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Risoluzione del contratto: non basta un piccolo errore

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12842/2024, ha stabilito che non si può chiedere la risoluzione del contratto se l’inadempimento della controparte è di scarsa importanza. Nel caso specifico, un acquirente aveva versato un saldo leggermente inferiore al dovuto per un errore di calcolo sulle imposte. I giudici hanno respinto la richiesta di risoluzione del contratto avanzata dal venditore, evidenziando come quest’ultimo avesse agito contro la buona fede, intentando subito una causa invece di chiedere l’integrazione del pagamento.

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Risoluzione del Contratto: la Buona Fede batte l’Inadempimento di Scarsa Importanza

La risoluzione del contratto per inadempimento è uno strumento cruciale a tutela della parte che subisce la mancata esecuzione di una prestazione. Tuttavia, non ogni mancanza giustifica una misura così drastica. La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 12842 del 10 maggio 2024 ribadisce un principio fondamentale: per sciogliere un vincolo contrattuale, l’inadempimento deve essere di “non scarsa importanza”, e la valutazione di tale gravità va condotta alla luce del principio di buona fede. Vediamo nel dettaglio la vicenda e le conclusioni dei giudici.

Il Caso: un’Offerta di Pagamento Incompleta dopo una Sentenza

La controversia nasce dall’esecuzione di una sentenza, emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c., che aveva disposto il trasferimento di alcuni immobili in adempimento di un contratto preliminare di vendita. Gli eredi dell’acquirente, per completare il trasferimento, dovevano versare il saldo del prezzo agli eredi della venditrice.

Nel calcolare l’importo da versare, gli acquirenti avevano detratto, oltre alle spese processuali a loro favore, anche una somma relativa a imposte che ritenevano a carico della controparte. L’erede della venditrice, ricevuta un’offerta di pagamento che riteneva incompleta, invece di contestare l’importo e chiedere l’integrazione, ha agito direttamente in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto generato dalla sentenza, la restituzione degli immobili e il risarcimento dei danni.

Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto la domanda di risoluzione, pur riconoscendo che l’offerta di pagamento non era esatta. Secondo i giudici di merito, l’inadempimento degli acquirenti non era sufficientemente grave da giustificare lo scioglimento del rapporto, anche in considerazione del comportamento della creditrice, ritenuto contrario a buona fede.

La Decisione della Cassazione e la valutazione della risoluzione del contratto

La Suprema Corte ha confermato le decisioni dei gradi precedenti, rigettando il ricorso della venditrice. Gli Ermellini hanno colto l’occasione per riaffermare i criteri che devono guidare il giudice nella valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione del contratto.

Il punto centrale della decisione è l’articolo 1455 del Codice Civile, il quale stabilisce che “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”. Questo significa che non basta un qualsiasi errore o una minima mancanza per cancellare gli effetti di un contratto. Occorre una valutazione complessiva che tenga conto di parametri oggettivi e soggettivi.

Le motivazioni: la buona fede prevale sulla gravità dell’inadempimento

La Corte di Cassazione ha spiegato che la valutazione della gravità non deve basarsi solo sull’entità del danno economico (che potrebbe anche mancare), ma sulla rilevanza della violazione rispetto alla volontà delle parti e alla finalità del rapporto. In questo quadro, il principio di buona fede e correttezza, sancito dall’art. 1375 c.c., assume un ruolo centrale.

Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto che:

1. L’errore degli acquirenti era giustificabile: La differenza tra la somma offerta e quella dovuta (nell’ordine di circa 1/5) derivava da un’interpretazione errata ma non pretestuosa delle norme sulle spese e sulle imposte, non da una volontà di sottrarsi al pagamento.
2. Il comportamento della creditrice era contrario a buona fede: La venditrice avrebbe dovuto, in un’ottica di cooperazione, segnalare l’errore e richiedere il pagamento della differenza. Scegliendo invece di avviare immediatamente una causa per la risoluzione, ha dimostrato non tanto l’intenzione di ottenere il giusto prezzo, quanto quella di sottrarsi agli effetti di una sentenza ormai definitiva, abusando del proprio diritto.

In sostanza, la Corte ha affermato che un creditore non può sfruttare un inadempimento di lieve entità e facilmente rimediabile per liberarsi da un contratto, specialmente quando avrebbe potuto realizzare il proprio interesse con mezzi meno drastici, come una semplice richiesta di adempimento completo.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame offre un importante insegnamento pratico. La risoluzione del contratto è un rimedio estremo, da invocare solo di fronte a violazioni significative che compromettono l’interesse del creditore alla prestazione. Il principio di buona fede impone a entrambe le parti un dovere di cooperazione che si estende anche alla fase esecutiva del contratto. Agire immediatamente per la risoluzione di fronte a un errore sanabile della controparte può essere qualificato come un comportamento sleale e un abuso del diritto, destinato a soccombere in sede giudiziaria. Prima di intraprendere la via più drastica, è sempre consigliabile ricercare una soluzione che permetta la conservazione del contratto, tutelando l’affidamento che le parti hanno riposto nel vincolo negoziale.

Un inadempimento parziale giustifica sempre la risoluzione del contratto?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il contratto non può essere risolto se l’inadempimento ha scarsa importanza, valutata in relazione all’interesse della parte che lo subisce. Un errore di calcolo nel pagamento, facilmente rimediabile, non è considerato un inadempimento grave.

Qual è il ruolo della buona fede nella valutazione dell’inadempimento?
La buona fede è un criterio fondamentale. Il giudice deve valutare il comportamento di entrambe le parti. Se la parte che subisce l’inadempimento agisce in modo sleale, ad esempio chiedendo la risoluzione senza prima aver richiesto la correzione di un piccolo errore, questo comportamento incide sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso e può portare al rigetto della domanda di risoluzione.

Cosa avrebbe dovuto fare il creditore in questo caso?
Invece di avviare una causa per la risoluzione del contratto, il creditore, agendo secondo buona fede, avrebbe dovuto contestare l’importo offerto e chiedere al debitore di integrare il pagamento con la somma mancante. La scelta di agire direttamente per la risoluzione è stata considerata un abuso del diritto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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