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Risarcimento appalti pubblici: la prova non è dovuta

Un’impresa edile si opponeva allo stato passivo del fallimento della società committente, chiedendo un cospicuo risarcimento per la risoluzione di un contratto d’appalto. Il tribunale aveva concesso solo una minima parte, negando il risarcimento per spese generali e mancato utile per assenza di prove. La Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione, affermando che nel contesto degli appalti pubblici, il risarcimento per l’illegittima sospensione dei lavori e per il mancato utile non richiede una prova specifica del danno. Questo perché la normativa di settore prevede una quantificazione presuntiva, basata su percentuali fisse (come il 10% dell’importo dei lavori non eseguiti per il mancato utile), sollevando l’impresa dall’onere di dimostrare il pregiudizio subito.

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Risarcimento appalti pubblici: la Cassazione chiarisce quando la prova del danno non è necessaria

Il tema del risarcimento appalti pubblici è cruciale per le imprese che operano nel settore delle costruzioni. Un’illegittima sospensione dei lavori o la risoluzione del contratto per colpa della stazione appaltante possono causare ingenti danni economici. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale a tutela dell’appaltatore: in molti casi, il diritto al risarcimento sorge in via presuntiva, senza la necessità di una complessa e spesso difficile prova del danno subito.

I Fatti di Causa

Una società di costruzioni, mandataria di un’Associazione Temporanea di Imprese (A.T.I.), aveva stipulato un contratto d’appalto per la progettazione e realizzazione di un Polo Multifunzionale. A causa di gravi inadempimenti della società committente, il contratto veniva risolto di diritto prima della dichiarazione di fallimento di quest’ultima. L’impresa appaltatrice chiedeva quindi di essere ammessa al passivo del fallimento per una somma superiore a 6 milioni di euro, a titolo di risarcimento per i danni subiti, comprensivi di spese generali per l’inattività del cantiere e del mancato utile.

La Decisione del Tribunale

Il Tribunale, in prima istanza, accoglieva solo parzialmente la domanda, ammettendo l’impresa al passivo per una somma molto inferiore, pari a circa 176.000 euro, relativa unicamente ai maggiori oneri per le polizze fideiussorie. La corte territoriale respingeva le richieste di ristoro per le spese generali e per il lucro cessante, motivando la decisione con la mancanza di una prova rigorosa sull’ammontare del danno. Secondo il Tribunale, l’impresa non aveva fornito elementi sufficienti a dimostrare né i costi fissi sostenuti durante lo stop dei lavori, né l’impossibilità di riutilizzare mezzi e manodopera in altri cantieri.

Il Ricorso e la questione del risarcimento appalti pubblici

L’impresa appaltatrice ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione delle norme specifiche che regolano gli appalti pubblici. I motivi del ricorso si sono concentrati su due punti chiave:

1. Spese generali: Secondo la ricorrente, la normativa di settore (tra cui il d.P.R. n. 554/1999 e il d.m. n. 145/2000, applicabili ratione temporis) prevede che il danno da sospensione illegittima dei lavori sia quantificato in base alle spese generali infruttifere, in modo automatico e presuntivo, senza richiedere alcuna prova ulteriore se non la durata dell’illegittima sospensione.
2. Mancato utile (lucro cessante): Analogamente, l’impresa sosteneva che, in caso di risoluzione del contratto per colpa della stazione appaltante, il risarcimento del danno da mancato utile è determinato presuntivamente nella misura del 10% dell’importo delle opere non eseguite, come stabilito da una normativa consolidata a partire dalla legge sui lavori pubblici del 1865.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto pienamente i motivi del ricorso, cassando il decreto del Tribunale e rinviando la causa per un nuovo esame. I giudici di legittimità hanno riaffermato un principio consolidato nella giurisprudenza sugli appalti pubblici: il risarcimento di determinate voci di danno non dipende da una prova concreta fornita dall’appaltatore, ma è presunto dalla legge.

La Corte ha spiegato che, fin dal d.m. 29/5/1895, il legislatore ha introdotto una disciplina analitica per determinare le spese generali e gli utili non conseguiti in caso di illegittima sospensione o risoluzione del contratto. Queste norme, evolutesi nel tempo ma costanti nel principio, fissano una percentuale predeterminata (come il 10% per il mancato utile) come criterio di liquidazione del danno. Tale meccanismo crea una vera e propria presunzione di danno, sollevando l’impresa dal gravoso onere di dimostrare nel dettaglio le perdite subite. Il danno è, in un certo senso, considerato esistente per il solo fatto dell’inadempimento della stazione appaltante.

Questo approccio si giustifica perché le spese generali sono un costo inerente all’esistenza stessa dell’impresa e all’impianto del cantiere, che diventano un danno puro quando l’attività viene bloccata ingiustamente. Allo stesso modo, il mancato utile è la conseguenza diretta della mancata esecuzione dei lavori previsti dal contratto.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un’importante tutela per le imprese appaltatrici nel settore dei lavori pubblici. La Suprema Corte chiarisce che il diritto al ristoro per spese generali e mancato utile, in caso di inadempimento della committente, non è subordinato a una prova complessa e spesso diabolica. Al contrario, il legislatore ha previsto dei criteri di quantificazione automatici e presuntivi che semplificano l’accesso al risarcimento. Questa decisione rappresenta un fondamentale punto di riferimento per gli operatori del settore, riequilibrando la posizione dell’appaltatore nei confronti della stazione appaltante e garantendo una più certa ed efficace tutela in caso di patologie contrattuali.

In un appalto pubblico, se i lavori vengono sospesi illegittimamente, l’impresa deve provare il danno per le spese generali per ottenere un risarcimento?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il danno derivante dalle spese generali per l’illegittima sospensione dei lavori è risarcibile in via automatica e presuntiva, anche in assenza di una prova specifica, poiché tali costi sono una conseguenza diretta e inevitabile dell’inattività del cantiere.

Come viene calcolato il risarcimento per il mancato utile in caso di risoluzione del contratto per colpa della stazione appaltante?
Il risarcimento per il mancato utile (lucro cessante) viene quantificato in via presuntiva, secondo un criterio stabilito dalla normativa sugli appalti pubblici (originariamente l’art. 345 della l. n. 2248/1865), in una misura pari al 10% dell’importo delle opere non eseguite, senza che l’appaltatore debba dimostrare di non aver potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori.

La normativa che prevede un risarcimento presuntivo per le spese generali è ancora valida anche se le leggi specifiche sono state abrogate nel tempo?
Sì. La Corte afferma che il principio di un risarcimento presuntivo per le spese generali e il mancato utile è un cardine del sistema degli appalti pubblici, presente fin dal d.m. del 1895 e confermato dalle normative successive, che hanno sempre previsto una disciplina analitica per la determinazione di queste voci di danno, a prescindere dalle specifiche abrogazioni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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