Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2049 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 2049 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15025/2020 R.G. proposto da: COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
ASSESSORATO RAGIONE_SOCIALE‘ DELLA REGIONE SICILIANA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di PALERMO n. 656/2019 depositata il 25/03/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Curatela del RAGIONE_SOCIALE, in persona del curatore, ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Palermo l’Assessorato Lavori Pubblici della Regione Siciliana, esponendo che, in data 23.11.1990, il geom. NOME COGNOME COGNOME titolare dell’omonima impresa, aveva stipulato con l’Amministrazione un contratto di appalto relativo ai lavori di costruzione di un tratto di banchine interno al molo di levante del porto di Marsala, e che nella contabilità dei lavori l’impresa appaltatrice aveva iscritto quattro riserve, mentre la Curatela del Fallimento, subentrata a seguito della declaratoria di fallimento della Romano S.p.A.RAGIONE_SOCIALE aveva apposto un’altra riserva sullo stato finale dei lavori.
L’attrice ha chiesto pertanto il pagamento delle somme iscritte alle riserve n. 1, 2, 3, 4, per complessivi € 2.865.866,01 e l’accertamento della fondatezza della riserva n. 5, apposta dalla Curatela sullo stato finale, relativa alla penale per la ritardata ultimazione dei lavori, con dichiarazione che nulla era dovuto a titolo di penale e che, quindi, la Curatela vantava un credito di € 32.718,24 o, in subordine, con riduzione della penale da € 222.462,90 a € 103.291,38.
Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 3518/2012, ha rigettato le domande relative alle riserve n. 1, 2, 3, 4 e ha parzialmente accolto la domanda relativa alla riserva n. 5, riducendo l’ammontare della penale contrattuale in €103.291,38, da portare a decomputo del debito dell’impresa, calcolato dalla stazione
appaltante con il decreto assessoriale n. 1217/149 del 29.7.2005 di approvazione del collaudo in € 189.744,66, determinando così il debito della Curatela derivante dall’esecuzione del contratto di appalto nella minor somma di € 86.453,28.
Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello la Curatela del Fallimento, lamentando il mancato accoglimento delle domande relative alle cinque riserve e, in subordine, l’errata determinazione da parte del Tribunale del debito dell’impresa nei confronti dell’Amministrazione.
Ha resistito all’appello l’Assessorato Infrastrutture e Mobilità della Regione Siciliana (succeduto al soppresso Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana), aderendo al motivo di gravame dell’appellante concernente l’erroneità del calcolo effettuato dal Tribunale nel determinare il credito dell’Amministrazione e richiedendo il rigetto dei restanti motivi di appello.
La Corte di Appello Palermo, con sentenza n. 656/2019, ha parzialmente accolto il gravame, rideterminando nella somma di € 70.753,14 il debito della Curatela derivante dall’esecuzione del contratto di appalto e confermando nel resto la sentenza di primo grado.
La Corte di Appello, per quanto ancora rileva, ha affermato, in relazione alla riserva n. 1 – iscritta per ‘ oneri diretti passivamente sopportati’, per ‘ mancati utili connessi al non prodotto in termini’ e per ‘ maggiori costi sopportati per lo scavo del cunettone eseguito artigianalmente’ – che nessuna pretesa indennitaria poteva essere avanzata dalla Curatela in quanto la predetta riserva era stata rinunciata con raccomandata del 16.5.1994. Inoltre, tale rinuncia era irrevocabile e, ove fosse stata accolta la tesi circa la revocabilità della rinunzia ad una riserva, sarebbe stata sacrificata l’esigenza posta a fondamento del sistema delle riserve, cioè la possibilità per la stazione appaltante di esercitare in ogni momento
il controllo della spesa derivante dal contratto di appalto, con la conseguente possibilità di adottare le opportune iniziative.
Il giudice d’appello ha, altresì, osservato che nessuna responsabilità poteva imputarsi all’Assessorato in relazione ai fattori pregiudizievoli verificatisi successivamente al 16.5.1994 (data della raccomandata con cui la Curatela ha reiterato le pretese di cui alla riserva n.1), atteso che nessun onere o intervento era previsto a carico dell’Assessorato, e che il dilatamento dei tempi necessari per il completamento dell’iter burocratico per il rilascio delle autorizzazioni che hanno consentito la ripresa dei lavori fu dovuto al coinvolgimento di diversi organi amministrativi, terzi ed estranei all’Assessorato Regionale, oltre all’assenza di un’efficace coordinamento tra i suddetti organi. Tale ritardo non era, peraltro, facilmente prevedibile da parte dell’Assessorato, anche in ragione del fatto che fu determinato da circostanze del tutto indipendenti dalla volontà dello stesso.
La Corte d’Appello ha ritenuto infondate le doglianze della Curatela in ordine al rigetto delle pretese relative alla riserva n. 2 – avente ad oggetto il riconoscimento dei maggiori costi per la realizzazione e la posa di 41 pile di massi artificiali, divenute 43 in seguito alla riproposizione della riserva con nota del 16.5.1994 – atteso che, con riferimento alle 41 pile iniziali, anche tale riserva era stata rinunciata con nota del 12.02.1994, mentre, con riferimento alle ulteriori due pile, i rilievi della Curatela non sono stati ritenuti idonei a confutare le argomentazioni svolte dal primo giudice.
Quanto alla riserva n. 3, avente ad oggetto la richiesta di indennizzi per il prolungamento e l ‘ illegittimo blocco dei lavori per sei mesi (aprile 1994 -settembre 1994), derivante dalla mancata contabilizzazione dei lavori eseguiti, la stessa è stata ritenuta non fondata:
-perché nessuna responsabilità era addebitabile all’Assessorato, rimasto estraneo all’iter burocratico per il rilascio delle necessarie autorizzazioni;
-perché doveva ritenersi ingiustificata l’unilaterale sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore, non essendo ancora maturati gli importi necessari per l’emanazione del SAL;
-perché nel giudizio di primo grado l’impresa aveva addotto differenti giustificazioni in ordine alla sospensione dei lavori.
La Corte d’Appello, ha, altresì, ritenuto che nessuna pretesa indennitaria poteva essere avanzata dalla Curatela in relazione alle singole voci su cui era stata articolata la riserva n. 4, in quanto: a) con riferimento alla mancata contabilizzazione del ferro adoperato per armare 33 massi cellulari, di gran lunga superiore a quello preventivato, l’impresa COGNOME, con nota del 28.9.1993, si era impegnata a non richiedere alcun compenso per le ulteriori modifiche da apportare; b) con riferimento all’indennizzo per il prolungamento delle polizze fideiussorie, dovuto all’inusitata protrazione del vincolo contrattuale determinata dall’anomalo andamento dei lavori, valeva quanto già detto circa l’estraneità dell’Assessorato al completamento del summenzionato iter burocratico; c) con riferimento alla mancata contabilizzazione di una quota parte dei massi cellulari, era già stato confermato in primo grado che l’altezza dei cassoni contabilizzata era corrispondente a quella accertata in sede di collaudo.
Infine, con riferimento alla riserva n. 5, la Corte territoriale ha ritenuto che il ritardo di quattro mesi nell’ultimazione dei lavori, presupposto dell’applicazione della penale, non derivava né dall’ammissione, in data 15.11.1994, dell’appaltatore alla procedura di amministrazione controllata per due anni, né da una condotta colposa dell’Assessorato.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE affidandolo a cinque motivi.
L ‘ Assessorato Infrastrutture e Mobilità della Regione Siciliana ha resistito in giudizio con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria del 26.3.2024 , è stata disposta la rimessione della causa in pubblica udienza per affrontare la questione, di evidente natura nomofilattica, della revoca della rinuncia della riserva nell’ambito della disciplina dell’appalto pubblico.
La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 378 c.p.c. (dopo aver depositato precedentemente la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.).
Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va esaminata, in primo luogo, l’eccezione preliminare, sollevata dall’Assessorato controricorrente, di nullità della notifica del ricorso per violazione dell’art. 11 r.d. n. 1611/1933, in quanto il ricorrente avrebbe notificato il ricorso presso la sede dell’Avvocatura dello Stato Distrettuale e non presso la sede dell’Avvocatura Generale dello Stato.
Tale eccezione deve essere rigettata.
Anche, recentemente, questa Corte (Cass. 12410/2020) ha enunciato il principio di diritto secondo cui, qualora il ricorso per cassazione sia notificato all’Avvocatura distrettuale dello Stato anziché all’Avvocatura Generale dello Stato, il vizio della notifica è sanato, con efficacia “ex tunc”, dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso, da cui si può desumere che l’atto abbia raggiunto il suo scopo.
Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 64 del R.D. 25.05.1895 n. 350, 111, I e VI comma Cost., 132, I comma n. 4 e 360 c.p.c. Lamenta la ricorrente che la Corte di Appello ha erroneamente affermato la irrevocabilità della rinuncia alla riserva n. 1 e la non addebitabilità alla stazione appaltante dei danni determinati dal quale
ritardo nel rilascio delle autorizzazioni, a causa del l’appaltatore ha potuto riprendere i lavori soltanto nel luglio 1996.
In particolare, ad avviso della ricorrente, la decisione della Corte d ‘ Appello è errata alla luce delle seguenti considerazioni:
sulla scorta di quanto previsto dall’art. 64 r.d. n. 350/1895, applicabile ratione temporis , la riserva sarebbe un atto ad efficacia necessariamente provvisoria, poiché soggetto alla condicio iuris della successiva conferma con la sottoscrizione del conto finale; sicché la natura interinale delle riserve, comporterebbe che ogni rinuncia – in quanto actus contrarius -avrebbe la medesima disciplina giuridica della rispettiva riserva e, pertanto, non potrebbe divenire irrimediabilmente definitiva non appena viene espressa;
l’irrevocabilità della rinuncia non potrebbe desumersi neppure dall’esigenze di tutela della P.A. e di perseguimento del pubblico interesse, atteso che la discrezionalità amministrativa dell’Amministrazione si esaurirebbe nella fase di scelta del contraente, essendo la successiva esecuzione del contratto governata dalle norme civilistiche;
ai sensi dell’art. 1664, co. 2, c.c. la Curatela fallimentare avrebbe diritto di ottenere dall’Amministrazione il ristoro dei maggiori costi sostenuti a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni per la prosecuzioni dei lavori, atteso che sia l’Assessorato Regionale, quale stazione appaltante, sia l’Ufficio del Genio Civile per le Opere Marittime di Palermo, che seguiva e dirigeva i lavori per conto dell’Assessorato, sarebbero stati a
conoscenza dell’iter burocratico e del suo ritardo e sarebbero intervenuti in maniera non diligente per pervenire al rilascio dell’autorizzazione del Ministero dell’Ambiente, venendo così meno agli obblighi propri della stazione appaltante.
Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – 111, commi 1 e 4 Cost., 132, comma 1 n. 4 e 360 c.p.c.
Lamenta il ricorrente, riproducendo le medesime argomentazioni svolte in relazione al primo motivo, che la Corte di Appello ha errato nell’affermare la irrevocabilità della rinuncia alla riserva n. 2 (quanto alle prime 41 pile).
Aggiunge, inoltre, che il giudice di secondo grado è incorso in errore laddove, in applicazione dell’art. 1375 c.c., ha ritenuto infondate le doglianze relative al mancato riconoscimento dei maggiori costi per la realizzazione e la posa della ulteriori due pile di massi artificiali.
I primi due motivi, da esaminarsi unitariamente, in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, presentano concomitanti profili di infondatezza ed inammissibilità.
Va, in primo luogo, osservato che questo Collegio condivide l’impostazione della Corte d’Appello in ordine alla non revocabilità della rinuncia della riserva, anche se sono opportune alcune precisazioni sia con riferimento all’istituto della rinuncia secondo i principi generali nel diritto civile, sia in relazione alla disciplina speciale degli appalti pubblici.
La Corte territoriale ha seguito il costante orientamento di questa Corte di legittimità secondo cui la rinunzia è un negozio unilaterale e normalmente non recettizio, con la conseguenza che, allorché la volontà, abdicativa del diritto, si esteriorizza, anche tacitamente,
diviene efficace, e perciò irrevocabile (Cass. 6872/1997; vedi anche Cass. 387/1969).
Questo Collegio ritiene che non può affermarsi tout court la natura non recettizia dell’atto di rinuncia, dovendosi distinguere a seconda che l’atto dismissivo abbia ad oggetto diritti reali oppure diritti di credito.
Nel primo caso, la rinuncia può ritenersi effettivamente non recettizia, non avendo ad oggetto un destinatario immediato; se, infatti, per effetto della rinuncia, vi è un accrescimento del patrimonio di altro soggetto, questo avviene sempre in via mediata ed indiretta né può essere lo scopo del rinunciante.
A diverse conclusioni si deve, invece, addivenire nel caso in cui la rinuncia abbia ad oggetto un diritto di credito, che ha indubbiamente natura recettizia.
Tale fattispecie si ispira e trova la sua disciplina positiva nella remissione di debito, che costituisce un atto unilaterale recettizio che, al pari di ogni dichiarazione recettizia, si perfeziona con la sua comunicazione alla persona cui è diretta, estinguendo il debito (art. 1236 cod. civ.), salvo che il destinatario dichiari di non volerne approfittare.
La rinuncia della riserva rientra pacificamente nella categoria della rinuncia ad un diritto di credito, consistendo la riserva in una richiesta economica che viene rivolta dall’appaltatore alla stazione appaltante e che viene cristallizzata nel registro di contabilità dell’appalto al fine di far valere l’incidenza di fattori sopravvenuti, tali da rendere più onerosa per l’appaltatore l’esecuzione dei lavori rispetto quanto originariamente pattuito.
Ne consegue che, al fine di valutare la revocabilità di tale atto dismissivo, si applica la disciplina dell’art. 1236 cod. civ., che attribuisce alla rinuncia (al diritto di credito) un effetto (irreversibilmente) estintivo, e quindi non più revocabile, nel momento in cui viene portata a conoscenza del destinatario.
Questa regola generale non soffre eccezioni neppure nella disciplina speciale degli appalti pubblici e la deduzione del ricorrente, secondo cui, la revocabilità della rinuncia delle riserve avrebbe il proprio fondamento nella natura interinale delle medesime – in quanto soggette alla condicio iuris della successiva conferma con la sottoscrizione del conto finale, con la conseguenza che ogni rinuncia, in quanto actus contrarius , avrebbe la medesima disciplina giuridica della rispettiva riserva e, pertanto, non potrebbe divenire irrimediabilmente definitiva non appena viene espressa – si pone in netto contrasto, oltre che con sopra enunciati principi generali in tema di rinuncia ad un diritto di credito, anche con la ratio del regime, particolarmente rigoroso, delle decadenze previsto dalla disciplina degli appalti pubblici.
In particolare, è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 4718/2018; Cass. n. 9518/2019) che dall’interpretazione degli artt. 53, 54 e 64 del r.d. n. 350/1895 -normativa vigente ratione temporis , essendo il contratto d’appalto stato stipulato in data 23.11.1990 – emerge che l’attuazione dell’opera pubblica, dalla gara di appalto, alla consegna dei lavori, alla loro esecuzione ed al collaudo, si compie in fasi successive attraverso un procedimento formale e vincolato, che si articola in una serie di registrazioni e certificazioni, alla cui formazione l’appaltatore è chiamato di volta in volta a partecipare. In particolare, all’appaltatore sono imposti oneri, resi evidente dal riferimento operato dall’art. 53 del r. d. n. 350 del 1895 alla necessità che il medesimo indichi tutte le domande che intende far valere, di contestare immediatamente ogni circostanza che riguardi le prestazioni (eseguite o non), la quale sia suscettibile di comportare un incremento delle spese previste, mediante un atto, pur esso a forma vincolata quanto a tempo e modalità di formulazione, cui deve provvedere tempestivamente, a pena di decadenza.
Infatti, l’art. 54 r.d. n. 350/1895 prevede espressamente le conseguenze delle omissioni di firma del registro di contabilità (per rifiuto o per inerzia) e della esplicazione in termini delle riserve tempestivamente iscritte in modo generico: in entrambi i casi ‘si avranno come accertati i fatti registrati e l’appaltatore decadrà dal diritto di far valere in qualunque tempo e modo, riserve o domande che ad essi si riferiscano’ (co. 5). Dunque, in difetto di firma, come in ipotesi di difetto di esplicazione delle riserve, si determina un consolidamento della contabilità dell’appalto pubblico, si verificano, in particolare, due effetti, l’uno, negativo, consistente nella decadenza dell’appaltatore dal potere di impugnare i dati contabili, l’altro, positivo, consistente nella definitività di tali dati. Peraltro, la definitività dei dati contabili ha carattere soggettivamente relativo, cioè riguarda solo l’appaltatore. Questo appare con chiarezza dalle norme -segnatamente, gli artt. 64 co. 3 (in tema di mancata sottoscrizione del conto finale, o di firma del medesimo senza conferma delle riserve precedenti), 89 co. 3 (in generale circa gli effetti della omessa sottoscrizione dei documenti contabili), 107 co. 3 (a proposito di mancata sottoscrizione e di firma senza riserve del certificato di collaudo) stabiliscono tutti, e soltanto, che le risultanze contabili si hanno per ‘accertate’ (art. 89) o ‘accettate’ (artt. 64, 107) che, allorché parlano di ‘ fatti che si hanno per accertati o accettati ‘, sempre e soltanto si riferiscono all’appaltatore ed alle sue omissioni, e non anche alla stazione appaltante: una piena conferma di ciò si evince dall’art. 64 co. 1, che conferisce espressamente all’ingegnere capo (della stazione appaltante), in sede di esame del conto finale, di correggere, ove occorra, la contabilità, senza alcuna menzione di limitazioni con riferimento alle vicende del rapporto sotto l’aspetto delle riserve; ed analogo potere conferiscono, rispettivamente al collaudatore ed al provveditore regionale o al ministro, gli art. 100, lettera d) e 109, co. 3.s.
Il rigoroso regime di decadenze previsto dalla normativa speciale a carico dell’appaltatore risponde ad una esigenza di certezza e semplificazione del rapporto di appalto, e ciò non soltanto per un dovere di lealtà contrattuale e per l’esigenza di tempestivi controlli, ma soprattutto nell’interesse pubblico di consentire all’Amministrazione appaltante la tempestiva verifica delle contestazioni, attesa la necessità della continua evidenza della spesa dell’opera in funzione della corretta utilizzazione e della eventuale integrazione dei mezzi finanziari predisposti per la sua realizzazione.
La riserva, infatti, non è prevista dal legislatore in funzione di mere esigenze contabili, bensì in ragione della tutela della P.A., che, nell’esercizio della sua attività discrezionale, deve essere posta in grado di esercitare prontamente ogni necessaria verifica e deve inoltre poter valutare, in ogni momento, l’opportunità del mantenimento del rapporto di appalto ovvero del recesso dal contratto, in relazione al perseguimento dei fini di interesse pubblico.
L’esistenza, in materia di appalti pubblici, di un rigoroso sistema di decadenze, nella prospettiva di definitività dei dati contabili, è quindi un dato inconfutabile che, come sopra anticipato, si scontra irreparabilmente con la tesi della ricorrente secondo cui l’iscrizione della riserva sarebbe un atto ad efficacia necessariamente provvisoria (affermazione che, come detto, troverebbe il fondamento nella necessità, prevista dall’art. 64 legge cit., che le riserve, per non intendersi implicitamente rinunciate, debbano essere espressamente confermate dall’appaltatore con la sottoscrizione del conto finale).
