Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2343 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2343 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3305/2021 R.G. proposto da:
COGNOME e COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentate e difese dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE con procura in calce al ricorso;
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona dell’amministratore giudiziario NOME COGNOME elettivamente domiciliata agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE, gli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE e COGNOME (CODICE_FISCALE) che la rappresentano e difendono congiuntamente e disgiuntamente con procura in calce al controricorso;
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di LECCE n.1135/2020 depositata il 26.11.2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29.10.2024
dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 26.11.2003 la RAGIONE_SOCIALE proprietaria dal 1989 di un terreno con sovrastante capannone aziendale, evocava avanti al Tribunale di Lecce – Sezione distaccata di Galatina, COGNOME, proprietaria del fondo confinante sul quale aveva realizzato il proprio capannone in aderenza a quello dell’attrice, chiedendo di accertare che la COGNOME aveva violato la clausola pattizia contenuta nell’atto di trasferimento del 24.3.1983 (atto del notaio COGNOME, rep. n. 16722) tra la stessa COGNOME ed il venditore COGNOME NOME, con la quale si era impegnata a costruire ” ad una distanza non inferiore a metri lineari sette dal confine ovest della zona alienata ” (quella poi pervenuta alla RAGIONE_SOCIALE), e di condannare quindi la convenuta alla demolizione del suo capannone ed al risarcimento dei danni, nonché di accertare, per quanto ancora rileva, che la COGNOME esercitava abusivamente il passaggio lungo un’area scoperta di proprietà esclusiva della Itec posta sul retro del capannone sul lato nord, non avendo alcun diritto in tal senso.
Si costituiva in primo grado COGNOME che chiedeva il rigetto delle domande avversarie, sostenendo che la clausola pattizia era meramente esplicativa delle modalità con le quali il capannone doveva essere realizzato e non costitutiva di un vincolo di natura reale, e che la servitù di passaggio sul retro del capannone era stata costituita a favore di tutti i proprietari dei capannoni realizzati sui terreni dell’Arcadi; in subordine, spiegava
domanda riconvenzionale volta ad ottenere l’accertamento dell’acquisizione per usucapione di tale servitù.
Nelle more del giudizio di primo grado, la RAGIONE_SOCIALE trasferiva il proprio terreno con capannone alla RAGIONE_SOCIALE e poi veniva cancellata dal Registro delle Imprese, ma l’evento interruttivo non veniva dichiarato in sede processuale dal legale costituito.
Il Tribunale di Lecce con la sentenza n. 1952 del 15.4.2015, per quanto ancora rileva, accertava l’avvenuta costituzione sul terreno della COGNOME di una servitù di non costruire per una fascia della larghezza di sette metri dal confine ovest con la proprietà della Itec, condannava la COGNOME alla demolizione di quanto sulla stessa edificato, rigettava la riconvenzionale di usucapione della servitù di passaggio della COGNOME avendo accertato che non sussisteva alcun diritto di passaggio sul retro dei capannoni a favore della proprietà di quest’ultima.
Proposto appello dalla COGNOME, notificato sia alla RAGIONE_SOCIALE, sia alla sua avente causa, la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione ed al liquidatore della RAGIONE_SOCIALE, COGNOME nella resistenza di questi ultimi due, ed in contraddittorio con RAGIONE_SOCIALE NOME, alla quale la COGNOME aveva nelle more donato la sua proprietà immobiliare, la Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n.1135/2020 del 27.3/28.11.2020 rigettava l’appello, e condannava la COGNOME al pagamento delle spese processuali in favore della RAGIONE_SOCIALE e di COGNOMERAGIONE_SOCIALE
La Corte d’Appello applicava il principio dell’ultrattività del mandato del difensore della Itec, che malgrado la cancellazione dal Registro delle imprese della Itec, con conseguente sua estinzione, non aveva ritenuto opportuno dichiarare il verificarsi dell’evento interruttivo della cliente nel giudizio di primo grado, e per l’effetto respingeva l’eccezione di inefficacia della sentenza di primo grado e di nullità ed inesistenza della sua notifica da parte del legale della Itec.
La sentenza di secondo grado confermava l’esistenza sul fondo della COGNOME di una servitus inaedificandi per una fascia di sette metri dal confine ovest con la Itec sulla base dell’atto del notaio NOME COGNOME del 24.3.983, rep. n. 16722, col quale era stata costituita una servitù per vantaggio futuro di utilitas eventuale a beneficio di altri fondi, oggetto di distinte alienazioni da parte di COGNOME NOME (veniva citata Cass. 18.10.2004 n. 20400), a nulla rilevando il rilascio del permesso di costruire per il capannone ottenuto dalla COGNOME, essendo comunque stato rilasciato con la clausola della salvezza dei diritti dei terzi.
La Corte d’Appello escludeva, poi, che si fosse verificata l’estinzione per non uso ventennale della servitus inaedificandi, facendo decorrere il relativo termine dal compimento del fatto impeditivo dell’esercizio del diritto, identificato, non nel rilascio della concessione edilizia della COGNOME del 27.5.1983, ma nel rilascio della concessione in variante planimetrica del 12.12.1983, dalla quale risultava formata la zona di sette metri dal confine occidentale della proprietà COGNOME da non edificare, ritenendo priva di valore probatorio la dichiarazione sostitutiva di notorietà del 24.3.1986, con la quale, interessatamente, la COGNOME aveva dichiarato che la costruzione del capannone sarebbe stata realizzata antecedentemente al settembre 1983, ai fini del conseguimento della concessione in sanatoria, ed attribuendo quindi efficacia interruttiva del ventennio alla notificazione dell’atto di citazione di primo grado del 26.11.2003.
La sentenza di secondo grado escludeva, poi, che fosse stata acquisita prova di un valido titolo a supporto della servitù di passaggio invocata dalla COGNOME, in quanto dalla CTU risultava l’inesistenza della strada nelle tavole progettuali approvate in sede di rilascio della concessione edilizia, strada non presente neanche negli estratti di mappa, nei quali era stata inserita secondo la CTU solo con le varianti successive, ed in quanto dalle prove
testimoniali, partitamente esaminate, non risultava l’esercizio del passaggio, né l’esistenza della stradella almeno dal 1983, risultando inattendibile la deposizione del teste COGNOME GiovanniCOGNOME che oltre ad essere legato da un duraturo rapporto di convivenza con COGNOME, era stato materialmente operativo nelle varie questioni sottese al giudizio interessandosene direttamente, e del teste COGNOME Antonio, originario proprietario dei fondi delle parti, che aveva riferito nella sua deposizione circostanze diverse da quelle da lui stesso dichiarate negli atti di vendita, e riferendosi le altre testimonianze acquisite all’esercizio del passaggio in un tempo insufficiente a fare maturare l’usucapione.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso a questa Corte COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione in persona dell’amministratore giudiziario, COGNOME NOME
E’ stata formulata proposta di definizione anticipata ex art. 380 bis c.p.c. per inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso, comunicata il 5.9.2023, ed il difensore delle ricorrenti, munito di nuova procura speciale, ha presentato tempestiva istanza di decisione ex art. 380 bis comma 2 c.p.c..
Nell’imminenza dell’udienza camerale, la controricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., mentre parte ricorrente ha depositato una memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c. consistente nella mera riproposizione delle conclusioni già rassegnate nel ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione dell’art. 1058 cod. civ. in relazione all’art. 1321 cod. civ., e degli articoli 1027, 1028 e 1029 cod. civ..
Si dolgono le ricorrenti che la Corte d’Appello di Lecce, nel qualificare la clausola contenuta nell’atto del notaio Rescio del 24.3.1983 di vendita da RAGIONE_SOCIALE NOME a Gaballo Addolorata (“La parte di progetto trasferita con il presente atto comprende la realizzazione di un capannone con adiacenti studi, spogliatoi e bagni e con una volumetria di circa mc 3975 che la acquirente dovrà realizzare sulla zona odiernamente acquistata ad una distanza non inferiore a metri lineari sette dal confine ovest della zona alienata medesima “) come costitutiva di una servitus non aedificandi, abbia violato i principi più volte affermati dalla Suprema Corte, secondo i quali la volontà delle parti di costituire una servitù deve risultare in modo inequivoco, per cui non dev’essere espressa in modo generico e deve consentire l’identificazione del fondo dominante e del fondo servente ed individuare il contenuto oggettivo presupposto della servitù e l’ utilitas del preteso fondo dominante, non integrata dal generico riferimento fatto dalla Corte d’Appello ad un non meglio precisato vantaggio futuro.
Col secondo motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363, 1366, 1369 e ss. e 2643 comma 1 n. 4) cod. civ.
Si dolgono le ricorrenti che l’impugnata sentenza, nel qualificare la clausola contrattuale sopra indicata, si sia fermata alla lettera delle parole della clausola surriportata, dal significato non univoco, senza attingere all’effettiva comune volontà delle parti, anche attraverso l’interpretazione sistematica del testo contrattuale, senza tener conto del loro comportamento, anche successivo alla convenzione, e senza considerare gli ulteriori indici esterni rivelatori dell’effettiva intenzione dei contraenti.
In particolare, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto che al rigo 3 di pagina 4 dell’atto del notaio Rescio del 24.3.1983 era
indicato che ” l’immobile viene trasferito libero da servitù “, e quindi del canone dell’interpretazione complessiva delle clausole contrattuali dell’art. 1363 cod. civ., che non consentiva un’interpretazione atomistica della sola clausola sopra riportata, avrebbe violato l’art. 1058 cod. civ., perché quella clausola non consentiva di individuare il fondo dominante a vantaggio del quale la servitù sarebbe stata costituita, né l’utilitas che lo stesso avrebbe ricavato dal peso imposto sulla proprietà COGNOME, peraltro neppure trascritto nei registri immobiliari.
Aggiungono le ricorrenti che il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto che il contratto preliminare che aveva preceduto la vendita del 24.3.1983 a favore della COGNOME era stato condizionato all’approvazione della variante del progetto edilizio di realizzazione dei capannoni sul terreno dell’originario unico proprietario, COGNOME NOME, il quale prevedeva che la fascia di terreno inedificata di sette metri, che inizialmente era collocata sul confine est, fosse spostata sul confine ovest, per cui l’impegno di non costruire, che nel preliminare era stato riferito alla fascia di sette metri al confine est, nella vendita era stato invece spostato al confine ovest, nell’interesse del venditore COGNOME NOME, che intendeva ottenere l’approvazione della variante al suo progetto edilizio che altrimenti sarebbe stata compromessa, e non a vantaggio del fondo della Itec, che già presentava il capannone proprio sul confine con la proprietà COGNOME come emerso dalla CTU e dalla ricostruzione compiuta dalla stessa parte attrice in primo grado.
I primi due motivi, esaminabili congiuntamente, in quanto entrambi attinenti all’interpretazione della clausola pattizia istitutiva della servitus inaedificandi ed all’esistenza degli elementi essenziali della medesima servitù, sono infondati.
La Corte d’Appello, infatti, ha basato la propria interpretazione sulla lettera della clausola pattizia, sopra riportata, ritenendola
evidentemente chiara sia nell’individuazione del fondo servente (la proprietà della acquirente COGNOME, sia del contenuto della servitù (divieto di costruire), e nel richiamare, anche se in modo sintetico, il precedente contratto preliminare di vendita concluso dalla COGNOME col venditore COGNOME NOMECOGNOME che sarebbe stato reiterato, e la sentenza di questa Corte n. 20400 del 18.10.2004 relativa al vincolo imposto dall’originario unico proprietario del fondo a carico di una porzione di suolo (lotto) ed a favore di altro con successive alienazioni di altri lotti, ha inteso, sia pure implicitamente, evidenziare che i fondi dominanti che avrebbero fruito dell’ utilitas della servitus inaedificandi costituita erano stati individuati negli ulteriori lotti limitrofi non ancora venduti di proprietà di COGNOME NOME, che al pari del lotto venduto alla COGNOME, dovevano essere alienati insieme a parte del progetto edilizio di realizzazione dei capannoni, secondo la variante che doveva essere approvata, e che prevedeva, appunto, che rimanesse sul confine ovest (e non più sul confine est come inizialmente previsto nel progetto edilizio prima della variante) una fascia di sette metri non edificata, in assenza della quale la variante non sarebbe stata approvata.
A tale plausibile interpretazione le ricorrenti contrappongono una propria diversa interpretazione, basata su circostanze di fatto non valorizzate dalla Corte d’Appello (la clausola al rigo 3 di pagina 4 dell’atto del notaio Rescio del 24.3.1983 indicante che ” l’immobile viene trasferito libero da servitù “; il vantaggio del peso imposto sulla fascia di sette metri dal confine ovest della proprietà COGNOME a favore del venditore COGNOME NOME, e non a favore dei lotti ancora di sua proprietà che dovevano essere alienati col trasferimento anche di parte del progetto edilizio di realizzazione dei capannoni), che però non possono essere prese in considerazione in questa sede, sia in quanto non è stata lamentata la violazione dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., sia in quanto se tale violazione fosse ritenuta invocata in fatto, pur in assenza di un richiamo esplicito a
quella disposizione, troverebbe applicazione l’art. 348 ter c.p.c. (l’atto di appello è stato notificato nel 2015), che non consente di invocare l’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. in caso di cosiddetta ” doppia conforme “, non essendo stati minimamente ipotizzati profili di divergenza tra le motivazioni addotte dai giudici di primo e di secondo grado in punto di accertamento della servitus inaedificandi.
Pertanto, come evidenziato nella proposta di definizione anticipata, le ricorrenti finiscono per contrapporre all’interpretazione fatta propria dai giudici di merito, una differente ed alternativa lettura del dato negoziale, dimenticando che le censure all’interpretazione di un contratto non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (vedi in tal senso Cass. 19.4.2024 n.10602; Cass. sez. lav. 24.6.2020 n. 12436; Cass. ord. 27.6.2018 n. 16987; Cass. 28.11.2017 n. 28319; Cass. sez. lav. 15.11.2013 n. 25728; Cass. 20.11.2009 n. 24539).
3) Col terzo motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) e 5) c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articoli 922, 1100, 1101 e 1102 cod. civ., degli articoli 115 e 116 c.p.c. in relazione agli articoli 2699 e 2700 cod. civ., e degli articoli 1058, 1059 e 1362 cod. civ., e degli articoli 115 e 116 c.p.c. in relazione agli articoli 2699 e 2700 cod. civ..
Si dolgono le ricorrenti che la Corte d’Appello abbia ritenuto inesistente il diritto di passaggio a favore della proprietà COGNOME sulla strada retrostante i capannoni, lato nord, per mancanza di un
valido titolo costitutivo, ancorché la costituzione di tale diritto ex collatione agrorum privatorum con la messa a disposizione da parte dei vari proprietari dei capannoni dell’unico progetto edilizio delle varie porzioni che componevano la strada, non soggetta al rigoroso regime probatorio della rivendicazione, risultasse dall’atto del notaio COGNOME del 17.2.1984 (atto di vendita della RAGIONE_SOCIALE alla Itec del fondo attiguo a quello della Gaballo), dall’atto del notaio COGNOME del 18.6.1984 (atto di vendita di due capannoni residui da parte di COGNOME NOME alla VER.TAB.) e dall’atto del notaio COGNOME del 17.2.1984 (atto di vendita della Immobiliare Salentina alla RAGIONE_SOCIALE, che poi in seguito a fallimento aveva trasferito la proprietà alla RAGIONE_SOCIALE).
Il terzo motivo è inammissibile, in relazione al vizio dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., nella parte in cui lamenta la mancata considerazione degli atti pubblici sopra indicati ex art. 348 ter c.p.c. per la presenza di una doppia pronuncia conforme di rigetto della riconvenzionale della COGNOME inerente al passaggio sulla strada retrostante i capannoni, lato nord, ed è altresì inammissibile nella parte in cui, una volta negata dai giudici di merito l’esistenza di atti costitutivi della reclamata servitù di passaggio, prospetta, per la prima volta, in questa sede, che il suo passaggio sarebbe avvenuto non in base all’avvenuta costituzione convenzionale in suo favore di una servitù di passaggio, o per usucapione della stessa, ma in virtù della comunione incidentale da lei vantata sulla strada interpoderale privata che sarebbe stata costituita ex collatione agrorum privatorum da tutti i proprietari dei capannoni facenti parte dell’unico progetto edilizio, poi oggetto di variante col conferimento di porzioni dei loro terreni destinate al sedime stradale.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena
di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel ” thema decidendum ” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio (vedi in tal senso Cass. Sez. lav. 1.7.2024 n. 18018; Cass. n. 20694/2018).
Ancora una volta, come evidenziato nella proposta di definizione anticipata, le ricorrenti propongono una diversa lettura delle risultanze istruttorie rispetto a quella compiuta dai giudici di merito, dimenticando che il ricorso non può risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass., sez. un., 25.10.2013 n. 24148).
In tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (Cass. sez. lav., 13.6.2014 n. 13485; Cass. 23.5.2014 n. 11511; Cass. 24.5.2006 n.12362).
4) Col quarto motivo le ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell’art. 132 comma 2 n. 4) c.p.c., e la nullità della sentenza impugnata per motivazione apparente.
Tale motivo è manifestamente infondato, in quanto le ricorrenti qualificano come meramente apparenti le motivazioni della sentenza impugnata solo perché non conformi alle proprie aspirazioni.
Premesso che dopo la riforma dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. non sono più censurabili la motivazione insufficiente, o contraddittoria, si parla di motivazione apparente quando la motivazione ” benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture ” (vedi in tal senso Cass. 20.6.2019 n. 16595; Cass., sez. un., 7.4.2014 n. 8053), per cui il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del ” minimo costituzionale ” richiesto dall’art. 111 comma 6° della Costituzione.
La motivazione addotta dall’impugnata sentenza a sostegno della riconosciuta esistenza della servitus inaedificandi, già riportata al penultimo capoverso di pagina 6 di questa sentenza, è tutt’altro che meramente grafica, e spiega compiutamente, anche se sinteticamente, le ragioni giustificative della decisione adottata.
Quanto al rigetto della riconvenzionale della COGNOME relativa al passaggio, la motivazione già riportata al penultimo capoverso di pagina 3 di questa sentenza, ha a sua volta spiegato compiutamente le ragioni del rigetto, che ovviamente non si sono riferite alla costituzione di una comunione incidentale ex collatione
agrorum privatorum, prospettata per la prima volta in questa sede e quindi tardivamente.
In base alla soccombenza, le ricorrenti vanno condannate in solido al pagamento in favore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo. La sostanziale conformità della decisione adottata alla proposta di definizione anticipata comporta, in base all’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c., la condanna delle ricorrenti in solido al risarcimento danni ex art. 96 comma 3° c.p.c. in favore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione ed al pagamento in favore della Cassa delle Ammende nelle misure stabilite in dispositivo.
Ritiene la Corte che data la reiezione del ricorso, si debba dare atto ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, della sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore contributo da parte delle ricorrenti in solido, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso e condanna in solido COGNOME e COGNOME NOME al pagamento in favore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 7.000,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, nonché al risarcimento danni ex art. 96 comma 3° c.p.c. in favore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione della somma di € 7.000,00 ed al pagamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di € 3.000,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda