME la proprietà dell’immobile oggetto della prima simulata compravendita in cambio di altro bene, in Foggia, già adibito a casa coniugale, oggetto del successivo atto del 2013. Da tutti tali elementi, la Corte di Appello ricavava la dimostrazione dell’assenza di un reale intento del Massaro di spogliarsi della proprietà del cespite oggetto della compravendita del 2011.
Quanto invece al secondo atto, la Corte distrettuale ne rilevava la posteriorità al sorgere del credito; evidenziava poi che, a differenza di quanto previsto nell’accordo di separazione (ove le parti avevano pattuito una permuta tra l’immobile oggetto dell’atto del 2011 e quello oggetto dell’atto del 2013), i coniugi non avevano stipulato una
permuta, senza tuttavia prevedere alcun corrispettivo a favore del cedente; che, in base alle condizioni di separazione personale, la COGNOME si era impegnata, in caso di vendita del cespite a terzi, a corrispondere al COGNOME la metà del ricavato.
La Corte di Appello evidenziava poi che tutti gli atti erano vicini nel tempo (la prima cessione del 18.5.2011, la separazione personale dei coniugi del 18.10.2011, la seconda cessione del 21.5.2013) ed evidenziava che con la loro sequenza il COGNOME aveva ceduto alla moglie un bene senza corrispettivo, del quale non aveva mai perduto il possesso, accettando appena cinque mesi dopo di ridivenirne proprietario, dietro permuta di altro immobile, che poi lo stesso COGNOME, nel 2013, aveva ceduto alla predetta coniuge. Da tale sequenza di atti la Corte di Appello, confermando la decisione del Tribunale, ricavava la prova della natura simulata dei due trasferimenti del 2011 e del 2013.
Inoltre, il giudice di seconde cure riteneva ininfluente il fatto che il COGNOME, dopo i due trasferimenti ritenuti simulati, era comunque rimasto proprietario di altro cespite, trattandosi di circostanza rilevante ai fini della diversa azione revocatoria.
Infine, la Corte di seconda istanza riteneva non specificamente riproposta l’istanza di ammissione di prova orale, che la parte appellante aveva chiesto in prime cure, riproposto con motivo di appello, ma non coltivato in sede di precisazione delle conclusioni.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME affidandosi a cinque motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE procuratrice di RAGIONE_SOCIALE
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta, insistendo per il rigetto del ricorso ed ambo le parti costituite hanno depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., nella persona del sostituto dott. NOME COGNOME il quale ha concluso per il rigetto del ricorso, e l’avv. NOME COGNOME per la parte controricorrente, il quale ha insistito per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione del D. Lgs. n. 28 del 2010, modificato dal D. Lgs. n. 130 del 2015, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare l’improcedibilità della domanda, poiché la mancata comparizione della Banca del Fucino nella procedura di mediazione obbligatoria ne aveva, di fatto, impedito lo svolgimento.
La censura è infondata.
In disparte il rilievo che non è possibile proporre, in sede di legittimità, una censura con la quale si contesta la violazione di un intero atto normativo, essendo onerata la parte ricorrente ‘… di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare -con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni- la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 23745 del 28/10/2020, Rv. 659448), va ribadito che la partecipazione della parte chiamata al procedimento di mediazione previsto dal D. Lgs.
n. 28 del 2010 e sue successive modificazioni ed integrazioni non è obbligatoria.
L’art. 8, che disciplina il procedimento di mediazione, prevede infatti, al comma 4-bis, che ‘Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile’ . Tale disposizione non avrebbe alcun senso se, come ritiene il ricorrente, la partecipazione alla mediazione fosse obbligatoria, ai fini dell’avveramento della condizione di procedibilità della domanda.
Non si configura alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c. a fronte della mancata esplicita affermazione, da parte della Corte di Appello, dell’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità di cui si discute, poiché l’esame del gravame implica necessariamente il superamento della questione di cui si discute, che peraltro risulta, come detto, del tutto infondata.
Infine, occorre anche rilevare che il giudice di appello non è comunque obbligato a disporre la mediazione, poiché ‘… il preventivo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ma l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza; ove ciò non avvenga, il giudice d’appello può disporre la mediazione, ma non vi è obbligato, neanche nelle materie indicate dallo stesso art. 5, comma 1-bis, atteso che in grado d’appello l’esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice, ai sensi dell’art. 5, comma 2’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 25155 del 10/11/2020, Rv. 659412).
Con il secondo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame con il quale il COGNOME e la COGNOME avevano dedotto che l’onere della prova del credito è a carico del creditore e che la stessa non può essere ritenuta assolta dalla mera produzione degli estratti conto, ove essi siano stati contestati dalla parte debitrice. Al riguardo, i ricorrenti evidenziano che anche laddove gli estratti conto non siano stati contestati nel termine di tre mesi dal loro invio da parte dell’istituto di credito, il debitore ha comunque diritto di contestare la validità e l’efficacia del rapporto obbligatorio.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha evidenziato che le scritture contabili contenute negli estratti conto inviati periodicamente dalla banca sono assistite da una presunzione di veridicità, non superabile dalla mera contestazione generica del debito, e che il cliente ha l’onere di contestare specificamente le singole voci dell’estratto. Il COGNOME, invece, aveva semplicemente mosso rilievi sul conteggio di ‘spese non dovute quali quelle di massimo scoperto’ ed aveva lamentato la ‘superquantificazione’ di altre spese. Non sussiste, quindi, alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c.
La decisione della Corte di Appello, peraltro, è coerente con il consolidato insegnamento di questa Corte, richiamato anche in sentenza, secondo cui ‘Le risultanze dell’estratto di conto corrente allegate a sostegno della domanda di pagamento del saldo legittimano la emissione di decreto ingiuntivo e nell’eventuale giudizio di opposizione hanno efficacia fino a prova contraria, con la conseguenza che possano essere disattese solo in presenza di circostanziate contestazioni specificamente dirette contro determinate annotazioni,
non già attraverso un mero rifiuto del conto o la generica affermazione di nulla dovere’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2765 del 07/03/1992, Rv. 476113; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9579 del 21/07/2000, Rv. 538618; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12169 del 15/09/2000, Rv. 540174).
Vero è che la mancata contestazione dell’estratto conto inviato periodicamente dalla banca al correntista non preclude il diritto di quest’ultimo di contestare poi la debenza in sede giudiziaria, con riguardo alla ‘… validità e l’efficacia dei rapporti obbligatori da cui derivano gli accrediti e gli addebiti, e quindi dei titoli contrattuali che ne sono alla base’ (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10376 del 05/05/2006, Rv. 588752; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12372 del 24/05/2006, Rv. 590851; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6514 del 19/03/2007, Rv. 595689) ma ciò non solo non esclude, ma rafforza, l’onere di specifica contestazione delle singole voci dell’estratto conto posto a carico del debitore, che nel caso di specie la Corte di Appello ha ritenuto non assolto.
Nel contestare la statuizione del giudice di merito, i ricorrenti non indicano alcun elemento specifico che sia stato trascurato, o erroneamente valutato, dalla Corte territoriale, ma si limitano ad invocare un riesame del fatto, senza considerare che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il
giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Non sussiste, infine, alcuna violazione dell’art. 116 c.p.c., dovendosi ribadire, sul punto, che ‘In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa- secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi
del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021, Rv. 661360). Poiché nel caso di specie il giudice di merito non è incorso in alcuno dei vizi suindicati, la violazione della disposizione in esame non si configura.
Con il terzo motivo, i ricorrenti denunziano la violazione degli artt. 1552 e 2697 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti i requisiti per l’accoglimento della domanda di simulazione dei due atti oggetto di causa, senza tener conto del fatto che il credito della banca era sorto otto mesi dopo la prima compravendita e che la permanenza del COGNOME nell’immobile oggetto della stessa, nonostante la cessione alla moglie, era dovuta alla progettata permuta del predetto cespite con l’altro, oggetto della seconda cessione del 2013.
La doglianza è inammissibile.
Come già evidenziato in occasione dello scrutinio dei primi due motivi, la Corte di Appello ha esaminato sia la prima cessione del 2011, che il contenuto del verbale di separazione consensuale dei coniugi dello stesso anno, che la seconda cessione del 2013, evidenziando le discrasie esistenti tra quanto era stato progettato dagli odierni ricorrenti e quanto, invece, era stato posto in essere. In particolare, la Corte territoriale ha evidenziato che i coniugi, nonostante avessero pattuito una permuta tra gli immobili oggetto dei due atti del 2011 e del 2013, secondo la quale quello oggetto del primo atto avrebbe dovuto ritornare in proprietà del Massaro, e quello oggetto del secondo, invece, avrebbe dovuto rimanere alla Zaffarano, avevano poi, di fatto,
posto in essere due trasferimenti dal marito in favore della moglie, senza prova di alcun pagamento del corrispettivo. Non sussiste, dunque, alcun vizio di omesso esame di fatti decisivi, avendo la Corte di Appello preso in considerazione tutta l’articolata sequela di atti, accordi e condotte realizzate dagli odierni ricorrenti in relazione al loro patrimonio immobiliare.
Né configurabile una violazione dell’art. 2697 c.c., dovendosi ribadire, al riguardo, che ‘La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.’ (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17313 del 19/08/2020, Rv. 658541; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006, Rv. 592634; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2935 del 10/02/2006, Rv. 586772; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2155 del 14/02/2001, Rv. 543860).
Nella specie non è stata operata alcuna inversione dell’onere della prova, avendo la Corte di Appello ravvisato, in una pluralità di elementi, la dimostrazione della natura soltanto simulata delle due cessioni del 2011 e del 2013 oggetto di causa.
In particolare, il giudice del gravame ha evidenziato:
quanto al primo atto, che mancava la prova del pagamento del corrispettivo pattuito tra le parti; che la COGNOME, priva di redditi propri (circostanza dichiarata dai coniugi nella loro separazione personale consensuale, formalizzata il 18.10.2011, pochi mesi dopo la simulata compravendita), non aveva
indicato come si fosse procurata la disponibilità del denaro occorrente per gli acquisti; che il COGNOME aveva continuato a mantenere la sua residenza nell’immobile simulatamente ceduto alla moglie; che l’anteriorità del trasferimento al sorgere del credito, derivante da scoperto di conto corrente, non limita il diritto del creditore a far valere la simulazione dell’atto posto in essere dal debitore, se questo sia pregiudizievole per gli interessi del creditore; e che la COGNOME si era impegnata, in sede di separazione personale, a retrocedere al COGNOME la proprietà dell’immobile oggetto della prima simulata compravendita in cambio di altro bene, in Foggia, già adibito a casa coniugale, oggetto del successivo atto del 2013; da tutti tali elementi, la Corte di Appello ricavava la dimostrazione dell’assenza di un reale intento del COGNOME di spogliarsi della proprietà del cespite oggetto della compravendita del 2011;
quanto invece al secondo atto, la Corte distrettuale ne rilevava la posteriorità al sorgere del credito; evidenziava poi che, a differenza di quanto previsto nell’accordo di separazione (ove le parti avevano pattuito una permuta tra l’immobile oggetto dell ‘atto del 2011 e quello oggetto dell’atto del 2013), i coniugi non avevano stipulato una permuta, senza tuttavia prevedere alcun corrispettivo a favore del cedente; che, in base alle condizioni di separazione personale, la Zaffarano si era impegnata, in caso di vendita del cespite a terzi, a corrispondere al COGNOME la metà del ricavato.
La Corte di Appello evidenziava poi che tutti gli atti erano vicini nel tempo (la prima cessione del 18.5.2011, la separazione personale dei coniugi del 18.10.2011, la seconda cessione del 21.5.2013) ed evidenziava che con la loro sequenza il COGNOME aveva ceduto alla
moglie un bene senza corrispettivo, del quale non aveva mai perduto il possesso, accettando appena cinque mesi dopo di ridivenirne proprietario, dietro permuta di altro immobile, che poi lo stesso COGNOME, nel 2013, aveva ceduto alla predetta coniuge. Da tale sequenza di atti la Corte di Appello, confermando la decisione del Tribunale, ricavava la prova della natura simulata dei due trasferimenti del 2011 e del 2013.
Inoltre, il giudice di seconde cure riteneva ininfluente il fatto che il COGNOME, dopo i due trasferimenti ritenuti simulati, era comunque rimasto proprietario di altro cespite, trattandosi di circostanza rilevante ai fini della diversa azione revocatoria.
In relazione a tale articolata ricostruzione del fatto, appare decisiva la circostanza che il giudice di merito non abbia, da un lato, ritenuto conseguita la prova dello spostamento patrimoniale, dalla moglie al marito, ed abbia invece, dall’altro lato, evidenziato che la Zaffarano era priva di reddito proprio. Tali evidenze, che già di per sé sarebbero sufficienti ai fini della configurazione della simulazione assoluta, e che la parte ricorrente non contesta specificamente.
La doglianza in esame, dunque, nasconde, come la precedente, una inammissibile istanza di riesame del merito della decisione impugnata, onde si richiamano le stesse considerazioni esposte, al riguardo, in occasione dello scrutinio della seconda censura.
Con il quarto motivo, i ricorrenti si dolgono della violazione degli artt. 2729 c.c. e 361 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato la simulazione dei due atti di cessione oggetto di causa, in assenza della pluralità di elementi di prova, precisi, univoci e concordanti, richiesta ai fini della configurabilità della presunzione.
La censura è infondata.
Va innanzitutto evidenziato che il richiamo all’art. 361 c.p.c., contenuto a pag. 18 del ricorso, non ha alcuna attinenza alla fattispecie, posto che non risulta formulata alcuna riserva di ricorso avverso sentenza non definitiva.
Nel resto, la censura non considera che la Corte di Appello, come evidenziato già in occasione dello scrutinio del precedente motivo, ha fondato la propria statuizione su una pluralità di elementi, desunti sia dal contenuto dei due atti di cessione che dal loro raffronto con gli accordi di separazione raggiunti dai coniugi tra il primo ed il secondo atto di cui si discute. Non si configura, dunque, alcuna violazione dell’art. 2729 c.c., avendo il giudice di merito esaminato compiutamente tutte le evidenze documentali, pervenendo ad una conclusione non implausibile e adeguatamente motivata. La censura, dunque, nasconde, come la precedente, una mera richiesta di revisione del convincimento del giudice di merito.
Né rileva, ai fini della configurabilità della simulazione, la circostanza che parte dell’operazione negoziale posta in essere dai due ricorrenti abbia costituito l’esecuzione di accordi di separazione personale dei coniugi, posto il principio, cui va data continuità, secondo cui ‘La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale, relativo allo status di separato, ed un contenuto eventuale, costituito da accordi patrimoniali, del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata e che possono prevedere anche l’assegnazione di immobili. Mentre, dunque, il contenuto essenziale dell’accordo di separazione non può essere oggetto di simulazione assoluta, il negozio patrimoniale di attribuzione immobiliare, contenuto nelle condizioni di separazione consensuale omologate, stante la sua autonomia, può essere aggredito dai terzi creditori del simulato alienante con l’azione
di simulazione assoluta’ (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 24687 dell’11/08/2022, Rv. 665666).
Con il quinto motivo, infine, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 702 bis, 702 quater e 210 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto non coltivate, in sede di precisazione delle conclusioni in secondo grado, le istanze istruttorie che erano state invocate in prime cure e coltivate con apposito motivo di gravame, senza considerare che, a mente del rito sommario secondo il quale il giudizio si era svolto, il giudice avrebbe dovuto considerare le istanze istruttorie indispensabili ai fini del decidere, tra le quali in particolare l’ordine di esibizione dell’assegno con il quale la COGNOME avrebbe saldato il corrispettivo della compravendita del 2011.
La censura è infondata.
La Corte di Appello, se da un lato ha affermato che gli odierni ricorrenti non avevano riproposto le loro istanze di prova testimoniale in sede di precisazione delle conclusioni in secondo grado -circostanza, questa, di per sé decisiva e non contestata specificamente dalla censura in esame- ha anche fondato, d’altro canto, la sua decisione sulle evidenze documentali, ritenendo quindi queste ultime sufficienti ai fini della decisione.
Quanto invece all’istanza di esibizione, la Corte distrettuale la ha considerata superflua, poiché ‘… anche un pagamento a mezzo assegno può essere fittizio, non escludendo che il titolo sia negoziato e la somma restituita al traente o che la relativa provvista appartenga al beneficiario dell’assegno’ (cfr. pag. 7 della sentenza). La statuizione deve essere letta in collegamento logico con la mancata dimostrazione -ravvisata dal giudice di merito- di un reddito proprio della Zaffarano, che in sede di separazione personale dei coniugi aveva dichiarato di
non averne alcuno. Il giudice del gravame, in altri termini, ha privilegiato, rispetto alla mera prova del pagamento del prezzo (comunque non conseguita dalla parte che ne aveva l’onere) la circostanza che la Zaffarano, simulata acquirente, non avesse alcun reddito proprio e dunque non avesse dimostrato la fonte della disponibilità economica utilizzata per l’acquisto del 2011.
Non si configura, dunque, alcuna violazione di legge, né con riferimento alle norme processuali regolatrici del cd. rito sommario, né con riguardo all’art. 210 c.p.c., avendo il giudice di merito adeguatamente motivato la propria scelta di ritenere superfluo, e dunque di non dare seguito, all’invocato ordine di esibizione del titolo di credito di cui si discute.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 7.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda