Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 22193 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 22193 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4511/2024 proposto da: dall’avv.
NOME COGNOME rappresentata e difesa NOME COGNOME con domicilio digitale ex lege ;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv.ssa NOME COGNOME con domicilio digitale ex lege ;
– controricorrente –
e
NOME COGNOME
– intimato –
avverso la sentenza n. 147/2024 della CORTE D’APPELLO DI BRESCIA depositata il 14/2/2024;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/6/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
ritenuto che,
con sentenza resa in data 14/2/2024, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado ha rigettato la domanda proposta da NOME COGNOME per il riscatto dell’immobile (dalla stessa già condotto in locazione ad uso di abitazione) acquistato da NOME COGNOME a seguito della violazione, da parte della locatrice, NOME COGNOME del diritto di prelazione spettante alla conduttrice, in conseguenza dell’avvenuta comunicazione, dalla NOME alla COGNOME, della volontà di impedire la rinnovazione del contratto di locazione alla prima scadenza;
a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale, pur evidenziando l’avvenuta valida stipulazione, tra le parti contratto di locazione, di una clausola di prelazione in favore della conduttrice (diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado), ha in ogni caso rilevato come, dopo la comunicazione della disdetta da parte della locatrice, le parti avessero raggiunto un accordo di risoluzione consensuale del negozio prima della sua naturale scadenza, con il conseguente venir meno dei presupposti previsti dalla legge per il riconoscimento del diritto di prelazione della conduttrice, dovendo nella specie ricollegarsi, la cessazione del rapporto, non già all’impedita rinnovazione del contratto alla prima scadenza a seguito della disdetta della locatrice, bensì all’accordo di risoluzione consensuale concluso dalle parti;
avverso la sentenza d’appello, NOME COGNOME propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione;
NOME COGNOME resiste con controricorso;
NOME COGNOME non ha svolto difese in questa sede;
considerato che,
con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 3, co. 1, legge n. 431/1998 (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto compatibile la risoluzione consensuale del rapporto di locazione con la previa disdetta del contratto alla prima scadenza, atteso che, a seguito di tale disdetta, il rapporto doveva considerarsi definitivamente cessato e, come tale, insuscettibile d’essere successivamente risolto dai contraenti per mutuo consenso;
il motivo è infondato;
osserva il Collegio come, diversamente da quanto ritenuto dall’odierna ricorrente, attraverso la comunicazione della disdetta del contratto di locazione alla prima scadenza, la locatrice non determinò alcuna cessazione ipso iure del contratto di locazione, limitandosi bensì a impedirne la rinnovazione automatica a seguito della sua cessazione alla prima scadenza;
ciò posto, dunque, a seguito della richiamata disdetta, il contratto di locazione in esame rimase definitivamente vincolato alla prima scadenza originariamente individuata dalle parti;
ferma tale premessa, varrà sottolineare come, prima della scadenza così individuata, nulla avrebbe impedito (così come, in effetti, nulla impedì) alle parti di procedere alla consensuale risoluzione del contratto: ciò che puntualmente si verificò nel caso di specie (secondo la ricostruzione operata dal giudice d’appello), con la conseguente esclusione dei presupposti per il riconoscimento, in favore della conduttrice, della prelazione alla stessa spettante; e tanto, per essere il contratto di locazione venuto meno, non già in ragione dell’impedita rinnovazione automatica dello stesso a seguito della disdetta della locatrice (ciò che avrebbe in ipotesi legittimato l’esercizio del diritto di
prelazione da parte della conduttrice), bensì per l’intervenuta risoluzione consensuale voluta dai contraenti;
da tanto deriva l’infondatezza della censura in esame, avendo la Corte d’appello fatto corretta applicazione delle norme richiamate dalla ricorrente, non sussistendo alcuna ‘legale incompatibilità’ tra la disdetta comunicata dal locatore e la successiva risoluzione consensuale del contratto ad opera delle parti;
con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per falsa applicazione dell’art. 1372, co. 1, c.c. e per violazione dell’art. 1362 c.c. (in relazione all’articolo 360 numero tre c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente interpretato il contenuto della volontà contrattuale manifestata dalle parti a seguito della comunicazione della disdetta da parte del locatore, non avendo i contraenti mai inteso procedere ad alcuna risoluzione consensuale del contratto a seguito di tale disdetta;
il motivo è inammissibile;
osserva il Collegio come la corte territoriale abbia positivamente ritenuto, sulla base dell’interpretazione dei comportamenti e degli accordi intercorsi tra le parti, che queste ultime avessero consensualmente provveduto alla risoluzione del contratto di locazione prima della relativa scadenza;
a fronte di tale interpretazione dei comportamenti negoziali delle parti, l’odierna ricorrente si è limitata contrapporre la propria diversa lettura dei fatti di causa e delle volontà manifestate dai contraenti, omettendo, tuttavia, di articolare alcuna adeguata argomentazione in ordine all’eventuale violazione, da parte del giudice d’appello, dei canoni legali di ermeneutica negoziale, risolvendo la propria censura in una proposta di rilettura nel merito, sulla base di un’impostazione critica non consentita in sede di legittimità;
al riguardo, è appena il caso di rilevare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione degli atti negoziali deve ritenersi indefettibilmente riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente nei limiti consentiti dal testo dell ‘art. 360, n. 5, c.p.c., ovvero nei casi di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.;
in tale ultimo caso, peraltro, la violazione denunciata chiede d’essere necessariamente dedotta con la specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi altrimenti, la ricostruzione del contenuto della volontà delle parti, in una mera proposta reinterpretativa in dissenso rispetto all’interpretazione censurata; operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003, Rv. 568253);
nel caso di specie, l’odiern a ricorrente si è limitata ad affermare, in modo inammissibilmente apodittico, il preteso tradimento, da parte dei giudici di merito, della effettiva comune intenzione delle parti, orientando l’argomentazione critica rivolta nei confronti dell’interpretazione della corte territoriale, non già attraverso la prospettazione di un’obiettiva e inaccettabile contrarietà, a quello comune, del senso attribuito ai testi e ai comportamenti negoziali interpretati, o della macroscopica irrazionalità o intima contraddittorietà dell’interpretazione complessiva del negozio, bensì attraverso l’indicazione degli aspetti della ritenuta non condivisibilità della lettura interpretativa criticata, rispetto a quella ritenuta preferibile, in tal modo travalicando i limiti propri del vizio della violazione di legge ( ex art. 360, n. 3, c.p.c.) attraverso la sollecitazione della corte di legittimità alla rinnovazione di una non consentita valutazione di merito;
sul punto, è appena il caso di rilevare come la corte territoriale abbia proceduto alla lettura e all’interpretazione delle dichiarazioni e dei comportamenti negoziali esaminati nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore, non ricorrendo ad alcuna attribuzione di significati estranei al comune contenuto semantico delle parole, né spingendosi a una ricostruzione del significato complessivo degli atti negoziali in termini di palese irrazionalità o intima contraddittorietà, per tale via giungendo alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto a quanto interpretato, sì da sfuggire integralmente alle odierne censure avanzate dalla ricorrente in questa sede di legittimità;
sulla base di tali premesse, rilevata la complessiva infondatezza delle censure esaminate, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso; liquidano come da le spese seguono la soccombenza e si dispositivo;
si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 6.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione