Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8178 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8178 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 30879 -2018 proposto da:
NOME, nella qualità di titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in Como, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO dal quale è rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, quale titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dal l’AVV_NOTAIO, giusta procura allegata al controricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3490/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 18/7/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/10/2023 dal consigliere COGNOME; lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato in data 14/9/2010, NOME COGNOME, quale titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Como, NOME COGNOME, titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, proponendo opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1007/10, da quest’ultimo ottenuto nei suoi confronti per l’importo di euro 67.000,00 oltre interessi e spese, a titolo di saldo del prezzo di vendita, pattuito in complessivi euro 72.000,00, di una complessa giostra mungitrice di latte di ovini.
In particolare, COGNOME lamentò che l’impianto fosse stato consegnato in ritardo, non completo e privo dei manuali di uso e manutenzione, affetto da vizi di funzionamento tali mettere a repentaglio l’integrità fisica degli animali durante la mungitura e la sicurezza sul lavoro degli addetti alla mungitura, privo delle promesse qualità contrattuali sulle potenzialità di mungitura; rappresentò anche l’inadempimento del venditore all’obbligo di assistenza, nonostante le sue numerose richieste di intervento, prima nel marzo, poi, nel luglio e fino a metà agosto 2010, sicché era stato costretto a chiedere ad una società terza operante nel settore della sicurezza, delle certificazioni e della marcatura CE una relazione (elaborata il 13 agosto 2010) sulla conformità dell’impianto alle norme di sicurezza e benessere degli animali; era stata, così, accertata la mancanza di sicurezza dell’impianto e la non conformità ai principi di integrazione della sicurezza -Res 1.1.2; chiese, pertanto, la revoca del decreto ingiuntivo
opposto e, in riconvenzionale, la dichiarazione di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento di NOME, con condanna conseguenziale alla restituzione della somma di complessivi Euro 37.656,86 (di cui Euro 5.000,00 versatagli a titolo di acconto e caparra confirmatoria ed Euro 32.565,86 corrispostagli in sede di esecuzione coattiva), e al risarcimento del danno, quantificandolo in euro 88.632,00 (E.83.632 secondo il ricorrente, n.d.r.); in subordine, chiese fosse accertata la mancanza delle qualità promesse ed essenziali del bene per l’uso cui era destinato e dichiarata la risoluzione del contratto ex art. 1497 cod. civ. o, in ulteriore subordine, di dichiarare la nullità del contratto ex art. 1346 e 1418 cod. civ. perché il bene non poteva essere né messo in circolazione né venduto anche ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 17/2010, con conseguente condanna del venditore, in ogni caso, alla restituzione delle somme suindicate.
1.1. NOME COGNOME contestò che ci fosse stato ritardo nella consegna perché l’art. 3 del contratto non prevedeva alcun termine essenziale e oppose l’intervenuta accettazione del bene a seguito di collaudo, ex art. 5 del contratto, nonché, ex art. 6, l’esclusione della garanzia per le parti elettriche e i componenti non costruiti direttamente dal venditore; sostenne che la garanzia di buon funzionamento coprisse soltanto la sostituzione dei pezzi riconosciuti dal venditore come difettosi e riconsegnati dal l’acquirente a proprie spese; infine, eccepì, ex art. 7 del contratto, la pattuizione di esonero da ogni risarcimento per mancato guadagno e della clausola solve et repete , rappresentando che tutte le clausole erano state specificamente approvate ex art. 1341 e 1342 cod. civ..
Espletata c.t.u., con sentenza n. 638/15, il Tribunale di Como revocò il decreto ingiuntivo e accolse la domanda di riduzione del prezzo per vizi della cosa venduta, stabilendo il debito residuo di COGNOME,
in considerazione delle somme già percepite dal venditore e della diminuzione del valore del bene, in Euro 5.934,14.
