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Risarcimento danni: chi paga se la società fallisce?

Un’imprenditrice ha agito in giudizio per i danni da allagamento subiti dal suo bar, gestito tramite una società poi fallita. La Cassazione ha respinto il suo ricorso, chiarendo un principio fondamentale sul risarcimento danni: il diritto al ristoro spetta unicamente al soggetto giuridico che ha subito il pregiudizio, in questo caso la società. Poiché la società fallita non aveva impugnato la sentenza di primo grado, la sua legale rappresentante non poteva chiedere in proprio il risarcimento per le spese sostenute dall’azienda.

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Risarcimento Danni: Chi Paga se la Società è Fallita?

Il tema del risarcimento danni assume contorni complessi quando coinvolge una società fallita e il suo legale rappresentante. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un punto cruciale: il diritto al risarcimento spetta esclusivamente al soggetto che ha subito il danno. Se una società subisce un pregiudizio ma non agisce in giudizio per tutelarsi, il suo rappresentante non può sostituirsi ad essa e chiedere il risarcimento in proprio. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso

La vicenda ha origine dall’allagamento di un bar, gestito da una società a responsabilità limitata, a causa di acque provenienti dalla fognatura comunale. I danni furono tali da rendere il locale inagibile e costringerlo alla chiusura. L’amministratrice della società, agendo sia in proprio che in nome dell’azienda, citava in giudizio il Comune, il concessionario di uno stabilimento balneare vicino e la società incaricata della manutenzione della rete fognaria, ritenendoli responsabili dell’accaduto.

Nelle more del giudizio, la società di gestione del bar falliva. Il Tribunale di primo grado accoglieva parzialmente la domanda dell’amministratrice per i danni subiti personalmente, condannando il Comune e il concessionario al pagamento di una somma, ma rigettava la domanda presentata per conto della società. L’amministratrice proponeva appello, lamentando sia il mancato riconoscimento della responsabilità degli altri convenuti, sia l’esiguità della somma liquidata. La società fallita, invece, non impugnava la decisione.

La questione del risarcimento danni in appello

La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione, confermando la decisione di primo grado. I giudici osservavano che, non avendo la curatela fallimentare proposto appello, la questione relativa ai danni subiti dalla società era ormai definitiva. L’oggetto del contendere rimaneva quindi circoscritto ai soli danni personali dell’amministratrice, per i quali non era emersa prova di un pregiudizio maggiore di quello già liquidato.

L’imprenditrice ricorreva quindi in Cassazione, basando la sua impugnazione su quattro motivi principali, tra cui l’erronea valutazione delle prove e la violazione delle norme sul risarcimento del danno.

le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, rigettandolo integralmente. Vediamo le ragioni punto per punto.

1. Valutazione delle prove: I primi due motivi, con cui la ricorrente contestava l’affidamento dei giudici di merito alla Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) a discapito di altre prove come la relazione dei Vigili del Fuoco, sono stati giudicati inammissibili. La Cassazione ha ribadito che la valutazione delle prove è un compito esclusivo del giudice di merito e non può essere oggetto di una nuova analisi in sede di legittimità, a meno che non si denunci un vizio di motivazione specifico, cosa che nel caso di specie non era avvenuta.

2. Titolarità del diritto al risarcimento: Il terzo motivo, cuore della controversia, è stato ritenuto palesemente infondato. La ricorrente sosteneva di avere diritto anche al risarcimento delle spese sostenute dalla società (poi fallita) per riparare i danni. La Corte ha smontato questa tesi con un ragionamento lineare: il risarcimento danni spetta a chi ha subito il danno. Nel caso specifico, le spese di riparazione e i danni al locale erano un pregiudizio subito dalla società, un soggetto giuridico distinto dalla persona fisica del suo legale rappresentante. Era la società, quindi, che avrebbe dovuto agire per ottenere il ristoro. Avendo la società (e per essa la curatela fallimentare) scelto di non appellare la sentenza di primo grado, la sua pretesa risarcitoria si è definitivamente estinta. L’amministratrice non poteva avanzare in proprio una pretesa che apparteneva a un altro soggetto giuridico.

3. Spese di lite: Anche il quarto motivo, relativo alla condanna al pagamento delle spese legali, è stato respinto. La Corte ha osservato che in appello la ricorrente era risultata totalmente soccombente, pertanto la decisione di addebitarle le spese era corretta e conforme alla legge.

le conclusioni

La decisione della Cassazione riafferma un principio cardine del nostro ordinamento: la netta separazione tra la personalità giuridica della società e quella dei suoi soci o amministratori. Il diritto al risarcimento danni è un diritto personale del soggetto danneggiato. Se il danno è patito da una società, solo quest’ultima (o la sua curatela fallimentare) è legittimata a richiederne il ristoro. Il legale rappresentante non può agire in proprio per recuperare perdite subite dall’ente, poiché ciò significherebbe confondere due patrimoni e due centri di imputazione giuridica che la legge tiene ben distinti.

Se una società subisce un danno ma non fa appello contro una sentenza sfavorevole, il suo legale rappresentante può chiedere il risarcimento per le spese sostenute dalla società?
No. Il diritto al risarcimento spetta esclusivamente al soggetto che ha subito il danno. In questo caso, il danno patrimoniale (come le spese di riparazione) è stato subito dalla società, che è un soggetto giuridico distinto dal suo rappresentante. Se la società non impugna la decisione, il suo diritto si estingue e il rappresentante non può farlo valere in proprio.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione delle prove (come una perizia tecnica) fatta dal giudice di merito?
No, di regola non è possibile. La valutazione delle prove e l’apprezzamento dei fatti sono compiti riservati al giudice di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Il ricorso in Cassazione non è un terzo grado di giudizio, ma un controllo sulla corretta applicazione della legge. Si può contestare solo un vizio di motivazione grave o l’omesso esame di un fatto decisivo, non la scelta del giudice di dare più credito a una prova piuttosto che a un’altra.

Quando una parte viene considerata “totalmente soccombente” in appello ai fini del pagamento delle spese legali?
Una parte è totalmente soccombente quando il suo appello viene interamente rigettato. In questo caso, l’imprenditrice aveva impugnato la sentenza di primo grado chiedendo sia il riconoscimento di responsabilità di altre parti, sia un aumento del risarcimento. Poiché la Corte d’Appello ha respinto tutte le sue richieste, confermando in toto la decisione precedente, la sua posizione è di totale soccombenza, giustificando la condanna al pagamento delle spese di lite.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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