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Rinuncia implicita: quando non si applica all’azione

Una società energetica ha citato in giudizio un’altra azienda per concorrenza sleale, a causa dell’uso illecito di bombole a marchio registrato. La società convenuta ha eccepito la rinuncia implicita all’azione civile, poiché l’attrice si era costituita parte civile in un parallelo processo penale contro l’amministratore della convenuta. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, chiarendo che per la rinuncia implicita è necessaria una perfetta identità soggettiva tra le parti dei due giudizi. La società, in quanto soggetto giuridico autonomo, è distinta dalla persona fisica del suo amministratore, pertanto l’azione civile contro l’ente può coesistere con quella esercitata in sede penale contro l’individuo.

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Rinuncia Implicita all’Azione Civile: la Cassazione fa chiarezza sulla distinzione tra società e amministratore

L’istituto della rinuncia implicita all’azione civile, previsto dall’articolo 75 del codice di procedura penale, è uno strumento volto a evitare la sovrapposizione e il potenziale conflitto tra giudicati. Ma cosa succede se l’azione civile è intentata contro una società e, parallelamente, ci si costituisce parte civile nel processo penale a carico del suo legale rappresentante? Un’ordinanza della Corte di Cassazione offre un’importante delucidazione su questo tema, sottolineando la necessità di una perfetta identità soggettiva tra le parti.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un’azione legale per concorrenza sleale e uso illecito di marchi, promossa da una grande compagnia energetica contro una società in accomandita semplice (s.a.s.) operante nella distribuzione di gas. L’accusa era quella di aver utilizzato e riempito abusivamente bombole di proprietà dell’attrice, usurpando i suoi marchi e sviando la clientela.

Il Tribunale di primo grado aveva accolto parzialmente la domanda, condannando la s.a.s. a un risarcimento per i costi di acquisto di nuovi recipienti. La società convenuta proponeva appello, sostenendo, tra i vari motivi, che il giudizio civile si sarebbe dovuto estinguere. La ragione? L’attrice si era costituita parte civile nel procedimento penale avviato contro il legale rappresentante della s.a.s. per gli stessi fatti. Secondo l’appellante, tale costituzione equivaleva a una rinuncia implicita all’azione civile, trasferendo di fatto la pretesa risarcitoria in sede penale.

La Corte d’Appello, tuttavia, respingeva questa tesi, e la questione giungeva così all’esame della Corte di Cassazione.

La questione della rinuncia implicita e la decisione della Cassazione

Il cuore del problema legale risiede nell’interpretazione dell’art. 75 del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce che, se l’azione civile viene proposta in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale, o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile viene sospeso fino alla definizione di quello penale. La giurisprudenza ha interpretato questa disposizione come un meccanismo che presuppone una rinuncia implicita all’azione civile originaria quando la stessa pretesa viene avanzata in sede penale.

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha però chiarito un presupposto fondamentale per l’applicazione di tale principio: l’identità delle parti. Per potersi parlare di trasferimento dell’azione e di conseguente rinuncia implicita, è necessario che vi sia una perfetta coincidenza non solo dell’oggetto della domanda (petitum) e dei fatti posti a fondamento (causa petendi), ma anche dei soggetti coinvolti (identità soggettiva).

Nel caso di specie, questa identità mancava. L’azione civile era stata intentata contro la società (la s.a.s.), mentre la costituzione di parte civile era avvenuta nel processo penale contro la persona fisica del suo legale rappresentante. La Corte ha ribadito che una società di persone, sebbene dotata di autonomia patrimoniale imperfetta, costituisce un centro di imputazione di obblighi e diritti distinto e autonomo rispetto ai singoli soci o amministratori. Pertanto, l’azione contro l’ente è giuridicamente diversa da quella contro l’individuo.

Gli Altri Motivi del Ricorso

La società ricorrente aveva sollevato anche altre due censure, entrambe respinte dalla Corte:
1. Vizio di motivazione sulla quantificazione del danno: Si contestava la liquidazione equitativa del danno da parte dei giudici di merito, ritenuta priva di adeguata prova. La Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, in quanto mirava a un riesame del merito dei fatti, non consentito in sede di legittimità. La motivazione della Corte d’Appello è stata giudicata sufficiente e non contraddittoria.
2. Violazione delle norme sulla compensazione delle spese: Si lamentava la mancata compensazione integrale delle spese legali, nonostante la reciproca soccombenza in appello. Anche questo motivo è stato giudicato infondato, poiché la ripartizione delle spese rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, non sindacabile se adeguatamente motivato.

Le motivazioni

La motivazione centrale della Suprema Corte si fonda sulla rigorosa applicazione del principio della personalità giuridica. La Corte ha sottolineato che la ratio dell’art. 75 c.p.p. è quella di evitare giudicati contrastanti sulla medesima questione tra le medesime parti. Quando una delle parti è diversa, come nel caso di una società rispetto al suo amministratore, questo rischio non sussiste nello stesso modo. La società, in quanto soggetto di diritto, ha una propria capacità processuale e risponde in proprio degli illeciti commessi. L’azione contro di essa non può essere confusa con quella personale contro chi la amministra, anche se i fatti all’origine sono gli stessi. Di conseguenza, la scelta di agire in sede penale contro l’amministratore non può essere interpretata come una volontà di abbandonare l’azione civile contro l’ente.

Le conclusioni

Questa pronuncia consolida un importante principio a tutela di chi subisce un danno da illeciti commerciali e societari. Si conferma che è possibile perseguire due percorsi legali paralleli: uno in sede civile contro la società per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, e uno in sede penale, costituendosi parte civile, contro la persona fisica responsabile del reato. Questa dualità di azioni garantisce una tutela più completa, permettendo di colpire sia il patrimonio dell’ente che ha beneficiato dell’illecito, sia la responsabilità personale di chi lo ha materialmente commesso, senza che una scelta precluda l’altra.

Costituirsi parte civile nel processo penale contro l’amministratore di una società implica una rinuncia all’azione civile contro la società stessa?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che non si verifica una rinuncia implicita perché la società e il suo amministratore sono due soggetti giuridici distinti. Affinché operi la rinuncia, è necessaria una perfetta identità soggettiva tra le parti coinvolte nei due giudizi.

Perché la Corte non ha riesaminato la quantificazione del danno?
La Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito è verificare la corretta applicazione delle norme di diritto e la coerenza logica della motivazione, non può rivalutare le prove o i fatti come farebbe un giudice di primo grado o d’appello. Poiché la motivazione della Corte d’Appello sulla quantificazione del danno è stata ritenuta logica e sufficiente, la censura è stata dichiarata inammissibile.

La soccombenza reciproca obbliga il giudice a compensare integralmente le spese legali?
No. La decisione su come ripartire o compensare le spese processuali in caso di soccombenza reciproca rientra nel potere discrezionale del giudice di merito. Tale decisione non è sindacabile in Cassazione, a meno che non sia del tutto priva di motivazione o palesemente illogica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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