2.1. In particolare, come riportato nella sentenza della Corte d’appello qui impugnata, il Tribunale, pur «premessa la nullità delle conclusioni dell’opponente rese solo in sede di pc nullità delle clausole 3, 5, 6 e 7 del contratto di vendita», osservò che la parte opponente ben poteva agire, ex art. 1492 cod. civ., per la risoluzione del contratto senza porre alcuna pretesa fondata sulla garanzia di buon funzionamento prevista dall’art. 1512 cod. civ. , perché quest’ultima costituisce una tutela del compratore ulteriore rispetto alla garanzia per i vizi e alla responsabilità per mancanza di qualità che opera anche nel silenzio dei contraenti; rimarcò che le clausole n. 3, 5. 6 e 7 del contratto, opposte dal venditore, in quanto dirette sostanzialmente alla paralisi delle eccezioni di inadempimento e di insolvenza, isolavano le prestazioni dei contraenti e alteravano in conseguenza il nesso sinallagmatico, sì da poter risultare abusive in concreto e affermò, pertanto, che, in conformità a giurisprudenza consolidata di legittimità, dovessero essere necessariamente interpretate come idonee «soltanto a sospendere l’eccezione di inesatto adempimento e non anche quella di inadempimento integrale». Escluse, quindi, la decadenza e la prescrizione dalla garanzia, perché risultava una valida e tempestiva denuncia dei vizi e affermò la proponibilità dell’ actio quanti minoris , in via subordinata alla principale domanda di risoluzione, nell’ipotesi in cui la cosa venduta non sia più, per eventi sopravvenuti, nella disponibilità restitutoria; disattese, sulla base della valutazione espressa dal c.t.u., le doglianze relative al ritardo nella consegna e nel collaudo perché scusabile e determinò, infine, in Euro 43.500 la somma effettivamente dovuta al COGNOME a titolo di prezzo, operando poi le sottrazioni di quanto già percepito per stabilire il residuo ancora dovuto.
Con la sentenza n.3490/2018, qui impugnata, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento dell’appello principale di COGNOME, assorbito l’appello incidentale di NOME, sulla base dei risultati della espletata c.t.u., dichiarò risolto il contratto di compravendita per mancanza delle qualità promesse e di quelle essenziali all’uso della macchina; dispose la restituzione della giostra, con oneri di asportazione e trasporto a carico di NOME; condannò quest’ultimo alla restituzione del prezzo di Euro 72.000 oltre interessi e al risarcimento del danno emergente, liquidandolo nelle spese sostenute per realizzare gli scivoli di entrata e uscita delle capre dall’impianto e nelle spese della procedura esecutiva subita, oltre gli interessi legali.
3.1 Preliminarmente, la Corte milanese escluse l’operatività delle clausole n.3,5, 6 e 7, opposte nuovamente in comparsa di costituzione in appello da COGNOME, ex art. 346 cod. proc. civ.: sul punto, infatti, rilevò che il Tribunale ne aveva negato esplicitamente l’applicabilità alla fattispecie e che tuttavia NOME non aveva inteso appellare incidentalmente questa statuizione, pur avendone l’onere perché soccombente su questione.
In merito, la Corte territoriale ritenne che alla fattispecie dovesse essere applicato l’art. 1497 cod. civ. invocato dall’attrice appellante in via subordinata, affermando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la domanda di risoluzione per difetto delle qualità promesse della cosa ovvero essenziali per l’uso a cui è destinata deve essere ricondotta alla normativa dettata in via generale dall’art.1453 cod. civ.; rilevò, pertanto, che il venditore COGNOME non aveva provato, avendone l’onere, l’ assenza di sua colpa in ordine alle mancanze riscontrate nella macchina oggetto di causa e quindi dichiarò la risoluzione del contratto con ogni conseguenza restitutoria.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a dieci motivi. NOME COGNOME resiste con controricorso.
Sono pervenute memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., COGNOME ha prospettato la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 342 e 343 cod. proc. civ., per avere la Corte, in mancata applicazione dei principi della «teoria aformalistica della formulazione dei motivi» ritenuto che le sue deduzioni e conclusioni non fossero comunque idonee a sottoporre a riesame la questione della operatività delle clausole generali del contratto in materia di consegna, collaudo, garanzia, contestazioni e responsabilità del venditore, solve et repete : dal contesto del ricorso risulterebbe evidente che si chiedeva il riesame delle eccezioni, che erano richiamate nell’atto di impugnazione anche se non formalmente inserite nel capo dell’appello incidentale; ne sarebbe derivato l’omesso esame dei motivi dell’appello incidentale e, dunque, un vizio deducibile ex n. 4 cod. proc. civ. comma I art. 360 cod. proc. civ..
Con il secondo motivo, articolato in riferimento ai n. 3 e 4 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., il ricorrente ha prospettato la violazione degli artt. 333 e 343 cod. proc. civ. e la falsa applicazione dell’art. 346 cod. proc. civ.: la Corte d’ap pello, richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite in modo non pertinente, non avrebbe considerato che la necessità di appello incidentale non ricorreva perché egli aveva prestato acquiescenza all’accoglimento della domanda di riduzione del prezzo, laddove le condizioni generali di contratto erano state da lui opposte unicamente per paralizzare la domanda di risoluzione; egli aveva riproposto la questione in eccezione unicamente perché in appello principale era stata riproposta la domanda di
risoluzione; peraltro, sulla validità delle clausole si era formato il giudicato interno perché la dichiarazione di nullità pronunciata dal primo Giudice sulla domanda di nullità delle clausole non era stata oggetto di impugnazione.
2.1. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente per continuità di argomentazione e sono infondati.
Per principio ormai acclarato (Cass. S.U., n. 11799 del 12/05/2017 citata nella pronuncia impugnata), qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, cod. proc. civ. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, cod. proc. civ.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure; in tal caso, tuttavia, la mancanza di detta riproposizione non consente al Giudice d’ appello il riesame dell’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre non lo impedisce, ex art. 345, comma 2, cod. proc. civ., in caso di rilevabilità d’ufficio» (i l principio è stato ribadito anche in Cass. SU, n. 7940 del 21/3/2019). Ebbene, in motivazione, la Corte d’appello riporta che, inequivocabilmente ed esplicitamente, il Tribunale ha escluso l’op eratività delle clausole invocate da COGNOME per paralizzare la domanda di COGNOME (‘ squilibranti e atte ad alterare il nesso sinallagmatico ‘) sostenendo operasse la disciplina generale (pag. 7 e pag. 13 della sentenza), sicché COGNOME era tenuto a riproporre appello incidentale,
ancor più perché, come da lui stesso affermato, erano le condizioni generali di contratto, secondo la sua difesa, a paralizzare la domanda di risoluzione come riproposta in appello principale.
Quel che dunque rileva nella fattispecie è che il giudicato si è formato sulla inopponibilità delle clausole, perché il primo Giudice ha ritenuto la loro abusività in concreto e la conseguente applicabilità al rapporto contrattuale della disciplina generale prevista dal codice civile.
Per queste considerazioni è logicamente assorbito l’esame del terzo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., con cui COGNOME ha lamentato la violazione degli artt. 1362 e 1490 II comma cod. civ. per non avere la Corte provveduto comunque all’interpretazione della volontà del le parti, sebbene fosse passata in giudicato la dichiarazione di inammissibilità dell’eccezione avente ad oggetto la loro nullità, esaminando la domanda di risoluzione in riferimento alle pattuite clausole n.3, 5, 6 e 7.
Con il quarto motivo, articolato in riferimento al n. 4 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., il ricorrente ha prospettato la violazione degli obblighi del principio iura novit curia e dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello aderito alle risultanze d ella c.t.u. senza motivare autonomamente il proprio convincimento, non soltanto quanto alle conclusioni di carattere tecnico, ma anche quanto alle conseguenze giuridiche, quali quelle riguardanti l’interpretazione del contratto e la responsabilità contrattuale del venditore.
4.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Per principio consolidato, il giudice del merito, qualora aderisca al parere del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poiché l’accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo dell’elaborato, anche per relationem , implicare una compiuta
positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente ( ex plurimis , Cass. Sez. 1, n. 15147 del 11/06/2018; Sez. 5, n. 11917 del 06/05/2021).
Per il resto, la censura è inammissibile per difetto di specificità perché non risultano neppure riportati i passaggi della c.t.u. che conterrebbero le asserite valutazioni giuridiche non di competenza del tecnico incaricato, fondanti la decisione.
5. Con il quinto motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., COGNOME ha denunciato la violazione dell’art. 1362 cod. civ. per il mancato esame delle specifiche clausole, previste in contratto, aventi ad oggetto i termini di decadenza della denuncia dei vizi e di prescrizione della relativa azione dal momento della consegna del bene: la Corte d’appello, per accogliere la domanda di risoluzione del contratto ex art. 1497 cod. civ., avrebbe dovuto comunque controllare il rispetto dei termini di decadenza e prescrizione per la denuncia dei vizi e la proposizione della relativa azione.
5.1. Il motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi (pag. 13 della sentenza, III cpv): come detto, per l’operatività delle clausole limitative della garanzia, la decadenza e la prescrizione -il rispetto dei cui termini sono a presupposto anche della quanti minoris (Sez. 3, Sentenza n. 1874 del 14/06/1972) – sono state escluse dal Tribunale e sul punto non vi è stato appello incidentale.
Con il sesto motivo, il ricorrente ha lamentato, con un primo profilo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1362, 1455, 1498 cod. civ. e, con un secondo profilo, articolato in riferimento al n. 4, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in punto di qualificazione dell’azione ex art. 1497 cod. civ. e la violazione del divieto di domande nuove di cui all’art. 345 cod. proc. civ. : la Corte avrebbe sovrapposto gli elementi costitutivi allegati per la domanda di
risoluzione con quelli della domanda di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative sulla sicurezza dell’impianto, dovendo invece considerare soltanto i vizi denunciati in citazione; non avrebbe inoltre considerato, nell’affermare la mancanza di qualità essenziali, che in contratto la produttività dell’impianto era stata prevista per l’ipotesi di esercizio nelle condizioni di utilizzo e di manutenzione indicate nel manuale.
6.1 Il motivo è inammissibile. La Corte d’appello ha considerato esplicitamente i vizi descritti in opposizione, indicandone la collocazione topografica nell’atto di opposizione (pag. 18 penultimo cpv e ss): con la censura, pertanto, inammissibilmente NOME chiede una rivalutazione dei fatti, certamente preclusa in questa sede di legittimità.
A ciò deve aggiungersi che, per principio consolidato, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità ( ex plurimis , Cass. Sez. 1, n. 24155 del 13/10/2017; Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019).
Nel motivo, invece, è censurato l’apprezzamento del giudice di merito sulla sussistenza di elementi comprovanti l’inadempimento e la sua gravità nel quadro dell’economia contrattuale, con implicazione della risoluzione di questioni di fatto, laddove questo apprezzamento è insindacabile in Cassazione se immune da errori logici o giuridici.
Con il settimo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., il ricorrente ha lamentato la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1177, 1458, 1492 III comma, 1493, e 2697 cod. civ.: la Corte d’appello avrebbe richiamato erroneamente i principi che regolano la preclusione della restitutio in integrum e avrebbe dovuto applicare i principi desumibili dagli artt. 1458 e 1177 cod. civ. che impongono di accertare la situazione al momento della pronuncia della domanda risolutoria, per verificare la possibilità delle restituzioni in natura; l’acquirente che chiede la risoluzione della vendita e le reciproche restituzioni è costituito custode del bene e dal momento che ha perso la disponibilità giuridica avrebbe dovuto dimostrare -ma COGNOME non lo avrebbe fatto -che il bene esiste ancora presso locali di terzi e che avrebbe potuto essere restituito; in applicazione dell’art. 1492 comma III, la Corte avrebbe dovuto prendere atto che era accoglibile soltanto la domanda di riduzione del prezzo perché la perdita del possesso del bene era equiparabile al suo perimento.
