Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 12357 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 12357 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 09/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 506/2022 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, domicilio digitale: pec avv.EMAILpec.giuffreEMAIL.
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende.
–
contro
ricorrente – avverso la avverso la SENTENZA n. 5748/2021 emessa da CORTE D’APPELLO ROMA il 26/08/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/4/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE nei confronti del RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza n. 12087/2018, emessa dal Tribunale di Roma.
Il Tribunale, pronunciando infatti sull’azione di inefficacia ex art. 64 l. fall. dell’atto di scissione parziale posto in essere il 27.11.2013 da RAGIONE_SOCIALE, azione promossa dal RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato l’inefficacia del predetto atto di scissione, limitatamente ad un trasferimento immobiliare, ad alcuni autoveicoli e alcune partecipazioni azionarie di società, con condanna della RAGIONE_SOCIALE alla restituzione al fallimento attore dei predetti beni.
La Corte di appello ha osservato e rilevato che: (a) l’appello era inammissibile ai sensi dell’art. 342 c od. proc. civ., posto che il gravame si caratterizzava per una generica riproposizione delle argomentazioni originarie, senza neanche la confutazione di alcune delle rationes decidendi poste a sostegno della decisione appellata; (b) comunque l’appello era infondato anche nel merito; (c) in relazione al primo motivo di appello, occorreva ribadire la natura gratuita dell’atto, in quanto, come affermato anche dal Tribunale, avendo RAGIONE_SOCIALE ceduto tutte le quote detenute in RAGIONE_SOCIALE ad una società finanziaria di diritto inglese il 25.6.2013, contestualmente alla delibera dell’assemblea straordinaria che aveva approvato il progetto di scissione parziale, la devoluzione dell’immobile di Rende, delle partecipazioni societarie e dei beni immobili descritti in atti in favore della RAGIONE_SOCIALE non era stata neanche bilanciata dall’attribuzione delle quote della società di nuova costituzione ai soci della RAGIONE_SOCIALE essendo state le predette quote assegnate invece alla RAGIONE_SOCIALE, socio unico di RAGIONE_SOCIALE; (d) il secondo motivo di appello, riguardante la natura non traslativa dell’atto di scissione parziale, era infondato, in quanto anche la giurisprudenza di legittimità aveva confermato la natura traslativa di tale atto di scissione e perché comunque doveva essere confermata l’ammissibilità giuridica dell’azione revocatoria, anche fallimentare, dell’atto di scissione.
La sentenza, pubblicata il 26.8.2021, è stata impugnata da RAGIONE_SOCIALE con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui il RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
È stata formulata proposta di definizione accelerata del ricorso, ai sensi dell’art. 380 bis c od. proc. civ., essendo stati ravvisati profili di infondatezza di tutti i motivi del ricorso.
Il ricorrente ha proposto istanza di decisione con memoria depositata ai sensi del medesimo art. 380 bis cod. proc. civ.
È stata, quindi, disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 cod. proc. civ.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ. e la nullità della sentenza impugnata per error in procedendo , nella parte in cui la stessa aveva dichiarato inammissibile l’appello per difetto di specificità.
Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 132 codice di rito e la nullità della sentenza per error in procedendo , nella parte in cui la sentenza aveva dichiarato infondato l’appello con omessa ed apparente motivazione.
Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 2506, 2506bis, 2506ter e 2506 quater c.c. ; ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per ‘omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su fatti decisivi e controversi, nonché incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie ex art. 115 c.p.c.’; ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per nullità della sentenza sempre per error in procedendo .
I motivi sopra esposti sono inammissibili ed infondati, esattamente per le ragioni già evidenziate nella proposta di decisione accelerata di cui all’art. 380 bis cod. proc. civ., che la Corte ritiene del tutto condivisibili e che fa proprie. Il ricorso non offre infatti prospettive di accoglimento.
Non si esclude che il primo motivo (violazione degli art. 112 e 342 cod. proc. civ., nullità della sentenza nella parte in cui dichiara inammissibile l’appello per difetto di specificità dei motivi) possa superare il vaglio di ammissibilità e fondatezza.
Sotto il primo profilo, questa Corte ha più volte affermato che la deduzione della questione dell’inammissibilità dell’appello, a norma dell’art. 342 cod. proc. civ., pur integrando un “error in procedendo”, che legittima l’esercizio, ad opera del giudice di legittimità, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, presuppone tuttavia l’ammissibilità del motivo di censura, avuto riguardo al principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 e n. 6, cod. proc. civ., che deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa COGNOME ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia (Cass. 3612/2022, 29495/2020, 24048/2021).
Nel caso in esame, con riguardo al primo motivo di appello (sui documenti asseritamente trascurati che avrebbero escluso la gratuità della scissione societaria parziale, ex art. 64 l.fall.) il ricorrente ha messo a confronto le proprie deduzioni con un solo passaggio della sentenza di primo grado, definito ‘laconico’, omettendo di riportarne le ulteriori argomentazioni, come ha fatto invece il controricorrente, per dimostrare che questo motivo di appello «non offriva alcuna argomentazione idonea a confutare l’irrilevanza degli “effetti patrimoniali che l’atto produce per i soci delle due società coinvolte”». D’altro canto, nulla osserva il controricorrente sul secondo motivo di appello, che in effetti investiva la questione in diritto (all’epoca ancora dibat tuta) dell’ammissibilità delle azioni revocatorie contro l’atto di scissione.
Viene allora in rilievo l’indirizzo nomofilattico in base al quale gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo formulato dal d.l. 83/2012, conv. con modif. dalla l. 134/2012, vanno sì interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni
e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che però occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. Sez. U, 36481/2022; conf. Cass. sez. U, 27199/2017; Cass. 5533/2024, 13535/2018). E dunque, essendo l’appello un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito, il principio della necessaria specificità dei motivi ex art. 342, co.1, cod. proc. civ. prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai capi formulati, anche, seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure (Cass. 2320/2023, 21745/2006).
In realtà, la statuizione dei giudici d’appello non è lineare, laddove si afferma che «l’appello va respinto per un duplice autonomo ordine di ragioni», affiancando impropriamente all’inammissibilità del gravame ex art. 342 cod. proc. civ. (emergente «al confronto fra la esaustiva motivazione della sentenza impugnata con plurime rationes decidendi e l’atto di appello che si caratterizza per una generica riproposizione degli originari omettendo persino la confutazione di alcune rationes decidendi (in particolare quella in cui in concreto il Tribunale ha ravvisato la natura gratuita dell’atto di scissione)» la sua infondatezza nel merito «sotto altro autonomo profilo».
Tuttavia, risultano decisive la manifesta infondatezza del secondo motivo e l’inammissibilità del terzo.
Del tutto inconsistente è la censura di nullità della sentenza d’appello per apparenza della motivazione, in quanto formulata ‘per relationem’ alla
sentenza di primo grado, senza esprimere un autonomo processo deliberativo.
Invero, il vizio di motivazione apparente ricorre solo quando le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito, risolvendosi in espressioni assolutamente generiche, tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi , senza che possa nemmeno venire rilievo la sufficienza delle argomentazioni (395/2021, 26893/2020, 22598/2018).
Inoltre, per giurisprudenza consolidata la sentenza d’appello può essere motivata “per relationem”, purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente -mentre nel caso in esame lo ha fatto ampiamente -delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione, ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente; solo quando i giudici di appello si limitino ad aderire in modo acritico alla pronunzia di primo grado, senza alcuna valutazione dei motivi di gravame, la decisione può dirsi nulla (Cass. Sez. U, 14814/2008; cfr. Cass. Sez. U, 28176/2020; Cass. 28139/2018, 20883/2019, 2397/2021, 459/2022, 610/2022, 21443/2022, 23997/2022, 9830/2024).
Nel caso in esame la corte territoriale trascrive i singoli passaggi motivazionali del tribunale e li arricchisce di autonome considerazioni, sicché si è di fronte ad una motivazione senza dubbio rispettosa del ‘minimo costituzionale’ richiesto dall’art. 111, co. 6, Cost. e non affetta dai gravi vizi individuati da un corposo formante giurisprudenziale di legittimità (Cass. Sez. U, 8053/2014, 34474/2019, 20867/2020; Cass. 9017/2018, 20553/2021, 26199/2021, 27501/2022, 33961/2022, 34459/2022, 956/2023, 2001/2023, 4784/2023, 14703/2024).
Il terzo motivo (violazione degli artt. 2506, 2506 bis, 2506 ter e 2506 quater c.c.; omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su fatti storici decisivi e controversi; incongrua valutazione ex art. 115 cod. proc. civ. delle
acquisizioni istruttorie; nullità della sentenza) è inammissibile sotto plurimi profili.
In primo luogo esso difetta di tassatività poiché mescola vizi eterogeni ( errores in iudicando e in procedendo , censure motivazionali), in contrasto con il solido indirizzo nomofilattico per cui «il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360, comma 1 c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normativa» (Cass. Sez. U, 32415/2021; sull’inammissibilità dei motivi ‘misti’ v. ex plurimis , solo nel 2023, Cass. nn. 7340, 7341, 7343, 7344, 6951, 6935, 6916, 6912, 6909, 6904, 6823, 5291, 5004, 5003, 4652, 4651, 4631, 4015, 3650, 3650, 3603, 3154, 3122, 2804, 2760, 2395, 1305, 1093); si è detto infatti che una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure ( ex plurimis , Cass. 19761/2016, 5964/2015, 26018/2014).
In secondo luogo, non è più ammissibile la censura di omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ. come novellato nel 2012, che ha reso denunziabile per cassazione solo i vizi motivazionali relativi «all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)», con conseguente onere del ricorrente, ai sensi degli artt. 366, co. 1, n. 6, e 369, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., di «indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie», non essendo più sindacabile la sufficienza della motivazione (Cass. Sez. U, 8503/2014; Cass. 4784/2023, 33961/2022, 27501/2022, 395/2021, 26893/2020, 27415/2018, 22598/2018, 23940/2017).
In terzo luogo, premesso che l’esame dei documenti in contestazione emerge chiaramente dalla sentenza impugnata, l’adombrato vizio di travisamento delle prove documentali non può essere denunziato per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., come di recente chiarito dalle Sezioni unite (Cass. Sez. U, 5792/2024, per cui «ammettere la ricorribilità per cassazione del travisamento della prova comporterebbe il rovesciamento della scelta legislativa inscritta nella novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. (…) facendo scivolare il giudizio di cassazione verso un terzo grado destinato a svolgersi non su lla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle ‘carte’ processuali, con effetto espansivo ignoto persino nell’assetto ante riforma del 2012»).
Nel merito, è sufficiente ricordare che la scissione parziale -la quale si configura come un’operazione straordinaria, disciplinata dagli artt. 2506 s. c.c., come modificati dal d.lgs. n. 6 del 2003, consistente nel trasferimento di parte del patrimonio societario ad una o pi ù società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l’assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa -si traduce in una fattispecie traslativa, che comporta l’acquisizione in capo alla beneficiaria di valori patrimoniali prima non presenti nel suo patrimonio ( ex multis Cass. Sez. U, 23225/2016; Cass. 31313/2018, 6967/2023).
