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Risarcimento danno da reato: la guida completa

Un amministratore, condannato in sede penale per insolvenza fraudolenta a seguito dell’emissione di un assegno a vuoto, è stato citato in giudizio per i danni. La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito, stabilendo che il risarcimento danno da reato può essere correttamente liquidato in misura pari all’importo dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Il ricorso dell’amministratore è stato dichiarato inammissibile, ribadendo che il danno è conseguenza diretta del reato e che eventuali somme recuperate dal fallimento della società dovranno essere dedotte dall’importo totale.

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Risarcimento danno da reato: come si determina l’importo? L’analisi della Cassazione

Quando un illecito penale causa un pregiudizio economico, la vittima ha diritto a un ristoro. Ma come si quantifica questo danno? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre chiarimenti fondamentali sul risarcimento danno da reato, stabilendo che esso può coincidere con il valore dell’obbligazione contrattuale rimasta inadempiuta a causa del comportamento illecito. Analizziamo insieme questo importante caso per comprenderne i principi e le implicazioni pratiche.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un accordo transattivo per una fornitura di olio. L’amministratore di una società, per saldare il debito, emette un assegno pur sapendo che la linea di credito della sua azienda era stata revocata. Questo atto integra il reato di insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.), per il quale l’amministratore viene condannato in sede penale.

La società debitrice, inoltre, viene dichiarata fallita, e l’assegno rimane insoluto. La creditrice, non avendo ricevuto il pagamento, avvia un’azione civile contro l’amministratore per ottenere il risarcimento del danno subito, sia patrimoniale (pari all’importo dell’assegno) sia morale.

Il Percorso Giudiziario e i Motivi del Ricorso

Il Tribunale di primo grado accoglie parzialmente la domanda, condannando l’amministratore al pagamento di una somma pari all’importo dell’assegno, oltre a interessi e rivalutazione monetaria. La Corte d’Appello conferma questa decisione.

L’amministratore, non soddisfatto, ricorre in Cassazione, sollevando tre principali motivi di doglianza:
1. Errata liquidazione del danno: Sostiene che i giudici abbiano erroneamente equiparato il danno risarcibile all’obbligazione contrattuale non adempiuta, senza un’adeguata base giuridica e senza specificare il nesso di causalità tra il reato e il danno liquidato.
2. Omesso esame di un fatto decisivo: Lamenta che la Corte d’Appello non abbia considerato che il suo debito era già stato ammesso al passivo del fallimento della società.
3. Errata condanna alle spese: Contesta la condanna al pagamento delle spese legali, affermando che la Corte d’Appello, riconoscendo il principio della compensatio lucri cum damno (ovvero la necessità di detrarre quanto incassato dal fallimento), avrebbe di fatto parzialmente accolto le sue ragioni.

La quantificazione del risarcimento danno da reato secondo la difesa

La tesi difensiva si basava sull’idea che il giudice civile non potesse semplicemente ‘trasferire’ il valore del debito commerciale in una condanna per danni da reato, ma avrebbe dovuto condurre un’indagine autonoma per identificare e quantificare il danno effettivo causato dalla condotta penalmente rilevante.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso interamente inammissibile, fornendo importanti chiarimenti su ogni punto sollevato.

I giudici hanno stabilito che i primi due motivi erano inammissibili perché, dietro l’apparenza di violazioni di legge, miravano a ottenere un nuovo esame dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità. La Corte di Cassazione ha chiarito che la decisione della Corte d’Appello era corretta: il danno non era stato considerato in re ipsa (cioè implicito nella lesione dell’interesse), ma come conseguenza diretta e immediata del reato. L’insolvenza fraudolenta dell’amministratore ha causato un danno patrimoniale concreto alla creditrice, coincidente con il mancato incasso della somma riportata sull’assegno. Pertanto, liquidare il risarcimento danno da reato in misura pari a tale importo è stato ritenuto un ragionamento logico e giuridicamente fondato.

Anche il terzo motivo, relativo alle spese legali, è stato respinto. La Corte ha spiegato che il principio della soccombenza si basa sulla causalità: le spese devono essere sostenute da chi ha dato causa al processo con il suo comportamento antigiuridico. L’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno non costituisce una vittoria parziale per il debitore, ma una corretta applicazione delle regole sul risarcimento integrale del danno, che non deve mai tradursi in un ingiustificato arricchimento per il danneggiato. Poiché l’amministratore aveva causato l’intera controversia, è stato giustamente identificato come la parte soccombente e condannato a pagare tutte le spese.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza consolida un principio di notevole importanza pratica: quando un reato provoca una perdita patrimoniale netta e facilmente identificabile, il risarcimento del danno può essere legittimamente quantificato in un importo pari a tale perdita. La decisione distingue nettamente tra il debito contrattuale della società (ora fallita) e l’obbligazione risarcitoria personale dell’amministratore, che sorge dal fatto illecito (il reato) da lui commesso. Infine, viene ribadito che il ruolo della Corte di Cassazione è quello di verificare la corretta applicazione della legge, non di riesaminare le valutazioni di fatto compiute dai giudici di merito.

Quando un reato causa un danno economico, come viene calcolato il risarcimento?
Secondo la Corte, il risarcimento può essere liquidato in un importo pari alla perdita economica che è conseguenza diretta e immediata del reato. Nel caso specifico, è stato ritenuto corretto quantificare il danno nell’importo dell’assegno rimasto insoluto a causa dell’insolvenza fraudolenta.

Se il danneggiato recupera una parte del suo credito in un’altra sede (es. fallimento), questo influisce sul risarcimento?
Sì. In base al principio della compensatio lucri cum damno, qualsiasi importo che la parte danneggiata recupera da altre fonti, come la liquidazione del fallimento della società debitrice, deve essere detratto dall’ammontare totale del risarcimento dovuto dall’autore del reato, per evitare un ingiusto arricchimento.

L’applicazione del principio “compensatio lucri cum damno” significa che chi ha commesso il reato ha parzialmente vinto la causa?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che l’applicazione di questo principio è una mera regola di quantificazione del danno e non modifica l’esito del giudizio sulla responsabilità. La parte soccombente, tenuta al pagamento delle spese legali, rimane colui che con il suo comportamento illecito ha dato origine alla controversia.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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