Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18804 Anno 2024
ORDINANZA
sul ricorso N. 25025/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e dife sa dall’avv. NOME COGNOME come da procura in calce al ricorso, domicilio digitale EMAIL
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME come da procura in calce al controricorso, domicilio digitale EMAIL
– controricorrenti –
avverso la sentenza del la Corte d’appello di Milano, n. 1889/2021, depositata il 24.6.2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10.4.2024 dal Consigliere relatore dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME – comproprietaria con il fratello NOME di un immobile sito in Vernate (MI), Località INDIRIZZO, concesso in locazione ad uso commerciale -in data 20.7.2018 intimò sfratto per morosità alla conduttrice RAGIONE_SOCIALE, che non aveva adempiuto l’obbligazione di pagamento dei canoni dal gennaio 2018. Il contratto di locazione era stato stipulato nel 2009 tra la proprietà e la società RAGIONE_SOCIALE, cui era subentrata in data 14.01.2015 la RAGIONE_SOCIALE La società conduttrice propose opposizione all’in timato sfratto e il Tribunale di Pavia emise, in data 3.12.2018, ordinanza provvisoria di rilascio, con riserva delle eccezioni. Mutato il rito e depositate le memorie integrative, la RAGIONE_SOCIALE propose frattanto autonoma azione nei confronti di NOME e NOME COGNOME per ottenere la declaratoria di riduzione dei canoni pattuiti, stanti i numerosi vizi che a suo dire inficiavano la cosa locata, rendendola del tutto inidonea all’uso. Riunite le rispettive cause, iscritte al N. 6631/2018 e N. 2146/2019 R.G., il Tribunale di Pavia, con sentenza n. 741/2020 del 13.718.12.2020 , rigettò l’opposizione, confermando l’ordinanza di rilascio e dichiarando la risoluzione del contratto di locazione a far data dall’inizio dell’inadempimento ; condannò quindi la conduttrice al pagamento dei canoni per l’importo di € 106.257,90 oltre accessori in favore di NOME COGNOME e rigettò
le altre domande proposte dalla stessa conduttrice, pure condannandola alla rifusione delle spese di lite in favore della sola NOME COGNOME. La Triangolo propose dunque gravame in via principale, onde ottenere il rigetto delle avverse domande e l’accoglimento delle proprie, in relazione ad entrambi i giudizi riuniti; NOME e NOME COGNOME, costituitisi, contestarono le ragioni dell’appello, proponendo anche gravame incidentale, per non aver il primo giudice liquidato le spese per la causa iscritta al N. 2146/2019 R.G., e dunque anche in favore di esso NOME COGNOME. L a Corte d’appello di Milano , con sentenza n. 1889/2021 del 24.6.2021, rigettò l’appello principale e dichiarò inammissibile, perché tardivo, l’incidentale, confermando integralmente la sentenza di primo grado. Osservò in particolare il giudice d’appello che, stante l’inadempimento della società all’obbligo di pagamento dei canoni a far data dal gennaio 2018 e il richiamo alla clausola risolutiva espressa operato da NOME COGNOME n ell’intimazione di sfratto, il contratto inter partes s’era risolto sin dalla predetta epoca, come accertato dal Tribunale; che, pertanto, la domanda di riduzione dei canoni, proposta in seno al giudizio iscritto al N. 2146/2019 R.G., non poteva che intendersi avanzata pro futuro , donde la sua inammissibilità, tanto non potendo incidere su un contratto già precedentemente risoltosi; che nessuna ultrapetizione era configurabile circa l’estensione temporale della domanda di condanna avanzata da NOME COGNOME con nota del 5.6.2020, giacché il Tribunale aveva sostanzialmente autorizzato le parti in tal senso con provvedimento del 6.5.2020; che la conferma dell’ordinanza di rilascio antecedentemente emessa, contenuta nel dispositivo, doveva intendersi come
implicita condanna al rilascio operata all’esito del giudizio di merito; che analoga pronuncia implicita era ravvisabile anche in ordine alla declaratoria di risoluzione del contratto , stante il ‘combinato disposto’ della conferma dell’ordinanza di rilascio a suo tempo emessa e l’accertamento dell’inadempimento, contenuto nel dispositivo.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione la RAGIONE_SOCIALE sulla base di quattro motivi, cui resistono con controricorso NOME e NOME COGNOME che hanno pure depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 -Con il primo motivo , ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si denuncia la nullità della sentenza per violazione del combinato disposto degli artt. 156, 161 e 429 c.p.c., stante la divergenza tra il dispositivo letto in udienza dal Tribunale di Pavia e quello posto in calce alla sentenza poi pubblicata. Si deduce, in particolare, che in quest’ultimo risulta aggiunta la declaratoria di risoluzione del contratto di locazione a far data dal gennaio 2018; declaratoria del tutto assente nel dispositivo letto all’udienza del 13 .7.2020. In tal guisa, il primo giudice ha accolto una domanda (quella di declaratoria della risoluzione del contratto di locazione) che comporta il venir meno di un contratto, che tuttavia, in assenza di detta declaratoria, sarebbe ancora ad oggi valido ed efficace tra le parti. Di quanto precede la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto, incorrendo nella violazione delle norme rubricate e utilizzando concetti impropri, quale il ‘combinato disposto’ di provvedimenti del giudice e la ‘implicitamente insita’ declaratoria di risoluzione del contratto .
1.2 -Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si denuncia la nullità della sentenza per violazione degli art. 660, 665 e 667 c.p.c. La ricorrente aveva lamentato, con l’appello, che l a conferma in sentenza dell’ordinanza di rilascio provvisoriamente esecutiva, senza che contestualmente fosse stata pronunciata una specifica condanna del conduttore all’immediato rilascio dell’immobile locato, rende va la sentenza stessa ineseguibile, mancando uno specifico precetto di carattere decisorio che potesse assumere efficacia definitiva. Sul punto, la Corte d’appello ha ancora una volta risolto impropriamente la questione, ricorrendo al concetto di ‘pronuncia implicita’.
1.3 Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si denuncia la v iolazione dell’art. 112 c .p.c. per non corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, quanto alla richiesta avversaria di condanna al pagamento dei canoni, nonché violazione dell’art. 420 c .p.c. con conseguente inammissibilità della domanda svolta da controparte in punto quantum debeatur solo all’atto della precisazione delle conclusioni nella causa di opposizione all’intimato sfratto , in assenza di formale istanza e conseguente specifica autorizzazione del giudice. La ricorrente nega, anzitutto, che il provvedimento del Tribunale del 6.5.2020 autorizzasse le parti ad estendere o ampliare le domande, che dunque dovevano rimanere cristallizzate al contenuto della memoria integrativa ex art. 426 c.p.c., con cui la COGNOME aveva quantificato il proprio credito per canoni in € 27.573,32 al netto degli acconti ricevuti, oltre interessi. Inoltre, osserva che la Corte lombarda non ha nulla osservato circa l’operato del gi udice di primo grado, che , nell’inerzia della parte locatrice, ha operato in proprio i conteggi delle
somme pretese dalla locatrice, del tutto inammissibilmente, pronunziando quindi ultra petitum su una domanda peraltro inammissibile.
1.4 -Con il quarto motivo, infine, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si lamenta la v iolazione dell’art. 112 c .p.c. per non corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, in ordine alla declaratoria di risoluzione del contratto di locazione ex art. 1456 c.c. e quindi in forza della clausola risolutiva espressa di cui al paragrafo n. 7 del contratto di locazione, benché in assenza di conforme domanda della parte locatrice. Questa, infatti, sia con la memoria integrativa, nonché con i successivi atti e, infine, anche in sede di precisazione delle conclusioni, aveva chiesto accertarsi l’inadempimento imputato a RAGIONE_SOCIALE senz a mai far riferimento all’art. 1456 c.c., né al l’art. 7 del contratto di locazione, che appunto prevedeva la clausola risolutiva espressa.
2.1 -Il primo motivo non coglie nel segno e non può dunque trovare accoglimento.