Ebbene, la giurisprudenza di questa Corte è ferma sul principio per cui, «conformemente a quanto statuito dalla Corte di Giustizia UE (con sentenza del 30 gennaio 2020 in causa C-394/18), la revocatoria ordinaria dell’atto di scissione societaria è ammissibile, poiché mira ad ottenere l’inefficacia relativa di tale atto, così da renderlo inopponibile al solo creditore pregiudicato (al contrario di ciò che si verifica nell’opposizione dei creditori sociali prevista dall’art. 2503 c.c., che è finalizzata a farne valere l’invalidità), dovendosi ritenere che la tutela dei creditori, a fronte di atti societari, si estende sino a ricomprendervi, sia pure in via mediata, qualsiasi attribuzione
patrimoniale, a sua volta, “indiretta” ivi contenuta» (Cass. 12047/2021, 2754/2020, 31654/2019); ciò vale anche per l’analoga azione del curatore ex art. 66 l. fall., che può essere promossa anche in concorso con l’opposizione preventiva dei creditori sociali ex art. 2503 c.c., appunto perché la prima mira alla inefficacia relativa/inopponibilità dell’atto, la seconda alla sua invalidità (Cass. 2153/2021; cfr. Cass. 6384/2023 che la esclude per le delibere di società di capitali aventi efficacia endosocietaria, in quanto prive di effetti esterni sulla garanzia patrimoniale generale della società). Lo stesso principio è applicabile ovviamente all’azione di inefficacia ex art. 64 l.fall., poiché gli effetti traslativi della scissione societaria danno vita ad un atto dispositivo del patrimonio del debitore che può essere oggetto delle azioni a tutela del credito, tra le quali rientra l’azione in esame.
Circa la gratuità o meno dell’atto, questa Corte ha più volte chiarito che «la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare e non può quindi fondarsi sull’esistenza o meno di un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni sul piano tipico ed astratto, dipendendo invece dall’apprezzamento dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del soggetto poi dichiarato fallito, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento, collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno ovvero ad un risparmio di spesa; sicché il negozio posto in essere dal soggetto poi fallito può dirsi gratuito, solo quando dall’operazione egli non tragga nessun concreto vantaggio patrimoniale, avendo inteso recarne uno ad altri, mentre sarà oneroso tutte le volte che il fallito riceva un vantaggio per questa sua prestazione tanto da elidere quel pregiudizio cui l’ordinamento pone rimedio con l’inefficacia “ex lege” (Cass. Sez. U, 6538/2010; Cass. 23140/2020, 20886/2024).
Sul punto, le censure sono ulteriormente inammissibili poiché, per un verso, il mancato esame di elementi probatori costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia
probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (Cass. 24092/2013, 15604/2007, 9368/2006), per altro verso il ricorrente per cassazione non può pretendere di contrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella data dal giudicante, al fine di ottenerne una diversa lettura (Cass. Sez. U, 28220/2018 e 34476/2019; Cass. 28643/2020, 205/2022, 2001/2023).
Il ricorso è dunque infondato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo. Sussistono, inoltre, i presupposti per la condanna della ricorrente, nella presente sede, sia ai sensi dell’art. 96, comma 3, cod. proc. civ., che ai sensi del comma 4 della medesima disposizione, come espressamente previsto dall’art. 380 bis, ultimo comma, cod. proc. civ. (disposizione immediatamente applicabile anche ai giudizi in corso alla data del 1° gennaio 2023 per i quali a tale data non era stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio, come nella specie: cfr. Cass., Sez. U, Ordinanza n. 27195 del 22/09/2023; Sez. U, Ordinanza n. 27433 del 27/09/2023).
La Corte stima equo fissare in € 6.000 la sanzione ai sensi dell’art. 96, comma 3, cod. proc. civ. , ed in € 2.500 quella ai sensi del comma 4 della medesima disposizione, anche atteso il carattere consolidato dei principi giurisprudenziali applicati e la manifesta inammissibilità ed infondatezza del ricorso, per i motivi ampiamente esposti.
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
Per questi motivi
La Corte:
rigetta il ricorso;
-condanna la società ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in complessivi € 6.000 , oltre € 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge;
condanna la ricorrente a pagare l’importo di € 6.000 in favore del controricorrente, ai sensi del l’art. 96, comma 3, cod. proc. civ.;
-condanna la ricorrente a pagare l’importo di € 2.500 in favore della cassa delle ammende, ai sensi dell’art. 96, comma 4, cod. proc. civ.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso nella camera di consiglio della Prima Sezione Ci-