7.1. Con l’ottavo motivo (proposto in subordine al settimo), articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., COGNOME ha prospettato la violazione degli artt. 1206, 1207, 1209, 1216, 1458 e 2037 II comma cod. civ., per avere la Corte territoriale erroneamente disposto soltanto la restituzione in natura della macchina, ormai invece preclusa, senza considerare la necessità dell’intera restitutio in integrum ; in conseguenza, egli riceverebbe un bene privo di qualsiasi valore, da cui però NOME avrebbe in precedenza tratto rilevanti utilità economiche conseguite grazie all’uso; la Corte d’appello sarebbe caduta in contraddizione in quanto avrebbe affermato che NOME non aveva dimostrato di aver messo in mora il debitore, ma ciononostante non avrebbe posto a suo carico la responsabilità del deperimento e deprezzamento della macchina, in violazione dell’obbligo di custodia ex art 1177 cod. civ.
I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente per continuità di argomentazione, sono inammissibili perché non si confrontano con la motivazione in fatto resa dalla Corte d’appello sull’esistenza della macchina sul fondo, riscontrata perfino dal c .t.u., nel locale mungitura, tant’è che questo locale risultava non consegnato all’ente proprietario (pag. 16 della sentenza).
Con il nono motivo, il ricorrente ha denunciato, con un primo profilo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1494 cod. civ. e, con un secondo profilo, articolato in riferimento al n. 4, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere la Corte d’appello liquidato i danni in difetto di domanda, ultra petita , condannandolo al pagamento di una somma non indicata negli atti né richiesta dalla controparte; COGNOME avrebbe infatti chiesto soltanto il risarcimento dei danni ex art. 1494 cod. civ. e cioè il mancato guadagno conseguente alla asserita minor produttività della macchina mungitrice.
9.1. Il motivo è infondato: come risulta dalla sentenza impugnata (conclusioni a pag.2, ultimo cpv; pag. 28 e 29 par. X) e come riportato dallo stesso controricorrente che ha prodotto l’atto di appello, erano stati chiesti sin dal primo grado -con domanda reiterata in appello tutti i danni conseguenti all’inadempimento dedotto (‘ danni tutti patiti ‘) , da quantificarsi a mezzo di c.t.u.
Con il decimo motivo, articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., COGNOME ha prospettato la violazione dell’art. 1493 cod. civ. per errore di calcolo nella determinazione del prezzo da restituire: la Corte d’appello avrebbe errato a condannarlo alla restituzione dell’intero prezzo pattuito e non soltanto dell’importo effettivamente ricevuto.
10.1. Questo motivo -la cui doglianza era stata oggetto di appello incidentale -è invece fondato.
È stata pronunciata condanna alla restituzione di Euro 72.000, a prescindere dalle spese di esecuzione e per la RAGIONE_SOCIALEe delle rampe, oggetto della condanna separata risarcitoria. La Stessa Corte, tuttavia, riferisce che in esecuzione coattiva COGNOME ha percepito Euro 24.438,48 cui devono aggiungersi le somme trattenute a titolo di acconto e caparra, pari ad Euro 5.000,00 per complessivi Euro 29.438,48 (le spese dell’esecuzione , quantificate in Euro 8.127,38, sono state oggetto di restituzione a COGNOME a titolo di risarcimento dei danni conseguenti).
Pertanto, in accoglimento della censura, la sentenza impugnata deve essere cassata relativamente alla statuizione sub 3 del dispositivo.
Non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa in merito, ex art. 384 cod. proc. civ., con condanna del ricorrente COGNOME alla restituzione della minor somma di Euro 29.438,48, a titolo di prezzo incassato da restituire, oltre interessi legali come già calcolati.
In considerazione dell’esito globale del giudizio , che vede comunque ridurre il debito di restituzione del prezzo di oltre 42.000,00 euro, appare conforme a giustizia la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il decimo motivo di ricorso, dichiara assorbito il terzo e rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna COGNOME NOME al pagamento, in favore di COGNOME NOME, della somma di Euro 29.438,48, oltre interessi dalla ricezione al saldo;
compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte suprema di Cassazione del 25 ottobre 2023.
Il Presidente NOME COGNOME