Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 28126 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 28126 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4455/2019 R.G. proposto da :
NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME RAGIONE_SOCIALE (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), che la rappresentano e difendono;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 94/2018, depositata il 28/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME NOME.
PREMESSO CHE
NOME COGNOME, componente del consiglio di amministrazione e del comitato dei soci della Banca RAGIONE_SOCIALE, ha proposto opposizione alla sanzione amministrativa (pari a euro 40.000) irrogatagli dalla RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE) con atto n. 19932/2017, adottato in data 30 marzo 2017, per l’omissione di rilevanti informazioni nei prospetti relativi ai due aumenti di capitale deliberati dalla Banca nel 2014.
La Corte d’appello di Venezia, con la sentenza n. 94/2018, ha respinto l’opposizione.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ricorre per cassazione.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE, che deduce l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso.
Il ricorrente e la controricorrente hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso è articolato in diciannove motivi.
Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 1 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e, in subordine, l’incostituzionalità dell’art. 195, commi 4 -8 TUF, nella parte in cui è attribuita al giudice ordinario la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1, della Carta europea dei diritti fondamentali e dell’art. 6 CEDU.
Il motivo è infondato, come questa Corte ha già affermato in relazione a giudizi di opposizione avverso delibere sanzionatorie adottate dalla Consob nei confronti degli organi di vertice della RAGIONE_SOCIALE
(v., ex multis , Cass. n. 1740/2022 e Cass. n. 1760/2022), sulla base dei seguenti principi: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto, ma introduce un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio; (b) la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla RAGIONE_SOCIALE spetta all’autorità giudiziaria ordinaria; (c) la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge; (d) la questione di costituzionalità posta dal ricorrente va disattesa in quanto dichiaratamente volta ad ottenere una (non consentita), pronuncia additiva, che estenda le ipotesi di giurisdizione esclusiva.
2. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione del diritto di difesa per illegittima compressione del contraddittorio, anche ai sensi degli artt. 24 secondo comma, 111 Cost., dell’art. 6 CEDU e dell’art. 47, par. 1 (2), della Carta dei diritti fondamentali UE: la Corte d’appello ha, senza alcuna giustificazione, respinto l’istanza del ricorrente che, in via telematica, aveva chiesto un termine ulteriore per esercitare il proprio diritto di replica e per il deposito di documentazione.
Il motivo non può essere accolto: anzitutto la censura è inammissibile in quanto priva di specificità, in mancanza della dettagliata indicazione delle prerogative difensive che sarebbero state compromesse per effetto della mancata concessione del termine a difesa; in ogni caso la costituzione della Consob è avvenuta nel rispetto del termine predeterminato dal legislatore per la sua costituzione, termine che nella valutazione del legislatore
è stato reputato idoneo ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa in capo all’incolpato.
3. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha individuato il dies a quo dell’acquisita conoscenza delle condotte illecite, da cui ha inizio il termine decadenziale ex art. 195, comma 1 TUF, senza considerare una pluralità di fatti esposti dal ricorrente, con particolare riguardo al possesso, da parte della RAGIONE_SOCIALE, di tutti gli elementi necessari all’accertamento delle pretese violazioni sin dall’approvazione del prospetto, avvenuta nel maggio 2014, e alla circostanza che il comunicato stampa del 28/08/2015 e la relazione semestrale al 30/06/2015 erano sicuramente in possesso della RAGIONE_SOCIALE al momento dell’acquisizione documentale del 17/09/2015, risultando irrilevanti e superflue le acquisizioni successive: ai fini della individuazione del dies a quo del termine decadenziale per l’esercizio del potere punitivo assume rilievo il comunicato stampa della Banca popolare di RAGIONE_SOCIALE del 28 agosto 2015, nel quale si anticipavano gli esiti, non ancora formalizzati, delle verifiche condotte dalla BCE e degli ulteriori accertamenti condotti dall’istituto di credito.
Il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che, anche di recente, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme disciplinanti l’attività di intermediazione finanziaria, il termine di decadenza di centottanta giorni per la contestazione al trasgressore decorre non già dalla ‘constatazione del fatto’, cioè dalla data di acquisizione della notizia dell’illecito, nella sua materialità, ma dal momento dell’ ‘accertamento del fatto’, ossia dal giorno in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza dell’infrazione (cfr., da ultimo, Cass. n. 26766/2024). Nel caso in esame, la Corte d’appello, con giudizio in fatto ad essa riservato,
ha stabilito che tutte e tre le contestazioni sono state mosse al trasgressore nel rispetto del termine di centottanta giorni dalla fine dell’attività di accertamento operata dall’autorità di vigilanza.
4. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 19, comma 3, della legge n. 689 del 1981: la sentenza ha erroneamente negato la decadenza dal potere punitivo per superamento del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio in ragione dell’inconferenza dell’art. 19 rispetto all’ambito delle sanzioni amministrative.
Il motivo è infondato.
Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, l’art. 19, comma 3 della legge n. 689 del 1981 non individua un termine finale per l’adozione del provvedimento sanzionatorio; invero, si tratta di una disposizione destinata a disciplinare l’ipotesi di adozione di misura cautelare in pendenza del procedimento sanzionatorio, che mira a scongiurare il pericolo che la misura stessa possa protrarsi a tempo indeterminato, come appunto confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. al riguardo Cass. n. 8060/2007). L’art. 19 citato viene quindi in considerazione nella sola evenienza che l’opposizione avverso il provvedimento di sequestro sia stata respinta e che l’amministrazione non abbia disposto la confisca o emesso ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria, senza contemplare un termine suscettibile di generalizzata applicazione, tanto più che un termine generale imposto a pena di inefficacia della sanzione è appositamente previsto dal precedente articolo 14, applicabile anche ai procedimenti relativi alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 (cfr., per tutte, Cass. n. 18031/2022).
5. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e dell’art. 52, par. 5, della Carta dei diritti fondamentali UE, nella parte in cui
la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la già prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina più favorevole agli illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.
Il motivo è infondato.
Diversamente da quanto prospettato dal ricorrente nella premessa all’esposizione degli asseriti vizi formali della sentenza, si deve escludere la natura sostanzialmente penale della sanzione oggetto dell’impugnazione (cfr. infra , sub II), sicché è conforme a diritto la statuizione del giudice di merito secondo cui in relazione a tale sanzione non trovano applicazione le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla Banca d’Italia, poiché così è disposto dall’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 del 2015 che non dà luogo a dubbi di legittimità (si veda al riguardo Cass. n. 20689/2018).
6. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 195, comma 7 TUF, per avere la Corte d’appello negato ‘la pur patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte del ricorrente’.
Il motivo non può essere accolto.
In primo luogo, il motivo si palesa inammissibile in quanto risulta del tutto generica l’allegazione circa la lesione del principio del contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per validamente allegare la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (cfr. al riguardo Cass., sez. un., n. 20935 del 2009). Come ha precisato questa Corte nella pronuncia n. 18031/2022 (resa nei confronti del ricorrente e alla quale si rinvia per il compiuto esame
della questione), si tratta di una ricaduta del principio secondo cui le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla RAGIONE_SOCIALE prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 della medesima RAGIONE_SOCIALE sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto a un decidente terzo e imparziale.
Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 244 c.p.c. e dell’art. 195, comma 7 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha omesso l’audizione del ricorrente che ne aveva fatto espressa richiesta.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 TUF il diritto di difesa dell’incolpato è garantito dalla previsione di un congruo termine per il deposito di difese scritte, mentre la sua audizione personale non è un incombente imprescindibile, come risulta dal confronto con l’art. 196 dello stesso decreto legislativo, riguardante i promotori finanziari (in questi termini Cass. n. 1740/2022).
L’ottavo, il nono e il decimo motivo sono tra loro strettamente connessi:
A) l’ottavo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 94, comma 2 e 191, comma 2 del TUF, per avere la sentenza confermato la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla prima contestazione) né espressamente richiesta in sede di approvazione dall’autorità di controllo; si contesta altresì la violazione del
principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede e affidamento di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 180 del 2011; B) il nono contesta, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 94, comma 2 e 191, comma 2 TUF, per avere la sentenza ritenuto di potere confermare la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla terza contestazione) né espressamente richiesta in sede di approvazione dall’autorità di controllo; si contesta anche la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede oggettiva e affidamento di cui all’art. 9, comma 1 della legge n. 180/2011;
C) il decimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 94, comma 2 TUF, nonché dei principi di tipicità dell’illecito e della preventiva conoscibilità della condotta vietata, nella parte in cui la Corte d’appello (relativamente alla prima e alla terza contestazione) non ha verificato la rilevanza e necessità delle informazioni che si assumono omesse al fine della formazione di un giudizio sull’offerta da parte dell’investitore, ai sensi dell’art. 94, comma 2 TUF, dando per presupposto che ‘qualunque informazione’ fosse necessaria.
Le censure sono inammissibili là dove, nella sostanza, sollecitano la Corte, cui è demandato esclusivamente il controllo della legalità della decisione, a compiere un nuovo accertamento degli aspetti fattuali della vicenda, in precedenza insindacabilmente vagliati dalla Corte d’appello, la quale ha illustrato le ragioni del proprio convincimento con motivazione specifica, completa e priva di vizi logici (v. le pagg. 25-38 della sentenza impugnata). Va precisato che i motivi in esame pongono l’accento sull’incidenza, rispetto alle contestate violazioni, della mancata previsione di alcune informazioni negli schemi comunitari di prospetto, anche dal punto di vista della determinatezza dell’illecito. La tesi difensiva non è
persuasiva poiché è indubitabile che detti schemi comunitari non tipizzano le ‘informazioni necessarie’, ma si limitano a indicare le ‘informazioni minime’. Infatti, il regolamento n. 809 del 2004, in tema di modalità di esecuzione della direttiva 2003/71/CE, i cui secondo e sesto considerando precisano, rispettivamente, che ‘in funzione del tipo di emittente e di strumento finanziario interessati occorre fissare la tipologia di informazioni minime corrispondenti agli schemi più frequentemente utilizzati nella pratica’ e che ‘nella maggior parte dei casi, vista la varietà di emittenti, i tipi di strumenti finanziari, la partecipazione o meno di un terzo come garante, l’esistenza o meno di una quotazione, ecc., uno schema unico non fornisce tutte le informazioni di cui gli investitori hanno bisogno per assumere le loro decisioni di investimento; pertanto, deve essere possibile la combinazione di vari schemi; occorre elaborare una tabella di combinazione non esaustiva, che fissi le varie combinazioni di schemi e di moduli possibili per la maggior parte dei diversi tipi di strumenti finanziari e che sia di ausilio agli emittenti nella redazione dei loro prospetti’. Il regolamento fornisce, quindi, unicamente le ‘informazioni minime’, di carattere non esaustivo, che devono corredare i prospetti, laddove l’art. 94 TUF contiene una previsione di carattere decisamente elastico e residuale, secondo cui il prospetto deve contenere ‘tutte le informazioni che sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti’ e deve essere corredato di una nota di sintesi (nella lingua in cui il prospetto è stato in origine redatto) che fornisce le ‘informazioni chiave’.
L’undicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 191, comma 2 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata al ricorrente,
relativamente alla seconda violazione, a titolo di colpa, là dove la fattispecie prevede la sanzionabilità solo a titolo di dolo: l’art. 191, comma 2 TUF pone un obbligo di completezza esclusivamente in capo a chi è incaricato della redazione del prospetto, che è il solo che può essere chiamato a rispondere dell’omissione per la natura dolosa dell’illecito e perché solo costui è il dominus delle informazioni all’uopo necessarie.
Il motivo è infondato.
Al contrario di quanto afferma il ricorrente, si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui la responsabilità della violazione amministrativa, posta in essere mediante condotta attiva od omissiva cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, sia essa dolosa o colposa; sul secondo profilo contestato nel motivo v. il motivo successivo.
10. Il dodicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392, comma 1 c.c., dell’art. 53, comma 1 TUB e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla Banca d’Italia con le circolari n. 285 del 17/12/2013 e n. 263 del 27/12/2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, per avere la sentenza ritenuto di potere formulare a carico del ricorrente un giudizio d’imputazione di omissioni, trascurando di considerare quali sono, a norma di legge e di regolamento, le effettive facoltà di controllo del consiglio di amministrazione e dei suoi componenti sulla struttura aziendale della banca.
Il motivo, frammentato in diversi rilievi critici, è complessivamente infondato.
La decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (per tutte, v. Cass. n. 21502/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema
di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del consiglio di amministrazione di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle RAGIONE_SOCIALE bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi». La Corte aggiunge che «l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle RAGIONE_SOCIALE bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario ed, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto
pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non avere rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno».
Il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo motivo sono tra loro strettamente connessi:
A) il tredicesimo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione degli artt. 2441, comma 6, 2381, comma 6, nonché dell’art. 94, comma 7 TUF; la sentenza avrebbe desunto l’accertamento della negligenza del ricorrente dalla pretesa esistenza di indici di allarme circa l’insufficienza delle informazioni fornite con riguardo alla determinazione del prezzo delle azioni (prima contestazione), postulando l’esistenza di obblighi di verifica esclusi dalle disposizioni del codice civile;
B) il quattordicesimo contesta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2729 c.c.; la sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa esistenza di indici sintomatici del fenomeno (del quale il consiglio di amministrazione non era stato informato) dei finanziamenti correlati (seconda contestazione); omesso esame di fatto decisivo, idoneo a demolire la coerenza logica dell’argomentazione fatta propria dalla Corte d’appello nel valorizzare i predetti indici sintomatici;
C) il quindicesimo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione di legge ‘in relazione all’art. 2392, comma 6, c.c.’; la sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa consapevolezza dell’ingente numero di richieste di cessione dei titoli non quotati sul mercato regolamentato (cosiddetti titoli illiquidi).
Precisato che a questa Corte non può essere chiesto di ripetere il giudizio di fatto della Corte d’appello, poiché una simile attività non è consentita nel giudizio di cassazione, si deve escludere che la sentenza sia viziata da falsa applicazione della disposizione codicistica in tema di prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Infatti, il giudice di merito ha ritenuto fondate le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano la violazione, da parte dell’amministratore (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori in relazione agli aumenti di capitale deliberati dalla banca. In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro nel fatto che egli era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza di macroscopiche anomalie concernenti i criteri di stima delle azioni (la cui mancanza di chiarezza era stata portata all’attenzione degli organi di vertice da un socio nel corso di
una assemblea dei soci), nonché del fenomeno dei finanziamenti correlati (dei quali, tra l’altro, avevano beneficiato gli stessi amministratori), e dell’enorme quantità di richieste di cessione di azioni RAGIONE_SOCIALE da parte della clientela, e nella constatazione che, conseguentemente, al pari degli altri componenti del consiglio di amministrazione, egli avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere gli approfondimenti del caso.
12. Il sedicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 7, comma 10 del d.lgs. 150 del 2011, per essere stato disatteso il principio di presunzione di innocenza.
Il motivo è infondato.
Il giudice di merito, nel disattendere l’eccezione del ricorrente relativa alla carenza dell’elemento soggettivo della violazione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto (cfr. Cass. n. 24081/2019) secondo cui l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (nella specie, questa Corte ha applicato il sopraindicato principio in relazione al provvedimento sanzionatorio adottato, ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998, dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una banca, affermando che spetta ad essi, in presenza di accertate carenze procedurali ed organizzative, dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore). Ne consegue che, sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento
oggettivo dell’illecito comprensivo della ‘suità’ della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (cfr. (Cass. n. 1529/2018). Così intesa la ‘presunzione di colpa’ non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. Non è quindi necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di avere agito senza colpa (v. Cass. n. 11777/2020).
13. Il diciassettesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., che la Corte d’appello avrebbe giudicato sulla base della cd. presunzione di colpevolezza ex art. 3 della legge n. 689 del 1981, senza valorizzare il limite all’operatività della presunzione, individuato dalla giurisprudenza della Cassazione; omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, in merito alla circostanza pacifica dell’occultamento della propria condotta illecita da parte di un gruppo di dirigenti a livello di direzione generale e ciò pure in presenza di fatti accertati e incontroversi risultanti dallo stesso atto di accertamento: pure ammettendosi la sussistenza di una presunzione iuris tantum di colpevolezza, la Corte d’appello è incorsa in violazione di legge e omesso esame di un fatto decisivo là dove ha omesso di considerare il limite alla operatività di tale presunzione.
Il motivo non può essere accolto. Non sussiste il denunciato vizio di violazione di legge.
La Corte d’appello (v. le pagg. 58 -59 della sentenza) non ha infatti escluso il ricorrente dalla prova liberatoria della non esigibilità della condotta, ma ha ritenuto -con accertamento in fatto insindacabile da parte di questa Corte -che il ricorrente non abbia fatto ‘tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole’ e che, in particolare, non siano sufficienti a integrare la relativa prova le circostanza dal ricorrente indicate, così che la denuncia di omesso
esame si sostanzia in una inammissibile richiesta di valutazione degli elementi di prova. Nella memoria depositata prima dell’adunanza (v. pag. 2 dell’atto) il ricorrente osserva come dalla richiesta di archiviazione del pubblico ministero – seguita dalla definitiva archiviazione disposta dal giudice istruttore con ordinanza del 30 marzo 2022 dell’indagine penale svolta nei confronti del ricorrente, si sia escluso che il consiglio di amministrazione, e quindi i suoi singoli componenti, fossero informati o a conoscenza dell’esistenza della prassi aziendale dei finanziamenti correlati all’acquisto e/o sottoscrizione di azioni proprie e, anzi, come lo stesso consiglio di amministrazione fosse intenzionalmente tenuto all’oscuro di tale operatività a opera dei vertici della direzione generale della banca. Si tratta di una mera enunciazione, neppure accompagnata dal deposito dei relativi atti, che, come tale, non può essere esaminata da questa Corte di legittimità
14. Il diciottesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha riconosciuto una situazione di colpa grave in capo a NOME per il mero fatto di essere stato membro del comitato soci della banca, senza aver ricevuto in connessione a tale incarico sul contenuto intrinseco delle formalità inerenti all’aumento di capitale.
alcun particolare potere di interlocuzione o di controllo Il motivo non può essere accolto. La Corte d’appello, dopo avere osservato che il ricorrente è stato membro, oltre che del consiglio di amministrazione, del comitato dei soci che aveva la funzione di proporre le operazioni di vendita delle azioni al consiglio di amministrazione, ha poi nel quantificare la sanzione considerato tale elemento, connotante di maggiore gravità l’elemento soggettivo della condotta, e ha considerato congrua l’ingiunzione al pagamento di euro 40.000,00, somma non distante dal minimo edittale per ciascuna della due violazioni ad egli ascritte. Al riguardo va ricordato il costante orientamento di questa Corte
secondo cui, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi e che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata, ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta ( ex multis , cfr. Cass. n. 4844/2021 e Cass. n. 5526/2020).
15. Il diciannovesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c.: la sentenza avrebbe erroneamente liquidato, a favore della RAGIONE_SOCIALE, le spese processuali nella misura di euro 7.000, per compenso professionale, nonostante che, nel caso in cui la P.A. stia in giudizio a mezzo di un proprio funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano esserle riconosciute esclusivamente le spese vive, adeguatamente documentate, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato.
Il motivo è infondato, in quanto non considera che il patrocinio dell’autorità di vigilanza è stato svolto da avvocati (dipendenti della RAGIONE_SOCIALE), iscritti nella sezione speciale dell’albo degli avvocati di Roma, e non da funzionari della RAGIONE_SOCIALE. Secondo il principio più volte affermato da questa Corte, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato, ma da un difensore iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi compensi, ancorché lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 24374/2024).
II. In memoria il ricorrente chiede che questa Corte, in via pregiudiziale, disponga il rinvio ex art. 267 TFUE alla Corte europea di giustizia di cinque quesiti che hanno come presupposto l’incompatibilità con l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali UE dell’interpretazione che esclude la natura punitiva delle sanzioni amministrative comminate dalla RAGIONE_SOCIALE in forza delle disposizioni dell’art. 191, comma 2 TUF, nella versione vigente alla data di deliberazione del provvedimento impugnato.
Il Collegio ritiene di non disporre il rinvio pregiudiziale. Nella pronuncia del 6 ottobre 2021, C-561/19 (sulla pronuncia cfr. Cass. n. 34898/2024), la Corte di giustizia, dopo avere rimarcato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza Cilfit) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario: si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’ acte éclairé , ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’ acte clair , quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale. Quanto alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità, le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla RAGIONE_SOCIALE per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate
ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 2014, Grande Stevens e altri c. Italia), nel senso che non sono equiparabili – per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale – alle sanzioni RAGIONE_SOCIALE relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali.
III. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, in favore della controricorrente, che liquida in euro 6.500,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 13 febbraio 2025.
Il Presidente
NOME COGNOME