Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27772 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 27772 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11888/2022 R.G. proposto da
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO ed elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC di quest’ultimo.
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO ed elettivamente domiciliato in Paupisi INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio di quest’ultimo.
-controricorrente –
Avverso la sentenza n. 4012/2021 resa dalla Corte d’Appello di Napoli, pubblicata il 28/10/2021 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/9/2025 dalla AVV_NOTAIO.AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
Rilevato che:
Con ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ., NOME COGNOME chiese al Tribunale di Benevento di condannare il fratello, NOME COGNOME, al risarcimento dei danni a lui occorsi per aver questi violato, mediante l’impianto di un vigneto, la servitù di passaggio costituita dai propri genitori con atto pubblico del 26/01/2000 in favore del suo fondo e a carico di quello del predetto e per aver disatteso il provvedimento di reintegra del possesso da lui chiesto e ottenuto, richiamando, all’uopo, la stima accertata all’esito del procedimento di A.T.P., da lui intentato, nella misura di euro 6.009,80 per il mancato raccolto di vino e di olive dell’anno 2017.
Costituitosi in giudizio, NOME COGNOME eccepì, innanzitutto, il difetto di legittimazione attiva della controparte, posto che l’azienda agricola non era esercitata dal ricorrente, ma dalla moglie COGNOME NOME, contestò il ricorso al rito sommario e rilevò che la servitù era sempre stata praticabile, essendo stato concordemente stabilito un percorso alternativo, con conseguente esclusione di qualsivoglia danno.
Con ordinanza depositata il 26/04/2019, il Tribunale di Benevento condannò NOME COGNOME al pagamento, in favore del fratello, della somma di euro 6.009,80 e alle spese di lite, nonché di quelle relative al precedente procedimento per accertamento tecnico preventivo, compresi i compensi del c.t.u.
Il giudizio d’appello, instaurato da NOME COGNOME, si concluse, nella resistenza di NOME COGNOME, con la sentenza n. 4012/2021, pubblicata il 28/10/2021, con la quale la Corte d’Appello di Napoli rigettò il gravame, condannando l’appellante alle spese di lite.
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Contro la predetta sentenza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi. COGNOME NOME si difende con controricorso.
Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
In seguito a tale comunicazione, il ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
Fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ., il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
Considerato che :
Occorre, preliminarmente, evidenziare che, come affermato di recente dalle Sezioni unite di questa Corte, nel procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati ex art. 380bis cod. proc. civ. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), il presidente della sezione o il consigliere delegato che ha formulato la proposta di definizione può far parte -ed eventualmente essere nominato relatore del collegio investito della definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380bis .1 c.p.c., non versando in situazione di incompatibilità agli effetti degli artt. 51, primo comma, n. 4, e 52 cod. proc. civ., atteso che tale proposta non rivela una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta, che si sussegue nel medesimo giudizio di cassazione con carattere di autonomia e con contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa (Cass., Sez. U, 10/4/2024, n. 9611), sicché non rileva, nella specie, che il
collegio sia composto da un consigliere che ha anche redatto la proposta di definizione anticipata.
2.1 Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1615 cod. civ. e comunque del principio secondo cui il proprietario di un fondo concesso in godimento ad altro soggetto non è titolare del diritto al risarcimento dei danni conseguente alla perdita del raccolto, nonché degli artt. 177, 230bis e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, pur riconoscendo che il fondo era conAVV_NOTAIOo da COGNOME NOME NOME, avevano affermato che COGNOME NOME avesse diritto al risarcimento dei danni in quanto proprietario dei fondi divenuti interclusi e coniuge della titolare dell’azienda agricola costituita dopo il matrimonio in regime di comunione dei beni. Il ricorrente ha, sul punto, evidenziato che, a mente del citato art. 1615 cod. civ., il proprietario del fondo concesso in godimento ad altri non è titolare del diritto al risarcimento del danno subito dal conduttore, non avendo diritto ai frutti conseguenti alla coltivazione del fondo; che, pertanto, il controricorrente difettava di legittimazione ad agire; che l’azienda familiare ai sensi dell’art. 177 cod. civ. intanto poteva dirsi sussistente, in quanto fosse cogestita da entrambi i coniugi, non essendo sufficiente l’apporto di attività di tipo lavorativo, né la contitolarità di beni aziendali; che il controricorrente non aveva deAVV_NOTAIOo, né dimostrato la cogestione dell’azienda; che questi non era neppure titolare dei frutti, posto che gli stessi, conseguenti ad attività separata del coniuge, andavano a far parte della comunione solo de residuo al suo scioglimento, né titolare di rappresentanza reciproca; che la legittimazione ad agire non sussisteva neppure in caso di impresa familiare, posto che i familiari collaboranti non erano contitolari dell’impresa che restava individuale, né erano legittimati a far valere diritti di terzi.
I giudici di merito avevano, infine, errato allorché avevano affermato che l’appellante non aveva fornito la prova contraria, ossia che COGNOME NOME fosse estraneo all’impresa familiare, posto che spettava a quest’ultimo dimostrare i fatti posti a fondamento della domanda.
2.2 Il primo motivo è infondato.
Nelle azioni reali, come la confessoria o negatoria servitutis , la legittimazione processuale attiva e passiva spetta esclusivamente ai proprietari o ai titolari di un diritto reale di godimento sui fondi dominante e servente (Cass., Sez. 2, 27/5/1987, n. 4744; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11222), sicché il titolare di una servitù può agire in giudizio sia per farne accertare l’esistenza e il contenuto, sia per fare cessare eventuali impedimenti o turbative, nonché per chiedere la rimessione delle cose in pristino e il risarcimento del danno (Cass., Sez. 2, 26/2/1986, n. 1214; Cass., Sez. 2, 7/6/1976, n. 2071), mentre ai mezzadri, inquilini e titolari di altro diritto personale sulla cosa può riconoscersi soltanto un interesse di fatto che consente loro di intervenire in giudizio per sostenere le ragioni di una delle parti, ma non conferisce il potere di proporre impugnazione quando la parte legittimata abbia omesso di farlo (Cass., Sez. 2, 26/2/1986, n. 1214).
Diversamente da quanto accade quando sia proposta domanda di riduzione in pristino stato nei confronti de titolare del fondo servente, la quale, come detto, ha carattere reale e implica perciò che il titolare del fondo dominante abbia ancora la proprietà, l’azione risarcitoria ha viceversa carattere personale e può essere esercitata anche dal soggetto che abbia perso la titolarità della servitù, purché abbia subito i danni quando ancora la conservava, e contro l’autore della violazione da cui è derivato il danno, anche se non sia più proprietario del fondo servente, limitatamente ai danni maturati sino al momento in cui ha avuto luogo il trasferimento
della proprietà di detto fondo (Cass., Sez. 2, 26/2/1986, n. 1214; Cass., Sez. 2, 7/6/1976, n. 2071).
Nella specie, il ricorrente sostiene che il titolare del fondo dominante non avesse legittimazione a chiedere il risarcimento del danno, così confondendo, per un verso, la distinzione tra legittimazione ad agire, che attiene alla prospettazione, da parte di chi promuove il giudizio, di esserne parte attiva, e sussistenza della titolarità della posizione soggettiva, attiva e passiva, che spetta all’attore allegare e provare e che attiene al merito della controversia (Cass., Sez. U, 16/2/2016, n. 2951), e, per altro verso, il diritto al risarcimento del danno spettante in astratto al titolare di un diritto reale e la prova che un danno sia effettivamente occorso a colui che promuova la relativa azione.
Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto che l’appellato avesse diritto al risarcimento del danno occorsogli per effetto dell’impedimento, opposto dall’appellante, all’esercizio della servitù attiva ad esso spettante, ancorché l’attività agricola fosse svolta sul proprio fondo dalla moglie, derivando il proprio diritto dall’essere egli proprietario del fondo dominante.
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura.
3.1 Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la falsa applicazione degli artt. 1068, 1350 e 1227 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito affermato che lo spostamento della servitù, ai sensi dell’art. 1068 cod. civ., non poteva avvenire per iniziativa unilaterale del proprietario del fondo servente e che il percorso alternativo non risultava validamente offerto, stante l’assenza di un accordo scritto, senza considerare che la controversia non aveva a oggetto né lo spostamento della servitù, né la validità di un accordo redatto in assenza di forma scritta, ma la domanda di risarcimento del danno per l’impossibilità di accedere al fondo, così
da porsi quest’ultima circostanza come questio facti rilevante al fine di escludere il nesso di causalità, con conseguente inconferenza degli artt. 1068 e 1350 cod. civ.. Peraltro, il risarcimento del danno andava escluso in quanto l’attore aveva la possibilità di usare un’altra strada.
3.2 Il secondo motivo è inammissibile.
I giudici di merito hanno escluso la rilevanza dell’esistenza di un percorso alternativo, che avrebbe consentito al germano NOME COGNOME di accedere alla sua proprietà attraverso la strada INDIRIZZO e il varco aperto sulla particella 371 in sostituzione del tracciato previsto dall’atto di donazione (che prevedeva l’attraversamento anche delle particelle 370 e 217), sostenendo che questo non avrebbe potuto essere considerato una valida alternativa, sia perché provvisorio, sia perché non codificato in un apposito accordo; che lo spostamento della servitù non poteva avvenire per atto unilaterale del proprietario del fondo servente senza una decisione del giudice o una convenzione scritta; e che la strada alternativa risultava comunque interrotta perché interessata da un movimento franoso.
Alla luce di tali considerazioni, deve allora ritenersi che la questione prospettata nella censura, siccome incentrata sulla sola questione della necessità o meno della forma scritta al fine di modificare il percorso di una servitù di passaggio, non attinga tutte le rationes decidendi espresse nella sentenza, ivi compresa quella, in fatto, riguardante la sostanziale inutilizzabilità del percorso alternativo, idonea in sé a fondare la decisione.
Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui, in tema di impugnazioni, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di
tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3951; Cass., Sez. 2, 30/3/2022, n. 10257).
4.1 Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta l’ error in procedendo e la violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché, a fronte del motivo col quale era stato evidenziato che i danni riconosciuti avevano riguardato anche il fondo, tra i due di proprietà dell’attore, che non era soggetto ad alcuna servitù di passaggio, né aveva riguardato la domanda, i giudici di merito avevano dichiarato la questione inammissibile, tali essendo non soltanto le domande o eccezioni in senso stretto, ma anche le nuove contestazioni, ossia quelle non esplicate in primo grado, siccome idonee a modificare il tema di indagine e a trasformare il processo d’appello in un nuovo giudizio. Il ricorrente ha evidenziato come il divieto di cui all’art. 345 cod. proc. civ. non riguardasse le mere difese basate su fatti risultanti dagli atti di causa, introducibili in giudizio senza alcuna barriera preclusiva.
Il fatto poi che all’accertamento tecnico preventivo avessero partecipato i consulenti di entrambe le parti, pure evidenziato nella sentenza, non rilevava nella specie, poiché la contestazione aveva riguardato non la consulenza, bensì l’oggetto della domanda proposta.
4.2 Il terzo motivo è inammissibile.
Se è vero che la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi in aggiunta a quella deAVV_NOTAIOa in primo grado e, pertanto, non dà luogo ad una domanda
nuova, come tale inammissibile in appello ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 3, 30/11/2005, n. 26079; Cass., Sez. 3, 28/6/2006, n. 14961), con la conseguenza che hanno errato i giudici di merito nel ritenere nuova la doglianza afferente all’errata quantificazione dei danni patiti siccome prospettata soltanto in grado d’appello, è anche vero che la sentenza non contiene soltanto una siffatta argomentazione, ma fonda la decisione anche sugli esiti della c.t.u. resa nell’ambito dell’accertamento tecnico preventivo al quale avevano partecipato tutte le parti in causa, che avevano potuto sollevare rilievi sul numero delle piante e sulla quantità della produzione vinicola e olivicola.
In tal modo la Corte d’Appello ha sostanzialmente fatto proprio l’accertamento tecnico compiuto in quella sede anche alla luce delle osservazioni svolte dalle parti, con la conseguenza che la questione prospettata con la censura in esame mira piuttosto a sollecitare un nuovo esame nel merito della vicenda.
5. Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta la motivazione apparente, il difetto del minimo costituzionale di motivazione, l’ error in procedendo per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché, a fronte della doglianza riguardante la mancata produzione, da parte dell’attore, della documentazione afferente al fascicolo aziendale e alle fatture relative a proAVV_NOTAIOi vari, chiesta dal c.t.u. e autorizzata dal giudice in primo grado, e all’incompletezza delle prove volte a dimostrare i quantitativi di frutti proAVV_NOTAIOi e i prezzi ricavati dalla vendita, la Corte d’Appello si era limitata ad affermare che le questioni erano superate dalle prove offerte dall’appellato sull’esistenza e ammontare dei danni pretesi, senza valutare il contenuto della doglianza, con la quale ci si lamentava proprio del mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’attore.
Con il quinto motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 61 e ss. cod. civ., perché con la conAVV_NOTAIOa descritta al precedente quarto motivo erano state violate anche le citate disposizioni, posto che la c.t.u. costituiva un mezzo di ausilio per il giudice, volta ad approfondire fatti già provati dalle parti, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle stesse o a esonerarle dall’assolvimento dell’onere della prova.
Il quarto e il quinto motivo, da trattare congiuntamente in quanto vertenti sulla medesima questione della mancata produzione di documentazione relativa all’azienda agricola della moglie dell’appellato e alla valenza probatoria della c.t.u. sul punto, sono infondati.
La prima questione, con la quale si contesta sostanzialmente l’insufficienza della motivazione in merito alle prove si scontra coi principi affermati da questa Corte anche recentemente (vedi Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767, in motivazione), secondo cui «la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza”
della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Nella specie, i giudici di merito hanno chiaramente affermato che la doglianza riguardante la mancata produzione della documentazione necessaria a dimostrare la pretesa risarcitoria fosse infondata in quanto le istanze istruttorie avanzate nell’occasione erano superate sia dalle prove offerte dall’appellato in ordine all’esistenza e all’ammontare dei danni pretesi, sia dagli esiti del precedente giudizio di accertamento tecnico preventivo svoltosi nel pieno contraddittorio delle parti e dei rispettivi consulenti, con la conseguenza che la motivazione non può dirsi mancante.
Del resto, la valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione. L’omessa ammissione della prova può peraltro essere denunciata al giudice di legittimità solo nel caso in cui essa abbia determinato l’assenza di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con
un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass. 29/10/2018, n. 27415), aspetto questo non sussistente nella specie.
Va, infine, evidenziato che il ricorrente, che deduca il vizio di motivazione della sentenza impugnata per avere il giudice deciso la causa sulla base delle conclusioni di una consulenza tecnica, ignorando le critiche sollevate, ha l’onere di indicare nel ricorso in modo specifico gli errori e le omissioni del c.t.u., non considerate nella decisione, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione, senza che sia all’uopo sufficiente la mera riproposizione delle precedenti deduzioni (Cass., Sez. 2, 12/3/2002, n. 3568; Cass., Sez. 3, 13/7/2021, n. 19989).
8.1 Con il sesto motivo di ricorso, si lamenta, infine, l’ error in procedendo e la manifesta e irriducibile contraddittorietà, per avere la Corte d’Appello rigettato il primo motivo, sostenendo che non fosse stata dimostrata l’estraneità di NOME COGNOME allo svolgimento dell’impresa agricola della moglie sui terreni di sua proprietà, senza considerare che il c.t.u. aveva inutilmente invitato lo stesso a esibire la documentazione relativa (fascicolo aziendale, registro trattamenti fito/sanitari, denunce di produzione uva e di vendita uva e olive) e che non poteva dirsi non provata una circostanza e al contempo respingere le istanze istruttore avanzate a tal fine.
8.2 Il sesto motivo è inammissibile.
In disparte la genericità della censura nella parte in cui lamenta la mancata acquisizione di documentazione, stante la mancata
specificazione della sua decisività, si evidenzia sul punto che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ., -dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
La doglianza si appunta, invece, proprio sul cattivo esercizio del potere di valutazione delle prove che è rimesso esclusivamente al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, con conseguente sua inammissibilità.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza del primo motivo, del quarto e del quinto motivo e l’inammissibilità dei restanti, il ricorso
deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono esser poste a carico del ricorrente.
Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., con conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma – nei limiti di legge – in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge; condanna altresì il ricorrente, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma ulteriore liquidata in € 3.000,00, nonché al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18/9/2025.
Il Presidente NOME COGNOME