Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17759 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17759 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14858/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
ANDORA RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in TORINO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME
-controricorrente-
nonchè
contro
SOCIETÀ RAGIONE_SOCIALE LIQUIDAZIONE
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO GENOVA n. 1129/2020 depositata il 20/11/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Ritenuto che:
Con sentenza nr 3611/2015 il Tribunale di Genova respingeva la domanda di risoluzione per inadempimento o di legittimo esercizio del potere di recesso in relazione al contratto di associazione in partecipazione proposta dalla società RAGIONE_SOCIALE nei confronti di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
Avverso tale pronuncia la società RAGIONE_SOCIALE proponeva gravame avanti la Corte di appello che lo respingeva.
Il Giudice del gravame osservava che l’appellante nel giudizio di primo grado aveva introdotto una azione di risoluzione contrattuale da inadempimento o, in difetto di legittimo esercizio del proprio potere di recesso fondato sempre su inadempimento dell’associante; che, diversamente in sede di appello, la società RAGIONE_SOCIALE aveva modificato la propria domanda chiedendo una pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità
sopravvenuta, a cui l’appellata si era opposta rilevando che l’affare non poteva considerarsi irrealizzabile.
Rilevava che tale modifica, se pur ammissibile qualora sia fondata sui medesimi fatti costitutivi, avrebbe dovuto avvenire all’interno delle preclusioni processuali risultando altrimenti inammissibile.
Riteneva, come rilevato dal Tribunale, che all’associata non era concesso esercitare il diritto di recesso in considerazione del fatto che si era di fronte ad un contratto a tempo determinato sicchè l’eventuale incapacità finanziaria dell’associante di portare a termine l’affare non avrebbe potuto comportare il diritto dell’associata a chiedere la risoluzione per impossibilità sopravvenuta né tanto meno la restituzione dell’importo versato, salvo la prova qui non offerta di una sua colpa nella determinazione del dissesto economico.
Osservava, sulla scorta delle risultanze di causa, che il rientro immediato del mutuo ipotecario concesso dalla Banca Carige era dovuto al fatto che gli enti preposti alle autorizzazioni amministrative per portare avanti il progetto di riconversione e ristrutturazione del complesso immobiliare non avevano trovato un punto di intesa, ragione per la quale non si era potuto concretizzare l’avanzamento dell’iter urbanistico volto all’ottenimento dei permessi a costruire, senza che fosse rinvenibile alcun addebito a carico della società associante.
Con riguardo al mancato invio della rendicontazione rilevava che tale adempimento, quantunque previsto dal contratto, non aveva formato oggetto di contestazione per circa 4 anni da parte dell’associata il che costituiva un indice significativo della scarsa importanza che tale adempimento rappresentava per l’appellante.
Affermava che la prima della diffida volta a contestare l’unica obbligazione in capo all’associante di invio della rendicontazione era stata inviata il 30.7.2012 dopo che le due banche, che avevano concesso il credito all’associante non avevano trovato un accordo per erogare un nuovo finanziamento.
Osservava poi che all’invio della rendicontazione la società appellante aveva svolto una contestazione generica dei conti, accentrando l’attenzione su altre mancate comunicazioni di carattere tecnico/ amministrativo di cui l’associante non era tenuta all’informazione, tenuto conto che l’affare era di quest’ultima e solo alla stessa spettavano il diritto e l’obbligo di gestione secondo lo schema del contratto di partecipazione.
Sottolineava poi che il contratto di associazione in partecipazione, che si qualifica per il carattere sinallagmatico fra l’attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota di utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all’altro (associato) e l’apporto da quest’ultimo conferito, non determinava la formazione di un soggetto nuovo e la costituzione di un patrimonio autonomo, né la comunanza dell’affare o dell’impresa, i quali restavano di esclusiva pertinenza dell’associante, sicché soltanto l’associante faceva propri gli utili e subiva le perdite, senza alcuna partecipazione diretta ed immediata dell’associato, che poteva unicamente pretendere, una volta che l’affare fosse concluso con esito positivo, la liquidazione ed il pagamento di una somma di denaro corrispondete all’apporto ed alla quota spettante degli utili.
Rilevava che la circostanza che l’affare fosse stato finanziato inizialmente attraverso il ricorso al credito bancario era d’altra parte previsto contrattualmente, ben potendo l’associante
corrispondere i fondi propri all’esito dell’operazione (in mancanza di previsione contrattuale sul punto), e poi anche l’associata aveva versato unicamente circa la metà di quanto dalla stessa dovuto.
In ogni caso evidenziava che prima RAGIONE_SOCIALE e poi Andora si erano accollate il pagamento del mutuo, concesso sugli immobili di loro esclusiva proprietà.
Anche in ordine al fatto che l’associante avesse provveduto ad acquistare i crediti per euro 500.000,00 sulla quota immobiliare acquistata per seconda (quella cioè intestata a NOME COGNOME) trovava comunque una sua giustificazione nel fatto che tali beni erano stati acquistati per euro 15.500.000,00, anziché per i previsti euro 16.000.000,00.
Escludeva infine che il ricorso al credito potesse configurarsi come una operazione fraudolenta tenuto conto che il contratto d’associazione prevedeva (art. 3) specificatamente l’imputazione di tutti i costi dall’eventuale ricavato della vendita al fine di ottenere l’utile dell’affare e che la stessa parte attrice/appellante aveva omesso di fornire in giudizio ogni prova al riguardo, ivi compresa la dimostrazione che l’operazione fosse fallita per motivi non riconducibili al mancato ottenimento dell’autorizzazioni urbanistiche, dovuto a divergenze tra gli enti preposti.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Considerato:
Con il primo motivo si denuncia la violazione di legge – erronea e/o falsa applicazione della legge con riferimento all’art. 2549 c.c., all’art. 1373 c.c., all’art. 1375 c.c., all’art. 1256 c.c., in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c. per avere la Corte di appello escluso il diritto di recesso trattandosi di un contratto a tempo determinato.
Si sostiene al riguardo che il contratto di associazione in partecipazione ancorché “aleatorio e a tempo determinato” non poteva (più) avere un termine, dato che: – le revoche degli affidamenti e la mancanza di risorse finanziarie impedivano alla società di proseguire e portare a temine l’unica operazione avviata dalla società, consistente nella ristrutturazione e vendita frazionata di un complesso immobiliare sito in Andora (SV); – le quote della Società RAGIONE_SOCIALE appartenenti, sia alla Società RAGIONE_SOCIALE, sia alla società RAGIONE_SOCIALE, erano state date in pegno alla (terza) Banca IFIS S.p.a; impedendo così, sia la possibilità della ristrutturazione e vendita frazionata di un complesso immobiliare sito in Andora (SV) e sia anche la vendita dei soli immobili senza ristrutturazione e quindi anche nell’ipotesi in cui la trasformazione urbanistica del complesso immobiliare risultasse non realizzabile.
Di qui la possibilità di applicare, alla fattispecie in esame, la disciplina del diritto di recesso regolamentato dall’ art. 1373 c.c., proprio per la sopravvenuta caducazione dei due presupposti erroneamente indicati dai Giudici distrettuali per la sua applicazione.
Si afferma che altresì alla fattispecie in esame, si sarebbe dovuto applicare la disciplina della risoluzione per inadempimento, che richiede una valutazione di gravità degli addebiti, da effettuarsi alla luce del complessivo comportamento delle parti, dell’economia generale del rapporto e del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto sancito dall’art. 1375 c.c., che, per l’associante, si traduce nel dovere di portare a compimento l’impresa o l’affare nel
termine ragionevolmente necessario. Alla pronuncia di risoluzione consegue, oltre all’effetto liberatorio per le prestazioni ancora da eseguire, anche quello restitutorio per quelle già eseguite, con obbligo, per l’associante, di restituire l’apporto ricevuto dall’associato, non essendo l’associazione in partecipazione riconducibile alla categoria dei contratti ad esecuzione continuata.
Ed infine si osserva che si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie in esame, anche l’ art. 1256 c.c., che avrebbe dovuto regolamentare la risoluzione per impossibilità sopravvenuta da parte dell’associante “RAGIONE_SOCIALE“, poi divenuta “RAGIONE_SOCIALE“, ora “in liquidazione”. giacchè la causa del contratto sarebbe divenuta irrealizzabile e/o impossibile, per una situazione di sopravvenuta impossibilità quant’anche non imputabile all’Associata.
Sotto quest’ultimo profilo si rileva che doveva considerarsi ammissibile una domanda diversa, ma fondata sui medesimi fatti costitutivi diversamente qualificati.
Con un secondo motivo si denuncia la violazione di legge – erronea e/o falsa applicazione della legge con riferimento, all’art. 2552 comma 3 c.c., all’art. 2553 c.c. e all’art. 2554 c.c. in violazione dell’art. 1373 c.c., e dell’art. 1375 c.c., con applicazione dell’art. 1453 c.c., e dell’art. 1454 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per non avere la Corte di appello applicato al contratto de quo le disposizioni di legge che disciplinano sia l’obbligo di rendiconto o, comunque, del rendiconto annuale e sia i criteri di fatto di partecipazione agli utili e soprattutto alle perdite .
Si sostiene che nella fattispecie, l’associante RAGIONE_SOCIALE non avrebbe rispettato l’obbligo di redigere un rendiconto; nè versato mezzi propri né effettuato nessun apporto
economico diretto all’Affare; determinando un gravissimo indebitamento bancario, con un finanziamento eccessivamente oneroso effettuato da un Istituto di Credito in “conflitto di interessi”; fraudolentemente addebitato all’associata RAGIONE_SOCIALE, interessi passivi, interessi attivi, commissioni “di factoring” e “management fee”.
Il primo motivo presenta al tempo stesso profili di inammissibilità e di infondatezza.
Quanto al primo la Corte di appello ha preliminarmente rilevato che l’appellante, rispetto alle richieste avanzate in primo grado, aveva modificato la domanda originaria chiedendo la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.
Tale modifica è stata ritenuta inammissibile in quanto formulata senza il rispetto del regime delle preclusioni richiamando sul punto la pronuncia di questa Corte 2018 nr 6866.
In essa era stato precisato che la domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in quanto impugnativa del contratto mirante alla risoluzione del rapporto negoziale, attiene alla medesima vicenda sostanziale cui inerisce la domanda di risoluzione per inadempimento e dunque può integrare una modifica consentita della domanda, purché la modifica avvenga nel rispetto del regime delle preclusioni processuali (art. 183 c.p.c.).
La diversità di domanda quanto alla risoluzione per inadempimento ed alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta non consente al giudice di pronunciare sulla domanda non proposta, pena la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, ma la parte, nel rispetto delle preclusioni processuali, può sostituire l’una domanda con l’altra.
Il giudice può dichiarare la risoluzione per impossibilità sopravvenuta in presenza di domanda di risoluzione per inadempimento, in mancanza della modifica della domanda nel termine previsto dall’art. 183, solo ove accerti che l’originario fatto costitutivo non era relativo alla contestazione di un’inadempienza, ma aveva ad oggetto l’impossibilità sopravvenuta non imputabile in senso proprio, sicchè si tratterebbe di mero esercizio del potere di qualificazione.
Nel caso di specie il giudice di merito ha rilevato che la domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta non era stata proposta, accertamento questo che non è stato impugnato dalla ricorrente la quale attribuisce al giudice il potere di pronunciare pur in mancanza del detto mutamento.
Correttamente, pertanto, il giudice di appello ha rilevato che, in mancanza della relativa domanda ed in presenza dell’originaria allegazione in termini di inadempimento e non di un’impossibilità sopravvenuta non imputabile, il giudice di primo grado non poteva pronunciare la risoluzione per impossibilità sopravvenuta.
Tale accertamento non è stato in alcun modo attinto dalla censura veicolata attraverso il mezzo in esame che non ha colto la ratio decidendi .
Il ricorrente si è limitato a sostenere che la risoluzione per inadempimento e la risoluzione per impossibilità sopravvenuta si fonderebbero sui medesimi fatti costitutivi prospettando una mera questione di diversa qualificazione giuridica.
La corte ha comunque escluso l’esercizio del diritto di recesso in ragione del fatto che il contratto era a tempo determinato (avendo termine con l’ultimazione dell’affare) rilevando pertanto l’assenza del presupposto posto a base dell’azione.
Si tratta di un accertamento in fatto che non può essere sindacato in questo giudizio di legittimità, tanto meno evocando il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con la conseguenza che le doglianze qui proposte si risolvono in una nuova richiesta di apprezzamento della quaestio facti, come tale inammissibile in questo giudizio di legittimità (così, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/1/2019).
Il secondo motivo è inammissibile.
Al riguardo va osservato che la Corte di appello ha accertato, come su detto, che la domanda di risoluzione per inadempimento è stata sostituita solo in sede di appello con quella per sopravvenuta impossibilità e che tale sostituzione non era ammissibile in quanto avvenuta dopo le preclusioni -, e tale accertamento non è stato impugnato.
In questo quadro tutte le censure dirette ad evidenziare violazioni contrattuali si palesano inammissibili.
Va comunque rilevato che in ogni caso la doglianza è volta a censurare il giudizio di fatto che non può essere più sindacato nel suo risvolto di apprezzamento del merito della decisione innanzi alla Corte di cassazione, tenuto conto che, avendo la sentenza d’appello confermato quella di primo grado, sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto, ex art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., è preclusa la deducibilità del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nella specie neppure dedotto.
La Corte di appello ha peraltro spiegato che la prospettata violazione dell’obbligo di rendicontazione non aveva assunto alcuna rilevanza in ragione dell’acquiescenza prestata dalla stessa associata.
Così come anche le altre violazioni denunciate(natura fraudolenta dell’operazione di ricorso al credito) non avevano trovato corpo nelle risultanze di causa.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 8000,00, oltre a € 200,00 per esborsi e a spese generali e accessori di legge, in favore del procuratore antistatario.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, 20.06.2025