Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25718 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25718 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5382/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO , presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (RAGIONE_SOCIALE), che lo rappresenta e difende anche disgiuntamente agli avvocati COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME , COGNOME NOME;
– ricorrente –
contro
BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME , che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME, COGNOME NOME;
– controricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI ROMA n. 7819/2018, depositata il 04/07/2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2024 dal Consigliere Relatore NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
1. Con lettera del 9 luglio 2012 Banca d’Italia aveva richiesto alla banca Monte dei Paschi di Siena (‘RAGIONE_SOCIALE‘) analitica informativa in merito all’ammontare e ai criteri per la determinazione dei compensi riconosciuti al Direttore Generale (‘DG’) NOME COGNOME in sede di cessazione dell’incarico, nonostante i negativi risultati conseguiti nella gestione della banca. Dalla delibera del Consiglio d’Amministrazione ( ‘CdA’) del 12 gennaio 2012 era emerso che, su parere del RAGIONE_SOCIALE, il Consiglio aveva autorizzato la risoluzione del rapporto di lavoro del Direttore Generale con la corresponsione della somma di €. 4.000.000,00 a titolo di incentivo per agevolare detta risoluzione quale integrazione del t.f.r., in aggiunta a ogni competenza di fine rapporto e spettanza maturata per legge e contratto nazionale di lavoro. RAGIONE_SOCIALE si era, inoltre, impegnata a tenere il DG «immune da azioni, anche di terzi, in relazione al suo operato di Direttore generale».
Secondo Banca d’Italia, anche alla luce delle notorie criticità della situazione tecnica del gruppo RAGIONE_SOCIALE, derivanti da scelte degli ultimi anni non ispirate a criteri di sana e prudente gestione che avevano reso necessario il ricorso ad aiuti di Stato, i riconoscimenti effettuati al cessato DG non avevano tenuto conto dei criteri e parametri di cui alle «Disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari (le ‘Disposizioni’)» emanate dalla Banca d’Italia il 30 marzo 2011, in virtù delle quali i compensi pattuiti in caso di conclusione anticipata del rapporto debbano essere collegati alla performance e ai rischi assunti, al livello
delle risorse patrimoniali, nonché ai risultati conseguiti, mediante previsioni di pagamenti almeno in parte differiti e di eventuali meccanismi di correzione ex post (clausole di malus o claw back) , a fronte, invece, di pagamento in danaro in unica soluzione a favore del COGNOME; inoltre, la remunerazione variabile è, per le banche che beneficino di interventi pubblici eccezionali, limitata in percentuale del risultato netto di gestione, non dovendo essere pagata agli esponenti aziendali, salvo che ciò non sia giustificato. Si rilevava, infine, come le valutazioni condotte dall’organo consiliare, nella citata seduta del 12 gennaio 2012, non risultassero ancorate a criteri chiari e predeterminati, e il processo decisionale non fosse stato opportunamente esplicitato e documentato.
Con le note di addebito (del 3 dicembre 2012) Banca d’Italia contestava formalmente ai consiglieri di amministrazione di RAGIONE_SOCIALE – e per quanto qui rileva in particolare a NOME COGNOME, all’epoca dei fatti componente del Cda – la violazione delle Disposizioni citate, in base all’art. 53, comma 1, lett. d) del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 .
(«Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», ‘T.U.B.’) All’esito della fase istruttoria, i l Direttorio della Banca d’Italia adottava il provvedimento sanzionatorio nella seduta del 23 luglio 2013 (sul quale questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23554 del 27.10.2020; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17291 del 19.08.2020; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9371 del 21/05/2020, Rv. 657750 -01), applicando ad NOME COGNOME (come agli ai Consiglieri del CdA presenti al momento dell’adozione della delibera del 12.01.2012) la sanzione pecuniaria amministrativa pari a €. 90.000,00.
NOME COGNOME impugnava la delibera innanzi al T.A.R. del Lazio in Roma; a séguito di dichiarazione di difetto di giurisdizione per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 9 aprile 2014,
l’ opponente riassumeva il giudizio innanzi alla Corte d’Appello di Roma che, con provvedimento depositato il 4 luglio 2018, rigettava l’opposizione.
A sostegno della sua decisione, la Corte territoriale ha considerato, per quel che qui ancora rileva:
che il principio del contraddittorio e del diritto di difesa erano salvaguardati -anche ai sensi dell’art. 6 della C.E.D.U. come interpretato nella sentenza della corte di Strasburgo 4 marzo 2014, RAGIONE_SOCIALE e altri c. Italia – dall’essere assicurato nel sistema italiano un ricorso in opposizione di piena giurisdizione;
dalla lettura congiunta della lettera di contestazione e del provvedimento sanzionatorio emerge come tutte le circostanze su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio fossero già contenute nella prima;
la somma corrisposta al DG per testuale indicazione della delibera 12/01/2012, come risulta anche dalla relazione sulle remunerazioni, si aggiungeva al t.f.r. e ad ulteriori spettanze previste dalla legge e dal contratto collettivo, sicché devono ritenersi applicabili le Disposizioni di Banca d’Italia inerenti i golden parachutes sulle modalità di erogazione relativi parametri.
Avverso la suddetta pronuncia proponeva ricorso per cassazione NOME COGNOME, affidandolo a dieci motivi e illustrandolo con memoria.
Resisteva Banca d’Italia depositando controricorso, illustrato da memoria.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 6 della convenzione EDU, 24 e 111 della Costituzione, in combinato disposto con gli artt. 115, 187 e 202 ss. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 4) cod. proc. civ. Questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 53, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, per violazione degli artt. 6 della convenzione EDU, 24 e 111 della Costituzione, in relazione all’art. 145 d.lgs. n. 385/1993, come modificato dall’art. 1, comma 53, d.lgs. n. 72/2015. Il ricorrente lamenta la grave violazione del diritto di difesa della parte colpita dalla sanzione nella sua specifica espressione qual è il diritto alla prova ed al contraddittorio nella formazione della prova, avendo la Corte d’Appello ritenuto possibile decidere sulla base della sola lettura del provvedimento impugnato, omettendo del tutto di valutare l’ammissibilità e la fondatezza delle istanze di prova (istanza di esibizione, da parte di RAGIONE_SOCIALE, del parere del RAGIONE_SOCIALE, in merito al compenso da riconoscere al DG per la risoluzione anticipata del rapporto; richiesta di sentire come testimoni taluni dirigenti di RAGIONE_SOCIALE e della relativa RAGIONE_SOCIALE in ordine a vicende antecedenti la risoluzione del rapporto di lavoro con l’ ex DG) formulate da NOME COGNOME, pur in presenza di una controversia sui presupposti della responsabilità dichiarati da Banca d’Italia.
Con il secondo motivo si deduce violazione de ll’ art. 6 della convenzione EDU, e dell’art. 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. Obbligo di sollevare, dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ex art. 276 TFUE, la questione pregiudiziale di interpretazione dell’art. 145 del d.lgs. n. 385/1993, in relazione all’art. 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. In tesi, sempre con riferimento alla mancata concessione dei mezzi istruttori richiesti dall’incolpato, la normativa internazionale citata deve applicarsi alle sanzioni irrogate da Banca d’Italia per la loro natura afflittiva e per le loro caratteristiche di incidere anche sui diritti della persona (lavoro e
onorabilità personale); qualora la Corte di legittimità avesse un dubbio sulla qualificazione penale della sanzione di cui si discute, ai sensi dei c.d. criteri RAGIONE_SOCIALE, ovvero dovesse ritenere che l’art. 145 del T.U.B. nella sua versione transitoria consenta al giudice di non ascoltare neppure un testimone della difesa, allora dovrebbe sollevare questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia, rammentandosi l’obbligatorietà di tale incombenza per il giudice di ultima istanza.
Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e nullità della sentenza impugnata ai sensi dei nn. 3 e 4 nel comma 1, art. 360 cod. proc. civ., per violazione del comma 7 dell’art. 183 cod. proc civ., del comma 6 dell’art. 111 cost., dell’art. 132, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. e del comma 1 dell’art 118 disp. att. cod. proc. civ. (R.D. n. 1368/1941), in relazione alla circostanza che, non contenendo la sentenza impugnata alcuna pronuncia in ordine alle istanze istruttorie avanzate dal ricorrente, si configura sul punto un difetto assoluto di motivazione e/o una motivazione inesistente anche sotto il profilo materiale e grafico.
I primi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tutti censurano -sotto diversi profili – la pronuncia impugnata per non aver statuito in ordine all’ammissibilità delle istanze probatorie ele vate dall’opponente. Essi sono tutti in ammissibili per quanto si dirà appresso.
4.1. Va osservato, in via di principio, che la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma soltanto qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul
punto, la rilevanza (Cass., 28/02/2018, n. 4699; Cass., 11/10/2016, n. 20382).
Sotto il diverso profilo del vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4), dello stesso codice, tale vizio si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 13716/2016; n 24830/2017), nei limiti attualmente consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ. Orbene, secondo l’attuale testo dell’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ., alla luce dei principi fissati da Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 (Rv. 629831 – 01), l’ipotesi di cui all’art. 360, n. 5) c od. proc. civ. deve essere riferita ad un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6), e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare: 1) il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso; 2) il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente; 3) il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti; 4) la sua «decisività». Ciò fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018 – Rv. 651028 – 01), e ciò in quanto le deduzioni aventi ad oggetto la
persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attengono alla mera sufficienza della motivazione, e cioè ad un profilo non (più) deducibile. In materia, quindi, il solo profilo suscettibile di denuncia in sede di legittimità attiene all’eventuale carattere decisivo dei mezzi non ammessi, in quanto volti alla dimostrazione di fatti la cui considerazione avrebbe comportato, con certezza, una decisione diversa (Cass. n. 18368/2013).
4.2. Tanto chiarito, con riferimento al caso di specie il ricorrente ha ricondotto la decisività dei mezzi istruttori richiesti alla necessità di dimostrare la diligenza dei consiglieri, in rapporto alla «pervicace volontà dolosa dei vertici dell’azienda di nasconder e documenti alla Banca d’Italia e al Consiglio di Amministrazione » (v. ricorso p. 13, 4° capoverso). Tale censura non attinge alla ratio della motivazione impugnata (come peraltro rilevato nel controricorso a p. 17, 1° e 2° capoverso), posto che la Corte territoriale ha condivisibilmente ritenuto illegittimo l’accor do stipulato con il Direttore Generale uscente, deliberato dal CdA di RAGIONE_SOCIALE il 12.01.2012, in quanto non in linea con le Disposizioni di Banca d’Italia vigenti – delle quali i consiglieri avrebbero dovuto avere contezza con l’impiego dell’ordinaria diligenza imposta dal ruolo rivestito – a mente delle quali i compensi pattuiti in caso di conclusione anticipata del rapporto di lavoro (c.d. golden parachutes ) -quale può definirsi la somma di €. 4 ml riconosciuta al DG a titolo di incentivo alla risoluzione anticipata del rapporto ad integrazione del TFR maturato e di ogni altra spettanza prevista dalla legge e dal CNL per i Dirigenti di Aziende di Credito; cui si aggiunge la clausola di garanzia a favore del DG nell’ipotesi di eventuali azioni di danni da responsabilità -esigono che essi siano collegati alla performance realizzata e ai rischi assunti, e che una quota sia soggetta a sistemi di
pagamento differiti e meccanismi di correzione ex post (v. sentenza p. 7, 1° e 2° capoverso).
4.3. Tanto basta ad escludere la decisività dei mezzi istruttori richiesti, dovendosi per questo ritenere implicitamente declinata la richiesta dal complesso delle motivazioni rese dalla Corte territoriale, come sopra riportate (Cass. Sez. L, Sentenza n. 15502 del 02/07/2009, Rv. 609042 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 14611 del 12/07/2005, Rv. 584883 – 01) ; e ad escludere, altresì, l’ inesistenza della motivazione asserita nel terzo mezzo di gravame, intesa da questa Corte come «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (per tutte: Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Né ha pregio il presupposto sotteso alle doglianze espresse dal ricorrente nel primo mezzo di ricorso (p. 10, 1° capoverso), ossia che il potere discrezionale del giudice di rifiutare la rinnovazione dell’accertamento dei fatti derivi dalla natura sommaria del rito di opposizione: come si avrà modo di precisare più oltre (cfr. punto 7.2.), anche in merito ai dubbi di illegittimità costituzionale dell’art. 145 T.U.B. o di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, il procedimento ordinario al quale accede l’opposizione a sanzione amministrativa tutela comunque, anche nella forma camerale, il diritto al contraddittorio nell’acquisizione delle prove . Tanto basta ad escludere, altresì, la violazione delle garanzie al giusto processo e al diritto di difesa, dovendosi escludere la natura essenzialmente penale delle sanzioni irrogate da Banca d’I talia (v. infra , punto 8.1.)
Con il quarto motivo si deduce nullità dell’ordinanza impugnata per violazione e/o falsa applicazione del comma 5 dell’art. 2 d.lgs. n. 72/2015 e dell’art. 145, commi 4, 5, 6, 7, 7bis e 8 d.lgs. n. 385/1993,
come modificato dall’art 1, comma 53, lett. E-F-G-H-I-L d.lgs. n. 72/2015, laddove ha reputato di poter applicare nel giudizio a quo la formulazione dell’art. 145 del d.lgs. n. 385/1993 previgente alla predetta modifica introdotta dal d.lgs. n. 72/2015. In tesi, il giudizio di merito sarebbe stato erroneamente considerato come un giudizio pendente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 72/2015, ed è stato, quindi, disciplinato sotto il profilo processuale facendo applicazione della previgente versione dell’art. 145 del T.U.B., ossia come se fosse un procedimento camerale con udienze, però, pubbliche. Secondo il ricorrente, invece, poiché il ricorso in riassunzione innanzi alla Corte d’Appello è stato depositato il 06.07.2015, ossia in data successiva all’entrata in vigore (27.06.2015) delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 72/2015, che ha modificato l’art. 145 T.U.B., e poiché le nuove disposizioni sul rito trovano applicazione ai giudizi proposti successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto, ne deriva che anche il giudizio in riassunzione innanzi al giudice ordinario -qualificabile come nuovo e autonomo giudizio – doveva essere assoggettato alle disposizioni di cui al nuovo testo dell’art. 145 T.U.B.
6. Con il quinto motivo si deduce l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, d.lgs. n. 72/2015, in relazione all’art. 3 Costituzione, per illegittima disparità di trattamento, nonché in relazione all’art. 117 Cost., per violazione dell’art. 6 convenzione EDU, in caso di ritenuta applicabilità al giudizio a quo del regime transitorio previsto dalla citata disposizione. A giudizio del ricorrente, la menzionata previsione transitoria sarebbe affetta da evidenti vizi di incostituzionalità, nella parte in cui, per i giudizi pendenti, prevede l’applicazione del previgente rito camerale, con il semplice correttivo dello svolgimento della pubblica udienza, così determinando – in pregiudizio della parte ricorrente – una disparità di trattamento tanto
evidente quanto ingiustificata. Ciò assume rilievo soprattutto con riferimento al diritto alla prova, in quanto il rito previsto dalla norma transitoria non conferisce alcuna certezza neppure in ordine la possibilità stessa di un’istruzione probatoria dinanzi alla Corte d’Appello secondo i canoni del giusto processo, essendo ciò rimesso integralmente alla volontà discrezionale dell’organo giudicante.
Il quarto e quinto motivo possono essere trattati congiuntamente, poiché entrambi aggrediscono la pronuncia impugnata sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, nella declinazione attinente al diritto della parte all ‘espletamento dell’attività istruttoria.
Essi sono infondati, perché infondati sono i presupposti sui quali le doglianze si articolano.
7.1. Quanto al fatto che il processo celebrato presso la Corte d’Appello non sia in riassunzione, bensì un nuovo processo, distinto e autonomo rispetto a quello conclusosi con la pronuncia di declaratoria di carenza di giurisdizione da parte del T.A.R. Lazio, con la sentenza n. 27163 del 2018 le Sezioni unite di questa Corte, affrontando il tema del rapporto tra l’art. 11 c.p.a. e l’art. 59 della legge n. 69 del 2009, hanno affermato che la prima di dette disposizioni ha carattere speciale rispetto all’altra e che essa individua nella sola riproposizione del processo, innanzi al giudice indicato nella pronuncia declinatoria della giurisdizione, il mezzo di tutela esperibile ai fini della salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta, a differenza del dettato del citato art. 59, che invece contempla anche, ove ricorrano determinate condizioni, l’istituto della riassunzione. Ne discende che, in caso di declinatoria della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, la domanda, ai detti fini, deve essere sempre nuovamente e tempestivamente proposta, con
contenuto non diverso dalla precedente, dinanzi al giudice munito di giurisdizione, così determinando l’instaurazione di un giudizio nuovo, secondo la disciplina applicabile a quest’ultimo, anche con riguardo alla ritualità del contraddittorio. La pronuncia citata ha, altresì, chiarito che la scelta tra riassunzione e riproposizione della domanda non dipende soltanto dal tipo di giudizio da svolgere dinanzi al giudice ad quem , ma dalla circostanza che vi sia stato o no il passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio originario declinando la giurisdizione, dal momento che, se questo si è chiuso con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia, lo strumento non può che essere quello della proposizione della nuova domanda, mentre nell’altro caso è appropriato lo strumento della riassunzione, qualora non occorra adattare la domanda alle modalità ed alle forme previste davanti al giudice adito (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5133 del 27/02/2024, Rv. 670379 – 01).
Tornando al caso che ci occupa, nel ricorso nulla si dice né in merito alla natura dell’atto di opposizione (se istanza in riassunzione ovvero ricorso in opposizione); né in merito al passaggio in giudicato della pronuncia di declaratoria di carenza di giurisdizione emessa dal T.A.R., dovendo quindi ritenersi che fosse stata deliberatamente proposta istanza in riassunzione, non già un nuovo giudizio, avuto riguardo non solo all a forma della pronuncia resa dalla Corte d’Appello (ordinanza), ma anche a l linguaggio letterale utilizzato dal giudice dell’opposizione ( … «ha riassunt o dinanzi a questa Corte il giudizio di opposizione ex art. 145 T.U.B»: v. sentenza p. 1).
7.2. Quanto alla violazione del diritto di difesa, derivante dal fatto che il rito previgente alla riforma attuata non offrisse le garanzie giurisdizionali previste dalla Costituzione e dall’art. 6 della CEDU : anche a voler presupporre che la pronuncia impugnata sia stata resa
dalla Corte d’Appello di Roma in applicazione del rito previgente alla riforma del 2015, trattandosi di procedimento in riassunzione e non di riproposizione di nuova domanda, questa Corte ha già avuto modo di precisare – con riferimento alle sanzioni previste dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – che nella disciplina del procedimento amministrativo sanzionatorio dettata dal nostro sistema nazionale è assicurato il ricorso in opposizione di piena giurisdizione, nonostante il rito camerale, con il potere del giudice di sindacare, in fatto e in diritto, la fondatezza, l’esattezza e la correttezza della decisione amministrativa e della sanzione inflitta (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25141 del 14/12/2015, Rv. 637852 – 01), atteso che il diritto al contraddittorio è garantito dal disposto del comma 6 dell’art. 145 T.U.B. (nel testo introdotto dall’art. 34 d. lgs. n. 342 del 1999), il quale, nel disciplinare il procedimento di opposizione alle sanzioni irrogate, prevede la fissazione di termini per «presentazione di memorie e documenti», nonché «per consentire l’audizione anche personale delle parti» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9371 del 21/05/2020, Rv. 657750 – 01).
8. Con il sesto motivo si deduce violazione dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 72/2015 in relazione ai principi generali del diritto europeo ed all’art. 2, comma 2, ultimo alinea, del Reg. n. 2988/98/CE, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. Obbligo di sollevare, dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ex art. 276 TFUE, la questione pregiudiziale di interpretazione dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 72/2015, alla luce dei principi di diritto europeo e, in particolare, al principio di irretroattività della legge penale. Si censura il provvedimento della Corte territoriale per non aver voluto riconoscere l’applicabilità del principio del favor rei , in ragione della natura afflittiva e sostanzialmente penale delle sanzioni in materia, sì da rendersi
applicabile la disciplina più favorevole entrata in vigore successivamente, sulla base del d.lgs. n. 72 del 2015, allorché le società e gli enti sono divenuti diretti destinatari della sanzione di cui trattasi, e gli esponenti aziendali e il personale sono stati assoggettati alla sanzione stessa personalmente solo a séguito dell’accertamento dei presupposti indicati dalla legge. Si richiama al riguardo la giurisprudenza in materia della Corte costituzionale. Inoltre, precisa il ricorrente, l’art. 2, comma 3 , d.lgs. n. 72 del 2015 condiziona il momento applicativo delle nuove disposizioni all’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d’Italia, così lasciando al giudice la facoltà di scegliere quali norme entrano in vigore subito e quali dopo l’entrata in vigore di ulteriori norme attuative emanate da Banca d’Italia. In tale contesto, ove questa Corte di legittimità dovesse ancora dubitare dell ‘est ensione del principio di retroattività in mitius alle sanzioni amministrative aventi carattere penale, si prospetterebbe l’obbligo di sollevare questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
8.1. Il motivo è infondato, e manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale proposta.
Com’è noto, in tema di sanzioni amministrative i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui all’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi ( ex plurimis , di recente: Cass. Sez. 2, n. 6295 del 02.03.2023, Rv. 667282 – 01; Cass. Sez. 2, n. 15352 del 31/05/2023, Rv. 667967 -03; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13336 del 28/04/2022, Rv. 664620 -01), con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art.
2, commi 2 e 3, cod. pen. i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore.
Nel caso concreto va poi sottolineato che l’irretroattività della nuova disciplina posta dall’art. 144ter , introdotta dal d.lgs. n. 72 del 2015, è espressamente stabilita dallo stesso decreto (art. 2, comma 3). Il ricorso non contesta tale principio, ma sostiene che nella specie esso non andrebbe applicato per avere la sanzione irrogata, in ragione del suo carattere afflittivo, natura sostanzialmente penale, con l’effetto di ritenerla sottoposta al principio del favor rei .
Avverso tale argomento non condivisibile si osserva che, escluso il riconoscimento di alcun vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative, neanche può dirsi sussistente un principio di inderogabilità assoluta della retroattività in mitius anche in materia di sanzioni afflittive non penali. Sul punto, è sufficiente rimettersi a quanto chiarito dalla Corte costituzionale, secondo la quale rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità «punitiva», il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior – potrà estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul
piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019; Corte Cost., sentenza n. 43 del 2017; Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011).
In casi riguardanti le responsabilità degli organi di gestione in merito all’operazione Fresh , questa Corte ha avuto modo di chiarire che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate da Banca d’Italia ai sensi del T.U.B. (nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 72 del 2015) nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, non sono equiparabili, quanto a gravosità economica ed incidenza sui diritti e libertà fondamentali, avuto riguardo alle concrete estrinsecazioni professionali, imprenditoriali e manageriali della persona, a quelle previste dall’art. 187ter d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico in materia di intermediazione Finanziaria, ‘T.U.F.’) , per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno natura sostanzialmente penale e non pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21602 del 2021; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16517 del 31/07/2020, Rv. 659018 -02; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 32135 del 2018: tutte citate in memoria di Banca d’Italia; cfr. anche: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17209 del 18/08/2020, Rv. 658959 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24850 del 04/10/2019, Rv. 655260 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3656 del 24/02/2016, Rv. 638686 – 01). Tanto basta ad escludere la rilevanza della questione di costituzionalità dell’art. 3 legge n. 689/1981 sollevata dall’opponente (relativa alla compatibilità del principio di non colpevolezza stabilito dalla CEDU con le norme nazionali che consentono di presumere la colpevolezza dell’accusato imponendo a quest’ultimo di fornire la prova della propria innocenza).
Infine, è opportuno precisare che non ha pregio la doglianza volta a rilevare un’asserita discrezionalità del giudice nel lo scegliere quali norme entrano in vigore subito e quali successivamente all’entrata in vigore di norme attuative emesse da Banca d’Italia: la linea di confine temporale è segnata con chiarezza dal legislatore, appunto, dall’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 72/2005 pure richiamato in ricorso.
9. Con il settimo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14 della legge n. 689/1981 e dell’art 24 della legge n. 262/2005, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. Si censura la sentenza nella parte in cui la motivazione è totalmente carente ed inidonea a giustificare l’indebita modifica dei fatti costitutivi delle violazioni ascritte da Banca d’Italia al COGNOME riscontrabile tra l’iniziale atto di contestazione che ha dato avvio alla relativo procedimento amministrativo dinanzi all’autorità di vigilanza e la successiva nota di addebito del 03/12/2013, contenente la proposta per l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie divenuta parte integrante della delibera sanzionatoria.
10. Con l’ottavo motivo si deduce violazione di legge e nullità della sentenza impugnata ai sensi dei nn. 3 e 4 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., per violazione del comma 6 dell’art. 111 cost., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. (R.D. n. 1368/1941). Con riferimento ai medesimi aspetti di illegittimità della Delibera sanzionatoria adottata da Banca d’Italia per la mancata corrispondenza tra i fatti inizialmente contestati in sede procedimentale e quelli successivamente posti a fondamento della delibera sanzionatoria impugnata nel merito, la pronuncia impugnata viene censurata in quanto si appalesa come una motivazione apparente, nonché perplessa ed obiettivamente incomprensibile. A giudizio del ricorrente la motivazione è del tutto inidonea a svelare le ragioni che, secondo il giudice a quo , avrebbero
dovuto giustificare il rigetto della sopramenzionata censura svolta dall’odierno ricorrente nel giudizio di merito.
11. Il settimo e l’ottavo motivo possono essere esaminati congiuntamente per evidente connessione logica: il primo è inammissibile, posto che sul punto la Corte territoriale ha fornito la sua logica e coerente valutazione in ordine al contenuto dei due atti, lettera di contestazione e nota di addebito, laddove ha statuito che: «dalla lettura congiunta della lettera di contestazione e del provvedimento sanzionatorio emerge come tutte le circostanze su cui si fonda il provvedimento fossero già contenute nella prima» (sentenza p. 5, 1° capoverso).
E’ principio consolidato quello per qui «In tema di sanzioni amministrative, sussiste la violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto assunto a base della sanzione irrogata, previsto dall’art. 14 della 1. n. 689 del 1981, tutte le volte in cui la sanzione venga comminata per una fattispecie, individuata nei suoi elementi costitutivi e nelle circostanze rilevanti delineate dalla norma, diversa da quella attribuita al trasgressore in sede di contestazione, posto che in tali casi viene leso il diritto di difesa del trasgressore medesimo; la relativa indagine rientra tra i compiti del giudice di merito, le cui conclusioni, ove adeguatamente motivate, sono insindacabili in sede di legittimità» (Cass. n. 18883/2017; n. 9700/2011).
La doglianza si traduce, dunque, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. sez. 2, n. 19717 del 17.06.2022; Cass. Sez. 2, n. 21127 dell’08.08.2019).
11.1. Tanto basta ad escludere l’apparenza della motivazione resa dalla Corte territoriale, atteso che la costante giurisprudenza di
legittimità ritiene che il vizio ricorra quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante: (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 23123 del 28/07/2023, Rv. 668609 -01; Cass Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639 -01; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145; Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Cass. Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016).
L’ottavo motivo è, dunque, infondato.
12. Con il nono motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5.2., 5.3. delle Disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari, adottate da Banca d’Italia in data 30/03/2011, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. In tesi, le Disposizioni di Banca d’Italia non prevedevano anche che la corresponsione della buonuscita riconosciuta al lavoratore al momento della risoluzione consensuale anticipata il rapporto di lavoro avvenisse in parte in denaro e in parte in azioni, né che fosse differita nel tempo o che fosse sottoposta a meccanismi di correzione ex post . Tanto è confermato da una successiva circolare di Banca d’Italia del 17/12/2013 a norma della quale sono espressamente prescritti i requisiti di validità del c.d. golden parachute.
12.1. La censura è inammissibile: la Corte territoriale ha fornito una decisa e chiara lettura delle Diposizioni di cui si discute, nel testo vigente al momento in cui la delibera contesta era stata assunta dal
CdA (v. sentenza p. 7, 2° capoverso), confrontandole con i contenuti della delibera stessa, concludendo che: «Ora, tale accordo pacificamente non rispetta le disposizioni vigenti in tema di politiche e prassi di remunerazione che, quanto ai compensi pattuiti in caso di conclusione anticipata del rapporto di lavoro (c.d. golden parachutes ), esigono che essi siano collegati alla performance realizzata e ai rischi assunti e che una quota sia soggetta ai sistemi di pagamento feriti e meccanismi di correzione ex post . Ed anzi, s’è detto che la clausola attesa a garantire il DG da eventuali azioni di responsabilità va nella direzione esattamente contraria». Pertanto, in virtù dei principi rammentati supra (punto 11) la doglianza si traduce in un’inammissibile richiesta di revisione del convincimento del giudice del merito.
Con il decimo motivo si deduce l’incompatibilità dell’art. 3 della legge n. 689 nel 1981 rispetto all’art. 48 della Carta Europea sui Diritti dell’Uomo. A giudizio del ricorrente il principio della presunzione di colpa presupposto dell’art. 3 dalla norma citata non è conforme alle garanzie convenzionali: si chiede, pertanto, a questa Corte che venga sollevata questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia europea
13.1. Il motivo è infondato: questa Corte ha reiteratamente affermato il principio per cui, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 144 del d.lgs. T.U.B., ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le Istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di
amministrazione, di direzione o di controllo di istituti bancari; il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, e così ricollega il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della «suità» del comportamento inosservante, con la conseguenza che, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, l’onere di provare di aver agito diligentemente e in osservanza ai precetti normativi (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11127 del 2024; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9546 del 18/04/2018, Rv. 648049 -01; Cass. Sez. U, 30/09/2009, n. 20930).
Esclusa, poi, la natura sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate da Banca d’Italia ex art. 144 T.U.B. (vigente ratione temporis: v. supra , punto 8.1.), cade anche la fondatezza e rilevanza della questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia europea dell’art. 3, legge n. 689/1981 e, di conseguenza, anche la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 117 Cost.
In definitiva, il Collegio rigetta il ricorso, liquida le spese secondo soccombenza come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in € . 7.000,00 per compensi, oltre ad € . 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda