Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 159 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 1 Num. 159 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16827/2016 R.G. proposto da COMUNE DI UTA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso la Sig.ra NOME COGNOME;
-ricorrente e controricorrente –
contro
COGNOME, rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente e ricorrente incidentale -avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 384/15, depositata il
10 giugno 2015.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
uditi l’Avv. NOME COGNOME per delega dell’Avv. NOME COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME per delega dell’Avv. NOME COGNOME e l’Avv. NOME COGNOME udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo la dichiarazione d’improcedibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne in giudizio il Comune di Uta, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà di un fondo riportato in Catasto al foglio 6, particelle 335 e 353, occupato in via d’urgenza dal 30 novembre 1978 ed irreversibilmente trasformato per la realizzazione di edifici scolastici, senza che fosse stato emesso il decreto di espropriazione.
Si costituì il Comune, ed eccepì la prescrizione del diritto azionato, osservando in subordine che l’attore aveva prestato il proprio consenso alla cessione bonaria della proprietà, per la quale aveva già ricevuto un acconto pari all’80% dell’indennità di espropriazione ed occupazione.
1.1. Con sentenza del 4 giugno 2013, il Tribunale di Cagliari a) rigettò l’eccezione di prescrizione, ritenendo che il relativo termine decorresse dalla data di proposizione della domanda di risarcimento, con cui l’attore aveva abdicato al proprio diritto di proprietà, b) dichiarò l’intervenuto acquisto della proprietà del fondo da parte del Comune, c) determinò il valore del fondo in Euro 209.405,00 in riferimento alla data di scadenza del termine per l’emissione del decreto di espropriazione, d) condannò il Comune al risarcimento del danno, liquidandolo in Euro 2.076.226,41, ivi compresi la rivalutazione monetaria ed il danno per il ritardo nell’adempimento, oltre interessi legali.
L’impugnazione proposta dal Comune è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Cagliari, che con sentenza del 10 giugno 2015 ha rideterminato la somma dovuta dal Comune in Euro 1.849.133,88, oltre interessi legali, dichiarando assorbito l’appello incidentale condizionato proposto dal Serra.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto inammissibili, per difetto d’interesse, le censure riguardanti la dichiarazione dell’acquisto della proprietà del fondo, rilevando che la relativa domanda, non proposta dall’attore, era stata avanzata in via riconvenzionale dal Comune, sia pure al fine di far decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dalla data della trasformazione irreversibile dell’area, conformemente all’orientamento giurisprudenziale all’epoca prevalente, ed era stata ribadita anche all’udienza di precisazione delle conclusioni, nonostante l’intervenuto mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale. Ha ritenuto conseguentemente assorbite le ulteriori censure riflettenti la mancata acquisizione della proprietà ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 o per usucapione, rilevando peraltro che quest’ultima non era stata neppure eccepita in primo grado. Pur riconoscendo che la rinuncia del proprietario al suo diritto non ne comportava l’acquisto da parte dell’Amministrazione, ha quindi ritenuto che la relativa dichiarazione fosse passata in giudicato, osservando comunque che la permanenza della proprietà in capo al danneggiato non escludeva il diritto di quest’ultimo al risarcimento, giacché l’occupazione del fondo era configurabile come illecito a carattere permanente, destinato a cessare soltanto per effetto di un accordo transattivo o dell’usucapione o della rinuncia al diritto, con la conseguente possibilità di scegliere tra la tutela restitutoria e quella risarcitoria.
In ordine alla misura del danno, la Corte ha ritenuto innanzitutto non pertinente il richiamo all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, osservando che il pregiudizio arrecato al patrimonio del danneggiato dev’essere risarcito integralmente. Ha ritenuto invece fondate le censure concernenti la decorrenza della rivalutazione monetaria e degl’interessi, affermando che la stessa doveva essere ancorata non già alla data della trasformazione irreversibile del fondo, ma a quella della proposizione della domanda. In proposito, pur rilevando che i valori del fondo stimati in riferimento al 1980 ed al 1989 si equivalevano, in virtù del criterio di valutazione adottato dal c.t.u., ha osservato che la diversa decorrenza della rivalutazione e degl’interessi era destinata ad incidere sulla liquidazione del danno da ritardo nel pagamento. Ha ritenuto irrilevante l’accordo intervenuto tra le parti per la cessione dell’area
occupata, rilevando che la stessa non si era mai perfezionata, con la conseguenza che l’attore non poteva chiederne la dichiarazione di nullità o l’annullamento. Ha escluso la possibilità di ravvisare nel medesimo atto un accordo sull’indennità, non traslativo ma vincolante tra le parti, affermando che lo stesso doveva ritenersi caducato per effetto del mancato perfezionamento della procedura espropriativa, e comunque inidoneo a precludere il riconoscimento del valore integrale dell’immobile, giacché l’indennità era stata determinata ai sensi dell’art. 1 della legge 29 luglio 1980, n. 385, la cui dichiarazione d’illegittimità costituzionale comportava, in mancanza di una diversa disciplina, l’applicabilità di quella generale dettata dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359. Ha riconosciuto comunque che la somma concordata e pagata a titolo di acconto sull’indennità di esproprio, pari a Lire 13.519.893, doveva essere detratta da quella dovuta a titolo di risarcimento, esclusi peraltro la rivalutazione monetaria e gl’interessi, trattandosi d’indebito oggettivo, la cui restituzione era stata richiesta soltanto dopo l’insorgenza del diritto al risarcimento.
Premesso poi che la sentenza di primo grado non era stata censurata nella parte in cui aveva determinato il valore del fondo in riferimento alla data della trasformazione irreversibile ed aveva ritenuto ininfluente la differenza tra vincoli espropriativi e conformativi, la Corte ha rilevato che il Comune si era limitato a contrapporre alla valutazione del c.t.u. la stima compiuta dallo UTE in riferimento al mese di maggio 1999, ritenendo ammissibile la relativa produzione, in quanto consentita anche in appello, ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ., nella formulazione applicabile ratione temporis , ma osservando che il documento, qualificabile come perizia di parte, non recava alcun riferimento ai criteri seguiti per la determinazione del valore, mentre il c.t.u. aveva dichiarato di aver tenuto conto delle indagini di mercato svolte, dell’ubicazione del fondo e della diversità della sua classificazione urbanistica rispetto a quella delle aree limitrofe. Precisato infine che il valore di mercato accertato in riferimento al 1989 corrispondeva a quello accertato in riferimento al 1980, oltre rivalutazione, ha concluso che il danno subìto dall’attore doveva essere liquidato in misura pari a Euro 1.005.651,47 per capitale ed Euro 843.291,73 a titolo di maggior danno, ivi compresi gl’interessi legali sul capitale via via
rivalutato.
La Corte ha rigettato infine le censure riguardanti la correzione della sentenza di primo grado disposta con ordinanza del 2 ottobre 2013, osservando che, sebbene non trascritta nel dispositivo, la statuizione di condanna al risarcimento era riportata nella motivazione del provvedimento, recante la determinazione della somma dovuta, la cui mancata trascrizione non era configurabile come un’omissione di pronuncia, ma come un mero errore materiale, in quanto palesemente riconducibile ad una svista del Giudice. Ha ritenuto invece fondata l’istanza di correzione del numero di registro generale riportato nell’ordinanza di correzione, rilevando che l’errata indicazione dello stesso, anch’essa dovuta ad una mera svista, non impediva di riferire il provvedimento alla sentenza impugnata, attraverso il richiamo al numero di quest’ultima ed ai nominativi delle parti.
2.1. Con ordinanza del 16 marzo 2016, la Corte d’appello, su istanza dello attore, ha proceduto alla correzione di errori materiali contenuti nella propria sentenza, nelle parti concernenti l’indicazione dell’importo dovuto a titolo di risarcimento e quello del danno da ritardo, nonché nell’ordinanza di correzione della sentenza di primo grado, nella parte riguardante l’indicazione del numero di registro generale della sentenza.
Avverso la predetta sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione, articolato in nove motivi, illustrati anche con memoria. Il Serra ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, articolato in sei motivi ed anch’esso illustrato con memoria, al quale il Comune ha resistito a sua volta con controricorso.
Con ordinanza del 4 giugno 2021, questa Corte, rilevato che nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380bis .1 cod. proc. civ. il Comune aveva riferito di avere disposto, con decreto del 14 giugno 2017, l’acquisizione sanante del fondo occupato, ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, rinviò la causa a nuovo ruolo, al fine di consentire al controricorrente di svolgere le proprie difese al riguardo.
Con successiva ordinanza del 25 marzo 2022, la causa è stata ulteriormente rinviata a nuovo ruolo, avendo le parti riferito concordemente che il decreto di acquisizione era stato impugnato dinanzi al Tribunale amministra-
tivo regionale per la Sardegna, mentre avverso la determinazione dell’indennità liquidata con il medesimo provvedimento era stata proposta opposizione alla stima dinanzi alla Corte d’appello di Cagliari.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, il Comune denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 100, 112 e 167 cod. proc. civ., osservando che, nel dichiarare inammissibile il motivo di gravame concernente la dichiarazione dell’intervenuto acquisto della proprietà del fondo, la Corte d’appello non ha considerato che tale accertamento era stato richiesto soltanto in via di eccezione, ai fini del rigetto della domanda di risarcimento. Premesso infatti che il riferimento all’acquisto della proprietà per accessione invertita era volto a far decorrere dalla relativa data la prescrizione del diritto al risarcimento, conformemente all’orientamento giurisprudenziale all’epoca prevalente, sostiene che, ai fini della qualificazione di tale deduzione, la Corte di merito avrebbe dovuto tenere conto dello scopo perseguito da esso ricorrente, anziché della situazione giuridica fatta valere. Insiste inoltre sul proprio interesse all’impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva accertato l’intervenuto acquisto della proprietà da parte di esso ricorrente per effetto della rinuncia dell’attore, evidenziando di aver proposto domanda di accertamento dell’usucapione, e sostenendo comunque di non essere tenuto al risarcimento, in assenza di una vicenda traslativa. Afferma infine che la statuizione della sentenza di primo grado gli ha impedito di valutare l’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 167 cod. proc. civ., osservando che, se qualificata come domanda riconvenzionale, anziché come eccezione, quella di accertamento dell’intervenuto acquisto della proprietà avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, in quanto tardiva, dal momento che la costituzione in giudizio aveva avuto luogo dopo la scadenza del termine previsto dalla predetta disposizione.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza im-
pugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101 e 112 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost., affermando che, anche a voler qualificare l’eccezione da esso proposta come domanda riconvenzionale, la dichiarazione dell’intervenuto acquisto della proprietà avrebbe dovuto essere ritenuta contraria non solo all’interesse perseguito da esso ricorrente, consistente nell’evitare la condanna al risarcimento, ma anche al principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà ed all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, precludendo ad esso ricorrente la valutazione dell’opportunità dell’acquisizione.
Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, ai sensi degli artt. 100, 101 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., sostenendo che, nel ritenere assorbita la questione concernente l’intervenuto acquisto della proprietà per usucapione, la Corte di merito non ha tenuto conto dell’interesse di esso ricorrente al relativo accertamento, per effetto del quale sarebbe rimasto escluso l’obbligo del risarcimento.
Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi degli artt. 100, 101 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., sostenendo che, nel ritenere assorbita la questione concernente l’applicabilità dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, la Corte di merito non ha tenuto conto dell’interesse di esso ricorrente all’accertamento della possibilità di esercitare il relativo potere, con la conseguente corresponsione di un’indennità parametrata al valore attuale del fondo, divenuto inedificabile, e del risarcimento del danno per l’occupazione illegittima, se non prescritto.
Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata, ai sensi degli artt. 100, 101 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., nonché la violazione degli artt. 832, 1223, 2043 e 2056 cod. civ., dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell’art. 40 cod. pen., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto assorbita o preclusa dal giudicato interno la questione riguardante l’efficacia traslativa della rinuncia alla proprietà implicita nella domanda di risarcimento del danno, senza tenere conto dell’interesse di esso ricorrente all’esclusione
dell’acquisto della proprietà. Ribadito che detta efficacia si pone in contrasto con il principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà, afferma che il riconoscimento del carattere non traslativo della rinuncia consentirebbe di escludere la sussistenza di un nesso causale tra la perdita della proprietà e la realizzazione dell’opera pubblica, nonché di limitare il risarcimento al danno derivante dall’occupazione sine titulo del fondo.
Con il settimo motivo, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, ai sensi degli artt. 112 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., dell’art. 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost., censurando la sentenza impugnata per aver immotivatamente ritenuto che le censure mosse alla liquidazione del danno riguardassero esclusivamente la decorrenza della rivalutazione monetaria e degl’interessi legali, laddove le stesse avevano ad oggetto anche l’attualizzazione del valore dell’immobile alla data della decisione. Premesso che la stessa Corte territoriale ha dato atto della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva determinato il valore del fondo in riferimento alla data della trasformazione irreversibile, sostiene che il relativo importo non avrebbe potuto essere rivalutato fino alla data della domanda giudiziale, aggiungendo che tale vizio si estende anche al testo della sentenza risultante dalla correzione dell’errore materiale, il quale postula che gli interessi debbano essere calcolati dal 1989 sul capitale rivalutato dal 1980 al 1989.
Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 5, 156, secondo comma, 161 e 287 cod. proc. civ., osservando che, nel qualificare come mero errore materiale l’omessa trascrizione della statuizione di condanna al risarcimento nel dispositivo della sentenza di primo grado, la Corte d’appello non ha considerato che, in quanto riguardante un elemento essenziale, tale omissione rendeva la sentenza inidonea al raggiungimento del suo scopo, e risultava pertanto emendabile soltanto attraverso l’impugnazione.
Con il nono motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 287 e 288 cod. proc. civ., sostenendo che la Corte d’appello si è avvalsa del procedimento di correzione degli errori materiali per porre rimedio ad un errore di giudizio riguardante il calcolo del
danno per il ritardo nel pagamento, emendabile soltanto attraverso l’impugnazione della sentenza. Premesso inoltre che l’istanza di correzione del numero di registro generale indicato nell’ordinanza di correzione della sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere proposta al Tribunale, anziché alla Corte d’appello, sostiene che tale correzione non ha riguardato un errore materiale, ma un errore logico-giuridico.
10. Con il primo motivo del ricorso incidentale, il controricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., nonché la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1241 e 2033 cod. civ., sostenendo che, nel detrarre dall’importo liquidato a titolo di risarcimento quello corrisposto a titolo di acconto sull’indennità di espropriazione, la Corte d’appello è incorsa in contraddizione, avendo escluso che su quest’ultimo importo fossero dovuti interessi e rivalutazione, ma avendolo detratto dal capitale originario, anziché da quello rivalutato. Aggiunge che, poiché il credito del Comune era un credito di valuta, mentre quello di esso controricorrente era un credito di valore, la compensazione tra gli stessi doveva ritenersi subordinata alla liquidazione del secondo, con la conseguenza che al Comune sarebbero potuti spettare, al più, gl’interessi dalla data della domanda giudiziale fino a quella della sentenza.
Con il secondo motivo, il controricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., nonché la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, degli artt. 1223, 1224, 2043 e 2056 cod. civ., dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, osservando che, nel far decorrere il maggior danno dalla data di proposizione della domanda giudiziale, la Corte di merito gli ha negato il ristoro del pregiudizio derivante dall’occupazione legittima ed illegittima.
Con il terzo motivo, il controricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e dell’art. 3 Cost., sostenendo che, ove dovesse riconoscersi l’applicabilità dell’art. 42bis cit., operante anche in assenza di un provvedimento di acquisizione sanante, egli avrebbe diritto non solo ad un indennizzo pari al valore venale del fondo all’attualità, ma anche
ad una maggiorazione del 10% a titolo d’indennizzo per il danno non patrimoniale.
Con il quarto motivo, il controricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 287 cod. proc. civ., nonché la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., riproponendo, per l’ipotesi di accoglimento dell’ottavo motivo del ricorso principale, il motivo di appello incidentale condizionato con cui aveva chiesto l’integrazione del dispositivo della sentenza di primo grado con il capo recante la condanna al risarcimento.
Con il quinto motivo, il controricorrente deduce la violazione degli artt. 112 e 287 cod. proc. civ. e degli artt. 1224, 1226, 2043 e 2056 cod. civ., nonché la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., chiedendo, per l’ipotesi di accoglimento del nono motivo del ricorso principale, il riesame dell’istanza di correzione, nella parte riguardante l’individuazione della data di decorrenza degli interessi e della rivalutazione.
Con il sesto motivo, il controricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 287 cod. proc. civ., nonché la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., chiedendo, per l’ipotesi di accoglimento del nono motivo del ricorso principale, il riesame dell’istanza di correzione, nella parte riguardante il numero di registro generale indicato nell’ordinanza di correzione
Così riassunte le censure proposte dalle parti, si rileva che, con ordinanza dell’8 maggio 2023, il Tar Sardegna, pronunciando sul ricorso proposto dal controricorrente avverso il decreto di acquisizione sanante, ha disposto la sospensione del giudizio, dando atto della contemporanea pendenza di quello in esame, ed osservando che « l’accertamento del diritto di proprietà sull ‘area in questione in capo ai ricorrenti comporterebbe il venir meno del presupposto sul quale si fondano le difese del Comune di Uta a giustificazione del provvedimento impugnato».
Tanto premesso, va innanzitutto disattesa l’eccezione d’improcedibilità della domanda, sollevata dalla difesa del Comune nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380bis .1 cod. proc. civ. e fatta propria anche dal Procuratore
generale, secondo cui l’accoglimento della pretesa risarcitoria dovrebbe considerarsi definitivamente precluso dal decreto emesso successivamente alla proposizione del ricorso, con cui è stata disposta l’acquisizione sanante del fondo occupato.
Benvero, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del controricorrente, non può trovare applicazione, nel caso in esame, il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il provvedimento previsto dall’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 non può determinare l’improcedibilità della domanda di restituzione del fondo occupato e di risarcimento del danno, ove sia emesso successivamente alla formazione del giudicato anche soltanto in ordine ad una delle predette domande (cfr. Cass., Sez. I, 5/06/2018, n. 14311; 7/03/2017, n. 5686; 31/05/2016, n. 11258): le censure mosse alla sentenza impugnata, sia nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il motivo di gravame concernente l’intervenuto acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione, sia nella parte in cui ha proceduto alla liquidazione del danno cagionato dalla occupazione, impedendone il passaggio in giudicato sotto entrambi i profili, consentono infatti di escludere l’idoneità delle predette statuizioni a precludere l’acquisizione sanante.
Si osserva piuttosto che, in quanto originata da un procedimento ablatorio avviato in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, la vicenda in esame, ai sensi dell’art. 57 di tale decreto, resta sottratta al disposto dell’art. 42bis , introdotto dall’art. 34, primo comma, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111: il comma ottavo di tale articolo, secondo cui le disposizioni da esso introdotte si applicano anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, non può essere infatti interpretato nel senso che l’ambito applicativo delle stesse si estenda anche ai fatti verificatisi in data anteriore all’entrata in vigore del Testo unico; significativo, al riguardo, appare il disposto dell’art. 55, che nel disciplinare le occupazioni sine titulo anteriori al 30 settembre 1996, si limita ad individuare i criteri per la liquidazione del risarcimento, senza fare alcun riferimento alla acquisizione sanante; decisiva appare inoltre la considerazione che, in quanto emanata in sostituzione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, dichiarato
costituzionalmente illegittimo per eccesso di delega (cfr. Corte cost., sent. n. 293 del 2010), la norma in esame risponde alla medesima finalità della norma sostituita, consistente nell’agevolare il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma soltanto per i procedimenti ablatori avviati in epoca successiva all’entrata in vigore del Testo unico (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/2015, n. 735; Cass., Sez. I, 23/10/2019, n. 27198; 26/10/2018, n. 27304; v. anche Corte cost., sent. n. 71 del 2015).
Alla stregua di tale principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, il provvedimento di acquisizione sanante deve considerarsi emanato in carenza di potere, in quanto emesso dal di fuori delle ipotesi in cui ne è consentita l’adozione, e risulta pertanto disapplicabile ai fini della decisione, con la conseguenza che resta esclusa non solo l’improcedibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta nel presente giudizio, ma anche la contemporanea pendenza dell’opposizione alla stima dinanzi alla Corte d’appello.
17. Il primo motivo d’impugnazione, avente ad oggetto l’ammissibilità del motivo di gravame concernente la dichiarazione dell’intervenuto acquisto della proprietà del fondo occupato da parte del Comune, è peraltro infondato.
La natura processuale del vizio lamentato, al cui riscontro questa Corte è chiamata a provvedere come giudice anche del fatto, consente di procedere all’esame diretto degli atti di causa, dal quale si evince che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del Comune, nella comparsa di costituzione in primo grado era stata effettivamente proposta una domanda riconvenzionale di accertamento del predetto acquisto: il Comune non si era infatti limitato ad eccepire, nella narrativa dell’atto, di aver «acquistato la proprietà delle aree occupate per accessione invertita», ma aveva espressamente chiesto, nelle conclusioni, di «dare atto della prescrizione del diritto al risarcimento vantato dall’attore e dell’irreversibile trasformazione delle aree occupate», e, «per l’effetto assolvere il Comune di Uta dalle avverse pretese e dichiarare di proprietà dello stesso le aree di cui trattasi». L’allegazione della trasformazione irreversibile del fondo occupato non mirava pertanto esclusivamente a paralizzare la pretesa risarcitoria avanzata dall’attore, facendo risalire la decorrenza del termine di prescrizione all’epoca della realizzazione
dell’opera pubblica, anziché a quella della proposizione della domanda giudiziale, ma era volta a produrre un effetto ulteriore, costituito dall’accertamento dell’intervenuto acquisto a titolo originario della proprietà da parte del Comune, in virtù della c.d. accessione invertita: essa non era pertanto qualificabile come una mera eccezione, ma come una domanda riconvenzionale, non risolvendosi in una prospettazione difensiva finalizzata esclusivamente alla reiezione della domanda attrice, attraverso l’opposizione al diritto fatto valere dall’attore di un altro diritto idoneo a paralizzarlo, ma come un’autonoma domanda, volta ad ottenere l’accertamento del predetto diritto con efficacia di giudicato (cfr. ex plurimis , Cass., Sez. III, 16/03/2021, n. 7292; 25/10/2016, n. 21472; Cass., Sez. II, 22/10/2019, n. 26880).
Nessun rilievo può assumere, a fronte delle inequivocabili modalità di formulazione della comparsa di costituzione, la circostanza, fatta valere dal ricorrente, che lo scopo complessivamente perseguito attraverso le predette difese fosse costituito non tanto dall’acquisizione della proprietà del fondo, quanto dalla sottrazione al pagamento della somma richiesta a titolo di risarcimento: indipendentemente dal contrasto di tale affermazione con la tesi, più volte ribadita negli atti difensivi del Comune (ed invero assai discutibile sotto il profilo del rispetto dell’altrui diritto di proprietà e dei principi di legalità e buon andamento della Pubblica Amministrazione), secondo cui l’obiettivo finale della resistenza in giudizio consisteva nella conservazione del diritto sul fondo senza alcun esborso, che l’Amministrazione non era in grado di sopportare (pur essendosi volontariamente determinata all’espropriazione dello immobile), occorre rilevare che nell’interpretazione delle domande giudiziali, pur dovendosi tenere conto del contenuto sostanziale della pretesa e dello scopo perseguito dalla parte, la soggettiva intenzione di quest’ultima viene in considerazione soltanto nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire alla controparte di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di predisporre un’adeguata difesa, non trovando applicazione i criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss. cod. civ. per i contratti, giacché, in riferimento agli atti giudiziali, non si pone una questione d’individuazione della comune intenzione delle parti (cfr. Cass., Sez. III, 4/11/2020, n. 24480; 9/12/2014, n. 25853; Cass., Sez. I, 24/11/2011, n. 24847).
Ininfluente risulta altresì la circostanza che l’interesse del Comune ad ottenere l’accertamento dell’intervenuto acquisto della proprietà, riconducibile all’orientamento giurisprudenziale prevalente all’epoca dell’instaurazione del giudizio, sia venuto meno in corso di causa, per effetto delle pronunce con cui la Corte EDU ha ritenuto l’istituto dell’accessione invertita contrastante con l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU (cfr. ex plurimis , sent. 4/12/2007, COGNOME c. Italia ; 13/01/2006, RAGIONE_SOCIALE ; 15 e 29/07/2004, RAGIONE_SOCIALE; 30/05/2000, RAGIONE_SOCIALE, e del successivo mutamento della giurisprudenza di legittimità, che ha condotto all’esclusione della possibilità di ricollegare l’acquisto della proprietà ad un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/ 2015, n. 735; Cass., Sez. I, 29/09/2017, n. 22929): non risulta infatti dedotto né dimostrato che a seguito di tali sopravvenienze, verificatesi in parte già nel corso del giudizio di primo grado, la difesa del Comune abbia espressamente rinunciato alla predetta domanda o l’abbia abbandonata, mentre la possibilità di disporre l’acquisizione sanante (come si è detto, peraltro, non ammissibile nel caso in esame) o di far valere l’acquisto della proprietà per usucapione è stata prospettata soltanto in appello, e comunque in via meramente ipotetica ed eventuale.
18. Il secondo motivo, con cui si fa valere l’inammissibilità della domanda riconvenzionale di accertamento dell’intervenuto acquisto della proprietà, è anch’esso infondato.
Il giudizio in esame è stato infatti instaurato nell’anno 1989, e risulta pertanto assoggettato alla disciplina dettata dagli artt. 166 e 167 cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, i quali, nel disporre che il convenuto dovesse costituirsi almeno cinque giorni prima dell’udienza di comparizione, proponendo nella comparsa di costituzione tutte le sue difese e le eventuali domande riconvenzionali, non stabilivano alcuna nullità per l’ipotesi d’inosservanza di tali oneri, con la conseguenza che, ove la controparte non avesse eccepito la tardività della domanda riconvenzionale o avesse accettato il contraddittorio in ordine alla stessa, la preclusione non era più opponibile né rilevabile d’ufficio (cfr. Cass., Sez. II, 9/05/1983, n. 3191; Cass., Sez. III, 12/05/1981, n. 3139; Cass.,
19/01/1977, n. 269).
19. Il terzo motivo, riguardante la contrarietà della dichiarazione dell’intervenuto acquisto della proprietà da parte del Comune al principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà ed all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, risulta invece inammissibile, trattandosi di censure precluse dal giudicato interno formatosi in ordine al predetto acquisto, per effetto dell’inammissibilità del motivo di appello proposto al riguardo, che ha trovato conferma in questa sede.
20. E’ parimenti inammissibile il quarto motivo, con cui viene riproposta la questione concernente l’acquisto della proprietà per usucapione.