In realtà, la previsione di tale onere a carico dell’appaltatore è solo espressione del principio sopra illustrato secondo cui la definitività dei dati contabili ha carattere soggettivamente relativo, cioè riguarda solo l’appaltatore, e non la stazione appaltante, e non
vale, pertanto, come invoca la ricorrente, a legittimare l’appaltatore a revocare liberamente la rinunzia alla riserva, ponendosi piuttosto come strumento a favore della P.A., sempre al fine di esercitare un controllo della spesa dell’opera in funzione della corretta utilizzazione e della eventuale integrazione dei mezzi finanziari predisposti per la sua realizzazione.
Ove, invece, si accogliesse la tesi del ricorrente circa la revocabilità in ogni tempo della rinunzia alla riserva, non solo sarebbero frustrate le esigenze di tutela della P.A. sopra evidenziate, ma la eventuale ‘reviviscenza’ della riserva determinata da una revoca della rinunzia ad libitum da parte dell’appaltatore, si porrebbe inesorabilmente in contrasto con il combinato disposto degli artt. 53, 54 e 64 d.p.r. n. 350/1895, che, come detto, prevedono la registrazione tempestiva della riserva a pena di decadenza (in proposito, come si evince dalla ricostruzione della stessa ricorrente a pag. 4 del ricorso, la rinuncia della riserva non è stata ‘ quasi immediatamente’ revocata -come affermato dalla ricorrente essendo la revoca, avvenuta in data 16.5.1994, a distanza di oltre tre mesi dalla rinuncia, intervenuta il 12.2.1994).
Non vi è alcun dubbio, pertanto, che proprio in virtù del già illustrato rigoroso, nelle tempistiche, sistema di decadenze previsto dal R.D. n. 360/1895 -impostazione che è stata ribadita anche nella successiva normativa speciale in materia di appalti (l’art. 54 legge cit. è stato riprodotto in termini molto simili nell’art. 165 DPR 554/1999 e nell’art. 190 DPR 207/2010; l’art. 64 legge cit. è stato riprodotto in termini simili nell’art. 174 DPR 554/1999 e nell’art. 207/2010) -la rinuncia alla riserva produce nella sfera giuridica della Pubblica Amministrazione conseguenze immediate del tutto equipollenti all’omissione della riserva, con il medesimo duplice effetto, già sopra illustrato, della decadenza dell’appaltatore dal potere di impugnare i dati contabili dell’appalto pubblico e della definitività di tali dati.
Ne consegue che la revoca della rinuncia della riserva, posta in essere dalla ricorrente, deve ritenersi del tutto inefficace con riferimento sia alla riserva n. 1 che alla riserva n. 2 (limitatamente alle 41 pile).
Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto:
‘Nella disciplina degli appalti pubblici ex RD n. 350/1895, non è ammissibile da parte dell’appaltatore la revoca della rinuncia della riserva, producendo la rinuncia irreversibilmente i propri effetti non appena viene comunicata alla stazione appaltante’.
Quanto alle altre due pile per le quali la riserva non è stata oggetto di rinuncia, va osservato che la pacifica esistenza di errori in sede progettuale avrebbe dovuto essere segnalata dall’appaltatore sulla base dei principi generali di correttezza e buona fede che governano lo sviluppo dei rapporti contrattuali in tema d’appalto.
Deve, infatti, ribadirsi il principio costantemente affermato da questa Corte secondo cui l’appaltatore che, nella realizzazione dell’opera, si attiene alle previsioni del progetto fornito dal committente può non di meno essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera stessa, valutandone la condotta secondo il parametro di cui all’art. 1176, comma 2, del codice civile. In particolare, l’appaltatore deve comunque segnalare al committente le carenze e gli errori progettuali al fine di poter realizzare l’opera a regola d’arte, con la conseguenza che, in caso contrario, egli è comunque responsabile anche se ha eseguito fedelmente il progetto e le indicazioni. L’appaltatore, invero, deve assolvere al proprio obbligo di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, ed è perciò tenuto a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirli, quale “nudus
minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista (Cass. n. 31273/2022; Cass. n. 23594/2017; Cass. n. 14071/2016; Cass. n. 1981/2016).
Nel caso di specie, come ricostruito dalla sentenza impugnata, l’appaltatore non risulta aver segnalato l’errore progettuale riguardante la sottoestimazione del tempo di stoccaggio, assemblaggio e posizionamento delle pile, con conseguente infondatezza anche della seconda parte del secondo motivo.
Quanto alla doglianza dell’appaltatore relativa ai fattori pregiudizievoli verificatisi dopo il 16.5.1994 (data di reiterazione della riserva n. 1), relativi al ritardo nel rilascio delle autorizzazioni, tale censura è inammissibile, in primo luogo, perché è stata dedotta una violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. senza indicare correttamente le norme di legge di cui si intendeva lamentare l’inosservanza (vedi Cass. n. 23795/2020).
Inoltre, la ricorrente lamenta apoditticamente la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., ma senza illustrare tale censura, e non confrontandosi minimamente con le articolate argomentazioni della Corte d’Appello in ordine alla non addebitabilità del ritardo all’Assessorato.
In particolare, il giudice d’appello ha evidenziato che l’art. 33 del capitolato speciale d’appalto prevedeva espressamente l’onere a carico dell’impresa ricorrente di compiere quanto necessario per ottenere l’autorizzazione alla discarica da parte della Autorità Marittima, mentre nessun onere o intervento era stato previsto a carico dell’Assessorato che, peraltro, non rimase del tutto inerte dato che, con nota del 6.12.1991, indirizzata alla Capitaneria di Porto, all’Ufficio del Genio Civile per le Opere Marittime e
all’impresa, invitava i predetti Enti a fornire, con la massima urgenza, notizie in merito al ritardo nel rilascio della chiesta autorizzazione. La Corte territoriale, ha, altresì, messo in luce il notevolissimo dilatamento dei tempi necessari per il completamento dell’iter burocratico non era, in ogni caso, facilmente prevedibile proprio in considerazione del coinvolgimento di diversi organi amministrativi (oltre a quelli sopra indicati anche il Ministero dell’Ambiente).
La ricorrente ha svolto mere censure di merito, in quanto finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quello esaminato dalla Corte d’Appello, svolgendo, altresì censure di merito in riferimento alla riserva n. 2, che era stata parimenti rinunciata, con revoca non idonea (alla luce di quanto sopra illustrato) della rinuncia.
Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 comma 1° n. 3 c.p.c. 2 nonché degli artt. 111, commi 1 e 4 Cost., 132, comma 1 n. 4 e 360 c.p.c.
Espone la ricorrente che la Corte di Appello avrebbe errato nel rigettare il terzo motivo di appello, concernente la riserva n. 3, in quanto:
la Curatela fallimentare avrebbe avuto diritto ad un equo compenso ex art. 1664, co. 2, c.c. per i maggiori costi sopportati per il periodo di fermo dei lavori per sei mesi, dovendosi ritenere che l’art. 33 del Capitolato Speciale d’Appalto, il quale recherebbe una notevole limitazione di responsabilità della stazione appaltante, abbia natura di clausola contrattuale, sussumibile nell’ambito delle condizioni generali di contratto ex art. 1341 c.c.;
il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto del fatto che, essendo l’autorizzazione allo scarico a mare del materiale di risulta delle escavazioni del fondale marino provvedimento rimesso
all’esclusiva competenza di un organo amministrativo, la sua mancata adozione costituirebbe ‘ factum principis’, ex se idoneo a determinare l’impossibilità oggettiva di proseguire i lavori, non potendo l’impresa appaltatrice operare in assenza di siffatto provvedimento.
Il motivo è inammissibile.
Va osservato che orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. S. U. n. 23745 del 28/10/2020) quello secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa.
La curatela ricorrente non ha indicato le norme asseritamente violate, reiterando, inammissibilmente, le sue richieste di riconoscimento di un’indennità già svolte innanzi ai giudici di merito e non confrontandosi con le precise argomentazioni della Corte d’Appello, che ha ritenuto ingiustificata l’unilaterale sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore, atteso che non erano ancora maturati gli importi necessari per l’emanazione del SAL; rilevando, altresì, che nel giudizio di primo grado l’impresa aveva addotto differenti e non coerenti giustificazioni in ordine alla sospensione dei lavori.
Infine, come nei precedenti motivi, è stata dedotta apoditticamente la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. senza minimamente illustrare tale doglianza.
10. Con il quarto motivo è stata dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c, 111, commi 1 e 4 Cost., 132, comma 1 n. 4 e 360 c.p.c.
Lamenta il ricorrente l’erronea statuizione del giudice di secondo grado in ordine al rigetto del quarto motivo di appello, concernente la riserva n. 4, in quanto:
Con riferimento alla voce n. 1) la Corte non avrebbe tenuto conto delle conclusioni della CTU dell’ing. NOME COGNOME da cui avrebbe dovuto desumere che l’assunzione dell’obbligo da parte dell’impresa appaltatrice nei confronti dell’ufficio del Genio Civile a non richiedere compensi extracontrattuali di alcun genere e per nessun motivo non poteva includere la rinuncia dell’impresa a richiedere alla stazione appaltante il rimborso dei maggiori, imprevisti costi incorsi nell’esecuzione del contratto.
Con riferimento alla voce n. 2) la Curatela avrebbe diritto ad un equo compenso ai sensi dell’art. 1664, co. 2, c.c. idoneo a ristorarla dei danni sofferti in ragione dell’anomalo protrarsi dell’appalto, da ascriversi alla responsabilità contrattuale dell’Assessorato, che eventualmente avrebbe potuto rivalersi sul terzo.
Con riferimento alla voce n. 3) le risultanze del CTU, su cui si è fondato il rigetto della Corte di Appello, non si sarebbero adeguatamente confrontate con la riserva iscritta dall’impresa, limitandosi a constatare che non esisteva differenza tra la misura dei massi cellulari riscontrata in sede di collaudo e quella prevista in progetto.
Il motivo è inammissibile in quanto:
-con riferimento a tutte e tre le voci lamenta una violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. senza indicare correttamente le
norme di legge di cui intende lamentare la violazione, esaminarne il contenuto precettivo e raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata;
-perché con riferimento a tutte e tre le voci lamenta una violazione dell ‘ art. 132 c.p.c. senza illustrare tale doglianza;
-con riferimento alla voce n. 1) e n. 3) le censure si risolvono in un’inammissibile sollecitazione alla rivalutazione delle risultanze della c.t.u
-le censure del ricorrente mirano quindi a fornire una diversa ed alternativa ricostruzione in fatto rispetto a quella della Corte di Appello.
Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 comma 1 n. 3., 111, commi 1 e 4 Cost., 132, comma 1 n. 4 e 360 c.p.c..
Lamenta il ricorrente che la Corte di Appello, nel rigettare la domanda principale formulata nel quinto motivo di appello, concernente l’annullamento in toto della penale contrattuale per il ritardo nell’ultimazione dei lavori, è incorsa in errore, in quanto, ai sensi dell’art. 1664, co. 2, c.c., l’impresa appaltatrice avrebbe avuto diritto ad un equo compenso, in misura quantomeno idonea a ristorare i maggiori costi sopportati.
Il motivo è inammissibile sotto vari profili:
non si correla alla ratio decidendi adottata dalla Corte di Appello, la quale si incentra espressamente sulla impossibilità di ricollegare il ritardo nell’ultimazione dei lavori all’ammissione dell’impresa RAGIONE_SOCIALE alla procedura di amministrazione controllata per due anni, e sull’assenza di prova idonea ad addebitare tale ritardo ad una condotta colposa dell’Amministrazione.
-lamenta una violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. senza indicare correttamente le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, esaminarne il contenuto precettivo e raffrontarlo
con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata;
-lamenta una violazione dell ‘ art. 132 c.p.c., senza illustrare minimamente tale doglianza;
-mira a fornire una diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti rispetto a quella effettuata dalla Corte di Appello.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 25.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 7.11.2024