Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14771 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 14771 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 02/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26002-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, NOME COGNOME NOMECOGNOME entrambi elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
I.T.L. -ISPETTORATO RAGIONE_SOCIALE DI BOLOGNA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
Oggetto
Sanzioni amministrative
R.G.N. 26002/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 05/03/2025
CC
avverso la sentenza n. 522/2021 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 12/03/2021 R.G.N. 1566/2014; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
Con ordinanza n. 1246 del 2010 la Direzione Provinciale del Lavoro di Bologna ingiungeva a NOME COGNOME e alla RAGIONE_SOCIALE (il primo quale trasgressore e la seconda quale obbligata in solido) il pagamento della somma di euro 115.530,00 per la violazione degli artt. 4 co. 4 e 9 comma 1 del D.lgs. n. 66 del 2003 in tema di riposi e pause di lavoro per il personale adibito a funzioni di vigilanza.
Proposta opposizione, il Tribunale di Bologna, dopo avere espletato istruttoria, annullava l’ordinanza ingiunzione limitatamente alla sanzione pecuniaria di euro 18.720,00 irrogata ex art. 18 bis co. 3 D.lgs. n. 66/2003 per la violazione dell’art. 4 co. 4 del medesimo decreto; rideterminava la sanzione residua, disponendo che il livello edittale di ciascuna sanzione fosse ridotta al minimo, mandando l’Amministrazione a rideterminare la sanzione nel senso di applicare il minimo edittale ai n. 451 mancati riposo; respingeva, nel resto, il ricorso.
Impugnata la pronuncia di primo grado, la Corte di appello di Bologna, con la sentenza n. 522/2021, rigettava il gravame presentato dagli originari opponenti.
I giudici di seconde cure, in relazione ai motivi di appello, rilevavano che: a) la notifica dell’ordinanza ingiunzione effettuata in data 30.12.2010 al COGNOME quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE che si era fusa per incorporazione nel settembre 2010 con la società RAGIONE_SOCIALE, era valida atteso che la società incorporante
assumeva i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali anteriori alla fusione; b) era altresì valida la notificazione alla Società effettuata presso la residenza dell’ultimo legale rappresentante della società cessata atteso che l’infruttuoso tentativo di notifica presso la sede dell’ente non costituiva più n presupposto per procedere a norma degli artt. 138, 139 e 141 cpc nei confronti della persona fisica che rappresentava l’ente stesso; c) tutti gli illeciti contestati erano anteriori alla riforma del 2008 e correttamente il D.lgs. n. 66/2003 era stato applicato fino al 25.6.2008 in ossequio al principio del tempus regit actum e la P.A. aveva in corso del giudizio integrato la motivazione dell’ordinanza impugnata con i parametri di calcolo adoperati; d) l’attività svolta dai dipendenti di RAGIONE_SOCIALE comportava, per sua stessa natura, la continua e vigile attenzione che portava ad escludere l’applicabilità della deroga di cui all’a rt. 9 co. 2 del D.lgs. n. 66/2003 che prevedeva che la norma sul riposo settimanale non trovasse applicazione per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durane la giornata; e) il cumulo giuridico ai fini della quantificazione della sanzione ex art. 8 co. 1 legge n. 689/1981 non poteva trovare applicazione al caso di specie.
Avverso tale decisione la RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME proponevano ricorso per cassazione affidato a quattro motivi cui resisteva con controricorso l’Ispettorato Territoriale del lavoro di Bologna.
I ricorrenti depositavano memoria.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati, così come prospettati dagli stessi ricorrenti.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 bis cod. civ. e dell’art. 2495 cod. civ., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale rigettato l’eccezione di inesistenza dell’ordinanza -ingiun zione, nonché l’eccezione di nullità della notificazione della stessa, perché emessa e notificata nei confronti di RAGIONE_SOCIALE allorquando la stessa era stata già cancellata dal Registro delle Imprese e cessata perché fusa per incorporazione in RAGIONE_SOCIALE
Con il secondo motivo si censura la violazione o falsa applicazione dell’art. 2 co. 3 D.lgs. n. 66/2003, nonché la violazione del principio di retroattività della disciplina più favorevole (cd. principio della lex mitior ), applicabile anche alle sanzioni amministrative ‘che abbiano finalità punitiva’, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’ar t. 360 co. 1 n. 5 cpc.
Con il terzo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in tema di ripartizione dell’onere della prova, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la sentenza impugnata erroneamente posto a carico di essi ricorre nti l’onere di provare il carattere discontinuo e frazionato, ai sensi dell’art. 9 co. 2 del D.lgs. n. 66/2003, dell’attività svolta dai lavoratori indicati nel verbale ispettivo:
Con il quarto motivo, in subordine rispetto ai motivi precedenti, si obietta la violazione o falsa applicazione
dell’art. 8 co. 1 della legge n. 689/1981, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la sentenza impugnata ritenuto applicabile al caso di specie il regime del cumulo giuridico ai fini della quantificazione della sanzione.
Il primo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.
Premesso che la censura difetta di specificità sul momento preciso in cui si è verificata la cancellazione della incorporata dal Registro delle Imprese, asseritamente fatta coincidere con la fusione per incorporazione, la statuizione della Corte territoriale, circa la validità della notifica alla società fusa per incorporazione anche per la incorporante, in punto di diritto è in linea con i precedenti di questa Corte secondo cui, a seguito della nuova formulazione dell’art. 2504 bis cod. civ., introdotta per effetto del d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2004), in base al cui primo comma la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali anteriori alla fusione, la fusione configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico (allo stesso modo di quanto avviene con la trasformazione), senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo, con la conseguenza che essa, implicando ora anche la continuità nei rapporti processuali, non comporta più, a norma degli artt. 110, 299 e 300 cod. proc. civ., interruzione del processo in cui sia parte una società partecipante, per l’appunto, ad una fusione (Cass. n. 14526/2006); inoltre, è stato precisato che, ai sensi del nuovo art. 2505-bis cod. civ., conseguente alla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6),
la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo (Cass. Sez. Un. ord. n. 2637/2006).
In ogni caso, però, osserva il Collegio che la censura si rivela inammissibile perché deve rilevarsi il passaggio in giudicato della statuizione del giudice di primo grado (come si evince dalla storico della sentenza di appello), il quale ha ritenuto che la invalidità della notifica doveva comunque intendersi sanata per raggiungimento dello scopo stante la tempestiva opposizione proposta dalla società incorporante: ciò era possibile perché si verteva in una chiara ipotesi di nullità della notifica e non di sua inesistenza.
L’assunto del Tribunale non è stato oggetto di appello né di ricorso per cassazione per cui, essendo divenuto definitivo, si è formato un giudicato interno, risultante dagli atti e rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità (Cass. n. 12754/2022; Cass. n. 22306/2024).
Il secondo motivo non è meritevole di accoglimento.
Effettivamente la statuizione della Corte di appello, che ha affermato semplicemente che, in materia di illecito amministrativo, trova applicazione il principio del tempus regit actum , richiamando la pronuncia della Corte Costituzionale n. 501/2012, non è conforme ai principi statuiti dalla stessa Corte Costituzionale, con la successiva sentenza n. 63/2019 -e a quelli delineati dalla
giurisprudenza europea (Corte EDU 8 giugno 1976, Engel, sia alla stregua del diritto UE (CGUE 5 giugno 2012, in causa C-489/10, Bonda, 37)che ha osservato che ‘l’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abb ia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare (…) tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di contro-interessi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale’.
In applicazione dei suddetti principi, in materia di illecito amministrativo, gli elementi rilevanti sul piano costituzionale per valutare la legittimità del principio di retroattività della legge più favorevole sono stati individuati nella assenza di una norma transitoria e nella natura sostanzialmente penale o elevatamente afflittiva della disposizione applicata, da valutare secondo i criteri cd. ‘Engel’ (Cass. 13701/2024).
E’ opportuno ricordare che i suddetti criteri consistono il primo nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito, e il terzo nella natura e nel grado di severità della sanzione in cui
l’interessato rischia di incorrere (v., in particolare, CEDU, sentenze Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, §§ 80-82, nonché Zolotoukhine c. Russia del 10 febbraio 2009, §§ 52 e 53).
La premessa svolta è necessaria perché, per invocare il principio della retroattività della legge più favorevole in materia di illecito amministrativo, occorre anche che vi sia stata una specifica allegazione, da parte dell’istante, sulla sussistenza dei presupposti come sopra richiamati.
In altri termini, non si può invocare l’applicazione della legge successiva più favorevole se non si deduca perché la disposizione applicata, in virtù del principio del tempus regit actum previsto dalla legge n. 689/1981, debba ritenersi di natura penale o estremamente afflittiva alla luce dei criteri cd. ‘Engel’.
Nella fattispecie, invece, nella articolazione del motivo del ricorso per cassazione il ricorrente non ha specificato il ‘dove’, il ‘come’ ed il ‘quando’ la questione sulla retroattività della legge successiva più favorevole sia stata sottoposta ai giudici del merito, in particolare nel giudizio di appello come espressa censura, nello stesso modo in cui, invece, è stata poi prospettata nel presente gravame.
In assenza di una specifica sollecitazione su tale problematica, non può, quindi, invocarsi l’omessa valutazione della Corte territoriale circa la natura punitiva o meno della sanzione o la assenza di una norma transitoria, trattandosi di questioni che andavano allegate e sviluppate con la doglianza in appello in modo da consentire alla Corte di secondo grado una valutazione espressa sul punto.
Ne consegue che la censura di cui al motivo scrutinato non può essere accolta per tale profilo di natura processuale.
Il terzo motivo non è fondato.
La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 19064/2006; Cass. n. 17313/2020).
Nella fattispecie in esame, la Corte territoriale non ha onerato gli odierni ricorrenti di dimostrare il carattere discontinuo e frazionato dell’attività svolta dai lavoratori indicati nel verbale ispettivo, ma attraverso un esame della attività da questi espletata, per sua stessa natura caratterizzata da continua e vigile attenzione, ha escluso l’applicabilità della deroga di cui all’art. 9 co. 2 lett. b del D.lgs. n. 66/2003.
Si è trattato, in sostanza, di un accertamento di fatto, sufficientemente motivato e, pertanto, insindacabile in questa sede, senza che ciò costituisca una violazione della norma denunciata in tema di riparto di onere della prova.
Il quarto motivo, infine, è anche esso infondato.
La Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di legittimità (Cass. n. 12659/2019) in virtù del quale, in tema di sanzioni amministrative per plurime violazioni in materia di orario di lavoro, commesse con più azioni od omissioni, opera il criterio del cd. cumulo materiale, atteso che la disciplina dell’art. 8 della l. n. 689 del 1981 contempla il criterio del cd. cumulo giuridico soltanto in
materia di previdenza e assistenza e che la differenza morfologica e soggettiva tra illecito penale e illecito amministrativo non consente di applicare analogicamente l’art. 81 c.p.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2025