Nell’esaminare la predetta questione, la sentenza impugnata ha fatto ricorso a due distinti ordini di considerazioni, ritenendola per un verso assorbita dal giudicato interno formatosi in ordine all’acquisto della proprietà per accessione invertita, e per altro verso non ritualmente dedotta, giacché in sede di gravame il Comune si era limitato a richiamare precedenti giurisprudenziali riguardanti i possibili modi di acquisto della proprietà delle aree utilizzate per la realizzazione delle opere pubbliche, nonché a prospettare (peraltro in via eventuale) l’omesso esame di un’eccezione di usucapione, che in primo grado non era stata neppure sollevata. Tali rilievi, configurabili come due diverse rationes decidendi , in quanto autonomamente idonei a sorreggere la decisione adottata, non possono ritenersi validamente censurati dal ricorrente, il quale, nel contestare l’assorbimento della questione, si limita a ribadire l’ammissibilità del motivo di gravame concernente l’acquisto della proprietà per accessione invertita, già esclusa in sede di esame del primo motivo di ricorso, e, nell’insistere sull’avvenuta proposizione dell’eccezione di usucapione, si limita a richiamare le conclusioni rassegnate nell’atto di appello, nelle quali risulta effettivamente menzionata tale eccezione, senza però essere in grado di dimostrare che la stessa fosse stata già proposta in primo grado.
21. Il quinto motivo, con cui il ricorrente censura l’assorbimento della questione riguardante l’applicabilità dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, è infondato, trattandosi di una questione correttamente ritenuta preclusa dal giudicato interno formatosi in ordine all’intervenuto acquisto della proprietà da parte del Comune.
22. Per ragioni in parte analoghe, è infondato il sesto motivo, con cui il ricorrente ripropone la questione riguardante l’efficacia traslativa della rinuncia alla proprietà implicita nella proposizione della domanda di risarcimento, censurando la sentenza impugnata, per averla ritenuta assorbita o preclusa dal giudicato interno.
In quanto logicamente e giuridicamente incompatibile con la riconducibilità dell’acquisto della proprietà del fondo occupato ad altri atti o fatti astrattamente idonei a produrlo, l’accertamento, con sentenza definitiva, dell’intervenuto acquisto della proprietà a titolo originario, per effetto della c.d. accessione invertita, precludeva l’esame della tesi, sostenuta dal Comune, secondo cui esso sarebbe divenuto proprietario del fondo a titolo derivativo, in virtù della rinuncia del proprietario, implicita nella proposizione dell’azione risarcitoria, impedendo anche di escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la perdita della proprietà da parte del controricorrente e la realizzazione dell’opera pubblica.
Quanto poi al collegamento tra l’effetto traslativo della rinuncia e l’insorgenza del diritto al risarcimento, lo stesso è stato correttamente escluso dalla Corte territoriale in virtù del richiamo alla più recente giurisprudenza di legittimità, che, a seguito delle citate pronunce con cui è stata riconosciuta la contrarietà dell’accessione invertita all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, non si è limitata ad escludere la possibilità di ricondurre l’acquisto della proprietà da parte dell’Amministrazione alla trasformazione irreversibile del fondo occupato, ma ha evidenziato la necessità del ricorso, ai fini del predetto acquisto, ad uno dei modi tipici previsti dalla legge, escludendo pertanto la possibilità di attribuire efficacia traslativa alla rinuncia e riconoscendo alla stessa il solo effetto di far cessare l’illiceità dell’occupazione e di precludere la condanna dell’Amministrazione alla restituzione dell’immobile, nonché quello di far sorgere il diritto al risarcimento (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/ 2015, n. 735; Cass., Sez. III, 11/12/2020, n. 28297).
23. E’ altresì infondato il settimo motivo, avente ad oggetto la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento.
Benvero, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, con il quarto motivo di appello il Comune non si era limitato a censurare
l’individuazione della data di decorrenza della rivalutazione e degl’interessi, ma aveva contestato anche la determinazione del valore del fondo occupato, effettuata dal Tribunale in riferimento alla scadenza del termine per l’emissione del decreto di esproprio, sostenendo che, ove l’insorgenza del diritto al risarcimento fosse stata ricollegata alla rinuncia alla proprietà, implicita nella proposizione dell’azione risarcitoria, la stima avrebbe dovuto essere effettuata in riferimento alla data della domanda giudiziale.
Nonostante l’erroneità della premessa, la Corte territoriale ha preso peraltro in esame l’intera questione sollevata dal ricorrente, non essendosi limitata ad affermare che la riconducibilità del diritto al risarcimento all’opzione del privato per tale forma di tutela, implicante la rinuncia alla proprietà, imponeva di ancorare la decorrenza della rivalutazione e degl’interessi alla data di proposizione della domanda giudiziale, ma avendo esteso la propria valutazione al criterio di stima adottato dal c.t.u. nominato nel corso del giudizio e fatto proprio dal Giudice di primo grado: rilevato infatti che il c.t.u. aveva determinato il valore di mercato del fondo in riferimento alla data di stesura della propria relazione, devalutandolo poi, sulla base degl’indici Istat, alla scadenza del termine per l’emissione del decreto di esproprio, ha ritenuto che il metodo seguito non avesse inciso sulla correttezza della stima, condividendo l’osservazione dell’appellato, secondo cui il valore reale dell’immobile era rimasto sostanzialmente invariato nel periodo intermedio.
Quest’ultima precisazione, facendo apparire ininfluente la data assunta come riferimento ai fini della stima, consente di escludere la fondatezza della tesi sostenuta dalla difesa del Comune, secondo cui la mancata impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva determinato il valore del fondo in riferimento alla scadenza del termine per l’emissione del decreto di esproprio, avrebbe imposto di escludere la rivalutazione del relativo importo fino alla data di proposizione della domanda giudiziale: considerato infatti che, come più volte ribadito da questa Corte anche in tema di occupazione illegittima, il debito risarcitorio derivante da fatto illecito, configurandosi come obbligazione di valore, va liquidato in misura pari al valore del bene al momento del fatto (c.d. aestimatio ), espresso in termini monetari che tengano conto delle variazioni dei prezzi intervenute fino al momento della deci-
sione (c.d. taxatio ) (cfr. Cass., Sez. I, 20/04/2023, n. 10634; 30/03/2007, n. 7981; 5/05/2005, n. 9361), la somma definitivamente riconosciuta al controricorrente dalla sentenza impugnata, comprendente la rivalutazione monetaria maturata fino alla data della decisione di secondo grado, deve ritenersi correttamente determinata sulla base del valore di mercato individuato in riferimento alla data di proposizione della domanda giudiziale, che comprendeva a sua volta la rivalutazione precedentemente maturata.
24. Non merita poi accoglimento neppure l’ottavo motivo, con cui si censura la correzione del dispositivo della sentenza di primo grado, nella parte riguardante la condanna del Comune al risarcimento.
Correttamente la Corte territoriale ha escluso la configurabilità, al riguardo, di un’omissione di pronuncia, tale da determinare la nullità della sentenza di primo grado, ritenendo che la mancanza della predetta statuizione fosse riconducibile ad una mera svista occorsa nella redazione del provvedimento, che non impediva la ricostruzione del relativo dictum , giacché in motivazione risultavano chiaramente indicate la somma dovuta a titolo di risarcimento e la parte tenuta a corrisponderla. Il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza è infatti configurabile soltanto nel caso in cui la difformità degli stessi incida sull’idoneità del provvedimento, riguardato nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo altrimenti un mero errore materiale (cfr. Cass., Sez. VI, 17/10/2018, n. 26074; Cass., Sez. V, 30/12/2015, n. 26077).
25. E’ infine infondato il nono motivo, avente ad oggetto la correzione della sentenza impugnata, nella parte recante l’indicazione dell’importo dovuto a titolo di danno da ritardo sulla somma liquidata a titolo di risarcimento, e in quella riguardante la correzione del numero di registro della causa indicato nell’ordinanza di correzione della sentenza di primo grado.
Come si evince dalla sentenza impugnata, il danno da ritardo avrebbe dovuto essere calcolato in misura pari agl’interessi legali sulla somma liquidata a titolo di risarcimento, via via rivalutata a decorrere dalla data di proposizione della domanda giudiziale e fino a quella della decisione: tali criteri d’individuazione dei parametri numerici e delle modalità di effettuazione del
calcolo, chiaramente indicati in motivazione, non sono stati interamente rispettati nel concreto svolgimento dell’operazione, essendo stato assunto come base di computo l’importo del capitale determinato in riferimento ad una data più recente, ovverosia al 14 novembre 1998. La discordanza tra l’importo utilizzato ai fini del calcolo e quello indicato in motivazione, rendendo evidente che l’individuazione della somma dovuta a titolo di capitale ha costituito il frutto di una svista occorsa in sede di redazione della sentenza, immediatamente rilevabile attraverso il confronto con le altre parti del provvedimento, consente di escludere la sussistenza di un errore di giudizio, censurabile esclusivamente attraverso l’impugnazione della sentenza di appello, trattandosi piuttosto di un vizio emendabile ai sensi dell’art. 287 cod. proc. civ. L’errore di calcolo può essere infatti denunciato con il ricorso per cassazione soltanto quando sia riconducibile all’impostazione delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, lamentandosi un error in iudicando nell’individuazione di parametri e criteri di conteggio, mentre, ove consista in un’erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici, individuazione e ordine delle operazioni da compiere esattamente determinati, è emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali (cfr. Cass., Sez. VI, 29/01/2019, n. 2486; Cass., Sez. III, 22/11/2016, n. 23704; 5/08/2002, n. 11712).
E’ altresì da escludere la possibilità di ravvisare un error in iudicando nella inesatta indicazione del numero di registro della causa riportato nell’ordinanza di correzione della sentenza di primo grado, configurandosi la trascrizione dello stesso come il frutto non già di un’attività valutativa, incidente sul contenuto concettuale della decisione, ma di un semplice riscontro oggettivo, la cui erroneità, traducendosi in una mera divergenza tra l’ideazione e la sua rappresentazione grafica, rilevabile ictu oculi attraverso il confronto con gli atti di causa, è quindi emendabile anch’essa mediante la procedura di cui allo art. 288 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 3/11/2009, n. 23198; Cass., Sez. I, 9/09/2005, n. 17977).
Non merita poi consenso la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui l’istanza di correzione del numero di registro della causa indicato nella sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere proposta al Giudice che l’aveva pro-
nunciata, anziché a quello di secondo grado: è pur vero, infatti, che, come affermato da questa Corte a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 2004, con cui fu dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 287 cod. proc. civ., nella parte in cui ammetteva il ricorso al procedimento di correzione soltanto per le sentenze contro le quali non fosse stato proposto appello, la correzione degli errori materiali della sentenza di merito dev’essere chiesta al giudice che l’ha pronunciata, anche nel caso in cui contro la stessa sia stato proposto appello (cfr. Cass., Sez. I, 17/05/2005, n. 10344); tale principio non è tuttavia applicabile qualora, come nella specie, l’istanza di correzione non riguardi la sentenza impugnata, ma l’ordinanza che ne ha disposto la correzione, trovando in tal caso applicazione l’art. 288, quarto comma, cod. proc. civ., che prevede l’impugnabilità della sentenza, nelle parti corrette, con i mezzi ordinari.
26. Passando quindi all’esame del ricorso incidentale, è parzialmente fondato il primo motivo, riguardante le modalità di detrazione dell’importo corrisposto a titolo di acconto sull’indennità di espropriazione da quello liquidato a titolo di risarcimento del danno.
Benvero, non può condividersi la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui l’importo dell’acconto, corrisposto il 5 maggio 1981, avrebbe dovuto essere detratto da quello dovuto a titolo di risarcimento, rivalutato fino alla data della decisione: la duplice circostanza, evidenziata dalla sentenza impugnata, che la detrazione dell’acconto fosse stata richiesta dal Comune a titolo di indebito oggettivo, per il quale gl’interessi ed il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ. decorrono dalla domanda, e che quest’ultima fosse stata proposta dopo l’insorgenza del diritto al risarcimento, con la conseguente immediata estinzione del relativo credito per compensazione, impediva di riconoscere qualsiasi maggiorazione sulla somma dovuta in restituzione, ma non consentiva di differirne la detrazione all’esito del giudizio. Considerato che il risarcimento del danno era stato determinato in riferimento alla scadenza del termine per l’emissione del decreto di esproprio, verificatasi nel 1980, la somma corrisposta a titolo di acconto avrebbe dovuto essere detratta dall’importo liquidato, rivalutato fino alla data di proposizione della domanda giudiziale, e la differenza avrebbe dovuto successivamente essere
ulteriormente rivalutata fino alla data della decisione (cfr. Cass., Sez. III, 3/04/2013, n. 8104; 21/03/2011, n. 6357; 23/02/2005, n. 3747). La coesistenza del credito risarcitorio fatto valere dall’attore con quello restitutorio fatto valere dal Comune, che ne ha determinato l’estinzione per compensazione ai sensi dell’art. 1242 cod. civ., si è infatti verificata per effetto della proposizione delle domande contrapposte, che ne hanno determinato l’insorgenza; la diversa natura dei crediti, configurabili l’uno come debito di valore l’altro come debito di valuta, comportava peraltro che solo il primo potesse costituire oggetto di adeguamento alle variazioni medio tempore intervenute nel potere di acquisto della moneta, mentre il secondo doveva essere preso in considerazione nel suo valore monetario originario, ed in tale misura compensato con il primo.
27. Il secondo motivo, concernente l’individuazione della data di decorrenza della rivalutazione monetaria e degl’interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento, è invece infondato.
Non può infatti condividersi la tesi sostenuta dal controricorrente, secondo cui l’individuazione della predetta data in quella di proposizione della domanda giudiziale, anziché in quella della trasformazione irreversibile del fondo occupato, si sarebbe tradotta nella negazione del suo diritto al risarcimento del danno per l’occupazione legittima ed illegittima dell’immobile: tale assunto confonde infatti il pregiudizio derivante dal ritardo nel conseguimento nell’equivalente pecuniario del danno subìto, che trova ristoro nel riconoscimento della rivalutazione monetaria e degl’interessi compensativi (cfr. Cass., Sez. III, 4/11/2020, n. 24468; 18/07/2011, n. 15709; Cass., Sez. I, 17/09/ 2015, n. 18243), con quello cagionato dalla perdita della disponibilità materiale del fondo occupato, che il proprietario subisce per effetto dell’immissione in possesso dell’Amministrazione e che perdura fino al momento in cui, attraverso la proposizione dell’azione risarcitoria, egli manifesta implicitamente la volontà di rinunciare al diritto di proprietà; il ristoro di quest’ultimo pregiudizio è costituito per il periodo anteriore alla scadenza dell’occupazione legittima dalla relativa indennità, e per quello successivo da un importo dovuto a titolo di risarcimento, distinto ed ulteriore rispetto a quello relativo alla perdita della proprietà (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/2015, n. 735; Cass., Sez. I, 3/10/
2018, n. 24101; 14/12/1993, n. 12367): sia l’indennità di occupazione che il risarcimento del danno per l’occupazione illegittima possono ben essere liquidati in misura pari agl’interessi legali sul valore di mercato dell’immobile (cfr. Cass., Sez. I, 23/05/2022, n. 16528; 24/03/2016, n. 5916; 26/03/2009, n. 7294), che costituisce anche la base per la determinazione del risarcimento del danno per la perdita della proprietà, ma rimangono concettualmente distinti da quest’ultimo e dai relativi accessori, configurandosi la prima come l’oggetto di una diversa obbligazione, derivante da atto lecito, ed il secondo come l’oggetto di una diversa voce di danno, da farsi valere autonomamente. Tale diversità strutturale e funzionale risulta completamente trascurata dal controricorrente, il quale, oltretutto, nel lamentare il mancato riconoscimento dei predetti ristori, non è in grado di dimostrare di aver ritualmente sottoposto la questione all’attenzione del Giudice di secondo grado, limitandosi ad affermare di averne richiesto la liquidazione fin dall’atto introduttivo del giudizio, senza però considerare che nessun importo era stato riconosciuto ai predetti titoli dalla sentenza di primo grado, la quale, per quanto risulta, non aveva costituito oggetto d’impugnazione incidentale sul punto.
Il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo, proposti in via condizionata, per l’ipotesi di accoglimento rispettivamente del quinto, dell’ottavo e del nono motivo del ricorso principale, restano invece assorbiti dal rigetto degli stessi.
In conclusione, il ricorso principale va rigettato, così come il secondo motivo di quello incidentale, mentre il primo motivo va parzialmente accolto, e gli altri motivi vanno dichiarati assorbiti.
La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dalle censure accolte, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Cagliari, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, nei sensi di cui in motivazione, rigetta il secondo motivo, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e
rinvia alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 27/09/2023