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Ripartizione utili ATI: chi non lavora non guadagna

Una società di costruzioni, membro al 50% di un’Associazione Temporanea di Imprese (ATI) per un appalto pubblico, ha citato in giudizio la partner per ottenere la sua quota di utili, pur non avendo eseguito alcun lavoro. La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei gradi precedenti, respingendo la richiesta. Il principio chiave ribadito è che, in assenza di un diverso accordo, la ripartizione utili ATI deve essere proporzionale al lavoro effettivamente svolto da ciascun membro. Nessun lavoro, nessun profitto.

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Ripartizione utili ATI: la Cassazione stabilisce che i profitti seguono il lavoro

In un’Associazione Temporanea di Imprese (ATI), è possibile pretendere una quota dei profitti anche se non si è partecipato concretamente all’esecuzione dei lavori? A questa domanda cruciale ha risposto la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, chiarendo un principio fondamentale: la ripartizione utili ATI è, di norma, strettamente legata al contributo operativo di ciascuna impresa. Senza lavoro svolto, non c’è diritto agli utili.

I Fatti di Causa

La vicenda vede contrapposte due società di costruzioni, che chiameremo per privacy Società Alfa e Società Beta. Le due imprese avevano costituito un’ATI, con quote paritetiche del 50%, per partecipare a una gara d’appalto indetta da un importante ente pubblico per la realizzazione di lavori stradali. La Società Beta ricopriva il ruolo di capogruppo con mandato all’incasso.

L’ATI si aggiudicava l’appalto ma, secondo la Società Alfa, quest’ultima veniva di fatto esclusa da ogni attività esecutiva dalla partner Beta. Successivamente, a seguito di un contenzioso con la stazione appaltante, un lodo arbitrale riconosceva all’ATI una cospicua somma di oltre 13 milioni di euro.

A questo punto, la Società Alfa citava in giudizio la Società Beta, chiedendo il pagamento della sua quota del 50% sia sull’utile derivante dai lavori, sia sulle somme liquidate dal lodo arbitrale, per un totale di 4 milioni di euro.

Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello rigettavano la domanda. I giudici di merito accertavano che i lavori erano stati eseguiti integralmente ed esclusivamente dalla Società Beta e che, pertanto, gli utili erano stati legittimamente incassati dall’unica impresa che aveva effettivamente operato. La Società Alfa, non avendo dimostrato di aver svolto lavori o sostenuto spese, non poteva accampare pretese.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla Ripartizione Utili ATI

La Società Alfa ricorreva quindi in Cassazione, sostenendo principalmente due punti:
1. L’esistenza di un presunto accordo tacito per una sua partecipazione “di facciata” sarebbe stato nullo, e quindi la ripartizione degli utili avrebbe dovuto seguire le quote di partecipazione all’ATI (50%).
2. I giudici di merito avrebbero omesso di considerare fatti decisivi, come il suo contributo in termini di reputazione e requisiti tecnici, essenziali per vincere la gara.

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno chiarito che la questione non era la validità di un accordo interno, ma un dato puramente fattuale: l’integrale esecuzione dei lavori da parte della sola Società Beta.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha basato la sua decisione su un principio cardine: la ripartizione degli utili tra le imprese partecipanti all’ATI avviene, salvo diverso accordo, in misura paritaria e comunque proporzionale al lavoro svolto. Questo principio, definito nella sentenza come la ratio decidendi, è stato il fulcro del ragionamento.

I giudici hanno evidenziato che la corte d’appello non aveva accertato l’esistenza di un accordo interno, ma si era limitata a riscontrare il dato “di fatto” dell’esecuzione integrale dei lavori da parte della sola capogruppo. La Società Alfa non solo non aveva eseguito alcuna opera, ma non era neanche riuscita a fornire prove concrete delle spese che asseriva di aver sostenuto.

La Cassazione ha sottolineato come sia “difficile immaginare che si possano pretendere remunerazioni per ciò che non si è fatto”. Il contributo alla vittoria dell’appalto tramite la propria reputazione o le proprie qualifiche, sebbene importante, non è sufficiente a fondare una pretesa economica sugli utili generati dalla fase esecutiva del contratto, fase alla quale l’impresa è rimasta totalmente estranea.

Infine, la Corte ha ribadito che il ricorso per cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito, volto a una nuova valutazione dei fatti già accertati dai giudici dei gradi precedenti.

Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un principio di fondamentale importanza pratica per le imprese che operano tramite ATI. La partecipazione a un raggruppamento temporaneo non è una mera formalità, ma implica un impegno concreto all’esecuzione del contratto. Per avere diritto alla ripartizione utili ATI, non è sufficiente essere titolari di una quota di partecipazione, ma è necessario dimostrare di aver contribuito materialmente alla realizzazione delle opere.

Questa sentenza serve da monito: le imprese devono definire con chiarezza nei patti interni all’ATI i ruoli, i compiti e i criteri di ripartizione dei corrispettivi e degli utili, per evitare che la parte che si assume l’intero onere dell’esecuzione veda i propri profitti erosi da partner che non hanno fornito un contributo operativo. In assenza di tali accordi, il criterio sovrano rimane quello della proporzionalità rispetto al lavoro effettivamente svolto.

In una Associazione Temporanea di Imprese (ATI), un’impresa associata ha diritto alla sua quota di utili se non ha partecipato all’esecuzione dei lavori?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che, salvo diverso accordo, la ripartizione degli utili tra le imprese partecipanti all’ATI avviene in misura proporzionale al lavoro concretamente svolto. L’assenza totale di partecipazione all’esecuzione delle opere esclude il diritto a percepire gli utili derivanti da tale esecuzione.

L’aver contribuito a vincere l’appalto con la propria reputazione e le proprie qualifiche è sufficiente per pretendere una parte dei profitti?
No. Secondo la sentenza, questi elementi sono rilevanti per l’aggiudicazione dell’appalto ma non bastano a giustificare una pretesa sugli utili derivanti dall’esecuzione materiale dei lavori. La remunerazione spetta a chi ha effettivamente eseguito le opere e sostenuto i relativi costi.

Un accordo interno che esclude un’impresa dai lavori è rilevante ai fini della ripartizione degli utili?
La Corte non si è pronunciata sulla validità di un presunto accordo interno perché non ne ha riscontrato l’esistenza nei fatti di causa. La decisione si è basata sul dato oggettivo che un’impresa ha eseguito integralmente i lavori e l’altra no. Di conseguenza, il principio applicato è che gli utili spettano legittimamente all’unica società che ha effettivamente eseguito le opere.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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