Invero, il preteso contrasto fra dispositivo letto in udienza e dispositivo enunciato nella sentenza depositata è inesistente, come correttamente accertato dal giudice d’appello: l’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. ha natura di provvedimento sommario anticipatorio della fondatezza della domanda di risoluzione proposta con il procedimento speciale di convalida di sfratto per morosità (anche implicitamente: v. Cass. n. 8692/1995; Cass. n. 19525/2015); pertanto, essa è destinata ad evolversi nelle forme della cognizione piena a seguito dell’opposizione . Conseguentemente, è del tutto ovvio che la conferma dell’ordinanza di rilascio, contenuta sia nel dispositivo letto in udienza, sia nel
dispositivo presente nella sentenza, ancorché irrituale o impropria (dato che l’ordinanza resta di regola assorbita dalla pronuncia che, all’esito di quella cognizione, accoglie la domanda risolutoria), comporta necessariamente, sine dubio , tale accoglimento. Ne deriva che l’aggiunta nel dispositivo della sentenza pubblicata delle parole ‘ e per l’effetto dichiara risolto il contratto di locazione a far tempo ‘ risulta di valore meramente formale e non sostanziale rispetto al dictum desumibile dal dispositivo letto in udienza, sicché nessuna nullità della sentenza di primo grado, per tale ragione, può configurarsi, come correttamente ritenuto dalla Corte meneghina.
Chiarito, dunque, che in alcun modo il contratto inter partes , a seguito del rigetto dell’opposizione all’intimato sfratto, avrebbe potuto considerarsi ancora valido ed efficace ove il Tribunale non avesse operato la contestata aggiunta al dispositivo, come invece opinato dalla ricorrente, va pure osservato che la stessa doglianza qui proposta si rivela di per sé inammissibile. Infatti, ‘ È inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso in cassazione avverso la sentenza di appello che abbia omesso di dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, qualora il vizio di questa, ove esistente, non avrebbe comportato la rimessione della causa al primo giudice, in quanto estraneo alle ipotesi tassative degli artt. 353 e 354 c.p.c., ed il giudice di appello abbia deciso nel merito su tutte le questioni controverse, senza alcun pregiudizio per il ricorrente conseguente alla omessa dichiarazione di nullità ‘ (Cass. n. 28744/2023).
Pertanto, anche ad ipotizzare una effettiva diversità tra dispositivo letto in udienza e quello in calce alla sentenza pubblicata (il che, come detto, non è), la
nullità della prima decisione non avrebbe potuto comportare la rimessione al primo giudice, sicché la decisione della Corte d’appello sul merito della controversia ha preso luogo della sentenza appellata. Si vuole cioè dire che la ricorrente non può dolersi, in questa sede, della mera omessa declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, da parte del giudice d’appello, ma solo della (pretesa) erroneità della decisione sul merito, giacché ove anche detto vizio fosse stato sussistente -e ferma la sicura, benché implicita (v. supra ) proposizione della domanda di risoluzione del contratto da parte della COGNOME, donde la non configurabilità dell’ultrapetizione sul punto e la devoluzione dell’intera questione allo stesso giudice d’appello -la società conduttrice non avrebbe potuto trarre alcun giovamento dalla proposizione del gravame nel suddetto limitato senso.
3.1 -Il secondo motivo è infondato.
A ncorché la conferma dell’ordinanza di rilascio sia, come già detto, formalmente irrituale o impropria, il mezzo in esame è privo di fondamento perché la conferma stessa implica la condanna al rilascio della cosa locata, giustificata dalla declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento, che l’ordinanza di rilascio anticipa in via provvisoria e sommaria (v. supra , par. 2.1).
In altre parole, contrariamente all’assunto della ricorrente, il giudice del merito non ha inteso ammantare l’ordinanza provvisoria di rilascio di alcunché, ma ha evidentemente voluto (seppur in modo improprio) definitivamente condannare la Triangolo al rilascio del bene locato.
4.1 -Il terzo motivo è infondato, benché la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta, ai sensi dell’art. 384, ult. comma, c.p.c.
Parte ricorrente, nel riferire il motivo di appello circa l’inammissibile estensione della domanda ai canoni maturati dopo l’intimazione dello sfratto, operata dalla COGNOME, sostiene di aver ‘ debitamente contestato la modifica delle richieste avversarie in punto quantum debeatur, lamentandone la irritualità e la mancata specificazione dei conteggi ‘ con le note conclusionali del 16.6.2020.
A parte l’evidente profilo di inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. della doglianza, ciò non risponde al vero. Infatti, dalla lettura di dette note (all. 8 ric.te) – attività che comunque è senz’altro consentita a questa Corte, in quanto giudice del fatto processuale, venendo in rilievo un preteso error in procedendo (ad onta della proposizione della censura in esame sotto le insegne dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) -emerge incontestabilmente che, sul punto, la società si limitò a contest are ‘ recisamente (come del resto già fatto a verbale di udienza dell’11 luglio 2020) che la morosità pretestuosamente data per sussistente da controparte sia con la memoria del 05 giugno 2020, sia a verbale di udienza dell’11 giugno 2020, quantificata solo nella pretesa sommatoria di €.101.220,09=, senza indicazione di alcun dettaglio delle relative modalità di conteggio, effettivamente sussistente ‘, così indiscutibilmente accettando il contraddittorio al riguardo (come correttamente rilevato dai controricorrenti). Ne segue che, a parte ogni considerazione circa l’effettiva novità della domanda (il che potrebbe anche escludersi non solo sulla base di quanto consentiva l’art. 664 c.p.c., ma anche per il fatto stesso che ineriva a canoni maturati nel corso
del giudizio e, quindi, derivanti da morosità sopravvenuta, di cui le parti avevano tenuto conto nei rispettivi conteggi -v. ancora controricorso), l’odierna ricorrente ha di fatto rinunciato a far valere l’ipotetica violazione delle preclusioni che così si sarebbe verificata.
In ogni caso, detta ipotetica violazione, pur essendo rilevabile d’ufficio dal giudice, avrebbe dovuto rilevarsi dalla ricorrente fino all’ultimo momento utile entro il quale il potere officioso poteva esercitarsi e dunque fino all’udienza di discussione, all’esito della quale il giudice avrebbe p otuto esercitare il potere con la decisione definitivamente emessa.
Pertanto, pur in tale ipotesi, l’appello sul punto avrebbe dovuto essere dichiarato infondato per preclusione del rilievo della nullità, trovando applicazione il principio affermato da Cass. n. 21381/2018 (e seguito da molte altre pronunce, fra cui, a proposito delle preclusioni, ex multis , si veda Cass. n. 21529 del 2021), secondo cui ‘ La regola dettata dall’art. 157, comma 3, c.p.c., secondo cui la parte che ha determinato la nullità non può rilevarla, non opera quando si tratti di una nullità rilevabile anche d’ufficio, ma tale inoperatività è correlata alla durata del potere ufficioso del giudice, sicché una volta che quest’ultimo abbia deciso la causa omettendo di rilevare la nullità, la regola si riespande, con la conseguenza che la parte che vi ha dato causa con il suo comportamento, ed anche quella che, omettendo di rilevarla, abbia contribuito al permanere della stessa, non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza, a meno che si tratti di una nullità per cui la legge prevede il rilievo officioso ad iniziativa del giudice anche nel grado di giudizio successivo ‘ . Il che, all’evidenza, deve
escludersi con riguardo all’estensione quantitativa della domanda (tanto più che, come detto, sul punto la Triangolo ha senz’altro accettato il contraddittorio).
5.1 -Il quarto motivo è inammissibile.
Infatti, la Corte meneghina ha esplicitamente accertato che la clausola risolutiva espressa di cui all’art. 7 del contratto inter partes era stata invocata dalla locatrice fin dall’intimazione di sfratto.
Ora, l’intero mezzo in esame è incentrato sul presupposto che la COGNOME abbia ‘trasformato’ in corso di causa la causa petendi della domanda, dapprima (in tesi) avanzata nell’egida dell’art. 1455 c.c., e poi evolutasi in quella dell’art. 1456 c.c.
L’assunto, però, si scontra frontalmente con l’affermazione della Corte d’appello, prima riportata, che non risulta minimamente contestata dalla ricorrente. Da tanto discende, dunque, l’inammissibilità del mezzo per difetto di specificità.
6.1 In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
In relazione alla data di proposizione del ricorso principale (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
P. Q. M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite , che liquida in € 4.0 00,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno