Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18038 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 18038 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12540/2019 R.G. proposto da
NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME, in qualità di eredi di COGNOME NOME; COGNOME NOMECOGNOME in qualità di erede di COGNOME Orlando; NOME COGNOME in qualità di erede di COGNOME NOME; NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME in qualità di eredi di COGNOME NOME; COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME e NOME, in qualità di eredi con beneficio d’inventario di COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-ricorrenti – contro
COMUNE DI RENDE, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME
con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
-controricorrente -avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 368/19, depositata il 20 febbraio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME, NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, in qualità di eredi di NOME COGNOME, già proprietario di un fondo in Rende (CS), riportato in Catasto al foglio 38, particelle 11 e 102-8 ed espropriato con decreto n. 44 del 15 gennaio 1976, convennero in giudizio il Comune di Rende, per sentir accertare il loro diritto alla retrocessione parziale di un’area di 5.000 mq. riportata al foglio 38, particella 8, nonché l’impossibilità giuridica della retrocessione, a causa del trasferimento a terzi dell’area, con la condanna del Comune al risarcimento dei danni.
Premesso che il fondo, occupato per la realizzazione del Piano per l’edilizia economica e popolare, era rimasto parzialmente inutilizzato, gli attori riferirono che, nel corso del giudizio di opposizione alla stima da loro promosso, era intervenuta una transazione, stipulata con atto del 21 marzo 1996, con il quale, dato atto della sopravvenuta illegittimità dell’occupazione, a causa della mancata emissione del decreto di esproprio, e della proposizione di una domanda di risarcimento dei danni da parte dei proprietari, era stato concordato il pagamento da parte del Comune della somma di Lire 6.200.000.000, con la rinuncia ad ogni ulteriore diritto. Con delibere nn. 50 e 51 del 17 settembre 1996, il Consiglio comunale aveva peraltro approvato una variante al Piano regolatore generale, con cui aveva destinato l’area relitta a zona residenziale semintensiva di espansione, adottando contestualmente il Piano particolareggiato, e con delibera n. 1182 del 4 dicembre 1997 la Giunta municipale aveva disposto l’alienazione dell’area a mezzo di gara pubblica, seguita in data 5 novembre 2001 dalla stipulazione dell’atto di trasferimento in favore
RAGIONE_SOCIALE
Si costituì il Comune, ed eccepì il difetto di giurisdizione del Giudice adìto e l’infondatezza della domanda per prescrizione del diritto alla retrocessione ed al risarcimento dei danni, nonché per intervenuta transazione e mancanza dei presupposti di cui agli artt. 2041 e 2043 cod. civ.
1.1. Con sentenza del 21 aprile 2008, il Tribunale di Cosenza dichiarò il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario.
L’impugnazione proposta da NOME COGNOME, NOME, NOME, NOME, NOME, NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, in qualità di eredi di NOME COGNOME, nonché da NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, fu accolta dalla Corte d’appello di Catanzaro, che con sentenza del 30 giugno 2009 dichiarò la giurisdizione del Giudice ordinario, dando atto dell’intervenuta alienazione dell’area a terzi, equipollente alla dichiarazione d’inservibilità, e rimise le parti dinanzi al Giudice di primo grado.
Il giudizio fu pertanto riassunto dinanzi al Tribunale, che con sentenza non definitiva del 29 gennaio 2015 rigettò l’eccezione di prescrizione ed accertò il diritto degli attori alla retrocessione, qualificando la transazione come un accordo amichevole sull’indennità, escludendo che avesse comportato la cessione volontaria dell’area o la rinuncia alla retrocessione e ravvisando nella vendita dell’area a terzi un comportamento illecito, e con sentenza definitiva del 15 novembre 2016 condannò il Comune al risarcimento dei danni, nella misura di Euro 541.116,79, oltre interessi legali.
Sull’appello interposto dal Comune avverso entrambe le sentenze, si costituirono gli eredi di NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché NOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME, NOME COGNOME in qualità di erede di NOME COGNOME, NOME COGNOME in qualità di erede di NOME COGNOME e NOME COGNOME NOME, NOME, e NOME COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME.
4.1. L’impugnazione è stata accolta dalla Corte d’appello di Catanzaro, che con sentenza del 20 febbraio 2019 ha rigettato la domanda.
Premesso che la questione di giurisdizione risultava preclusa per effetto della sentenza del 30 giugno 2009, passata in giudicato, la Corte ha rilevato innanzitutto che la transazione conteneva un’errata rappresentazione della
vicenda, qualificando come illegittima l’occupazione del fondo, del quale era stata invece disposta fin dall’origine l’espropriazione, e come azione di risarcimento dei danni per occupazione appropriativa la domanda proposta dagli attori, avente invece ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ritenuto peraltro che tale errore non avesse inciso sulla formazione del consenso, ha escluso che la transazione avesse comportato la definizione di una pretesa risarcitoria o la cessione volontaria del fondo occupato, osservando che essa non recava alcun cenno alla volontà degli espropriati di trasferire jure privatorum la proprietà al Comune, che l’aveva acquistata con il decreto di esproprio. Ha escluso inoltre che l’atto fosse qualificabile come accordo amichevole sull’indennità, inidoneo a pregiudicare il diritto alla retrocessione, rilevando che lo scopo pratico perseguito dalle parti consisteva nella definizione non solo della controversia in ordine all’indennità di espropriazione, ma dell’intera procedura espropriativa, precludendo agli espropriati la possibilità di avanzare ulteriori pretese. Ha concluso pertanto che la clausola di cui all’art. 6 della transazione doveva essere interpretata come rinuncia ad ogni diritto, azione o ragione futura, connessa alla procedura espropriativa e diversa dall’indennità di espropriazione, ivi compreso il diritto alla retrocessione. Ha richiamato in proposito la delibera n. 50 del 1996, in cui si affermava che l’area interessata dalla variante era stata acquisita a mezzo della procedura espropriativa e della transazione, ritenendo inconcepibile che gli attori avessero potuto rinunciare ad ogni pretesa senza riservarsi il diritto alla retrocessione, destinato a sorgere pochi mesi dopo, nonostante la consapevolezza della mancata utilizzazione della particella 8 per la realizzazione della opera pubblica, ed aggiungendo comunque che all’epoca della stipulazione della transazione gli attori erano già titolari di una posizione d’interesse legittimo alla retrocessione, che poteva ben essere inclusa tra le ragioni oggetto di rinuncia, anche prima che l’ iter formativo del relativo diritto si fosse completato.
Avverso la predetta sentenza i COGNOME, la COGNOME, la COGNOME e l’RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 60 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, degli artt. 9, 13 e 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, dell’art. 2 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 e degli artt. 828, secondo comma, e 830 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver interpretato la clausola di cui all’art. 6 dell’accordo come rinuncia ad ogni pretesa connessa alla procedura espropriativa, ivi compreso il diritto alla retrocessione, senza tenere conto dell’autonomia strutturale e funzionale del procedimento di retrocessione rispetto a quello di espropriazione, che ne costituisce il mero antecedente storico, e della subordinazione del primo ad un evento eccezionale, quale la dismissione del bene, con la contestuale dichiarazione d’inservibilità.
Premesso che la rinuncia ai diritti economici derivanti dall’espropriazione ed alla stessa procedura espropriativa non preclude il successivo esercizio del diritto alla retrocessione, avente la sua fonte nella legge e nella dichiarazione d’inservibilità, sostengono che l’interpretazione estensiva della rinuncia fornita dalla Corte territoriale trova ostacolo sia nel carattere eccezionale della predetta dichiarazione e della dismissione del bene, non prevedibili alla data di stipulazione dell’accordo, sia nel principio rebus sic stantibus , immanente ai rapporti contrattuali, che nei contratti di durata consente di attribuire rilievo ai mutamenti intervenuti nella situazione esistente al momento della conclusione dell’accordo.
Rilevato inoltre che, una volta intervenuta l’espropriazione e corrisposto l’indennizzo, non sono configurabili posizioni economiche riferibili all’espropriato, osservano che, nel riconoscere loro un interesse legittimo o uno jus ad rem già rinunciabile all’epoca della transazione, la sentenza impugnata non ha tenuto conto né delle differenze esistenti tra la disciplina della retrocessione totale e quella della retrocessione parziale, né della circostanza che, fino a quando non è intervenuta la dichiarazione d’inservibilità, l’area relitta faceva parte del patrimonio indisponibile del Comune, rispetto alla quale gli espropriati non potevano vantare alcun diritto soggettivo o interesse legittimo.
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione degli artt. 26 e 28 della legge n. 2359 del 1865, dell’art. 1965 cod. civ. e dell’art. 42, terzo comma, Cost., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’accordo intervenuto tra le parti non fosse limitato alla definizione del subprocedimento indennitario e del giudizio di opposizione alla stima, ma costituisse una transazione privatistica, implicante la rinuncia a diritti non connessi alla procedura espropriativa.
Premesso che l’accordo sull’indennità costituisce un negozio di diritto pubblico ad effetti tipizzati, che si inserisce in un procedimento pubblicistico con il solo fine di soddisfare interessi di pubblica utilità previamente determinati, anche nel caso in cui intervenga nel corso del giudizio di opposizione alla stima, sostengono che la qualificazione dello stesso come transazione si pone in contrasto con il suo contenuto, la sua natura e la sua causa concreta, consistente nel componimento bonario della vertenza relativa alla misura dell’indennità, avendovi la Corte territoriale aggiunto un quid pluris , costituito da una funzione transattiva relativa a una serie indefinita di diritti, che comporta l’attribuzione di effetti privatistici ed extraespropriativi.
Affermano che, ai fini dell’interpretazione dell’accordo, non poteva assumere alcun rilievo la delibera di approvazione della variante al Piano regolatore generale, non configurabile come comportamento comune delle parti successivo alla stipulazione del contratto, in quanto atto unilaterale del Comune, e comunque inidonea ad evidenziare la formazione di un consenso al di fuori del documento scritto.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1325 nn. 1 e 3, 1362, 1366, 1367, 1369, 1346 e 1418 cod. civ., sostenendo l’illogicità e l’implausibilità dell’interpretazione dell’accordo fornita dalla sentenza impugnata, nonché la contrarietà della stessa al criterio della buona fede, per avere la Corte territoriale omesso qualsiasi indagine in ordine alla natura dei reliquati, costituenti beni patrimoniali indisponibili del Comune, nonché alla comune intenzione delle parti ed all’esistenza dell’oggetto della rinuncia, rappresentato da un diritto non ancora sorto all’epoca della stipulazione, e del quale le parti non potevano quindi essere consapevoli.
Aggiungono che, in quanto subordinato all’individuazione delle aree rimaste inutilizzate, da compiersi mediante la dichiarazione d’inservibilità, il diritto alla retrocessione risultava indeterminato ed indeterminabile, e non poteva quindi costituire oggetto di un valido accordo tra le parti.
4. Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362, 1366 e 1369 cod. civ., ribadendo che nell’interpretazione dell’accordo, la sentenza impugnata non ha tenuto conto a) della autonomia del procedimento di retrocessione rispetto a quello di espropriazione, b) dell’insussistenza, all’epoca della stipulazione, del diritto alla retrocessione parziale del fondo espropriato, c) della natura pubblicistica del negozio, volto a comporre la lite riguardante la determinazione dell’indennità di espropriazione, d) della nullità della rinuncia ad un diritto non ancora sorto, e) dell’assenza, nel testo dell’accordo, di qualsiasi cenno alla retrocessione, f) della mancanza di qualsiasi nesso logico o giuridico tra quest’ultima e il contenuto dell’accordo, e g) della mancanza o dell’indeterminatezza del relativo oggetto alla data della stipulazione.
Sostengono che, nel richiamare il criterio letterale, quello teleologico e quello fondato sulla buona fede, la Corte di merito non ne ha fatto corretta applicazione, avendo attribuito alla rinuncia un significato non corrispondente a quello corrente, che la riferisce a diritti attuali ed esistenti, come quello alla indennità di espropriazione ed alle spese processuali, ed avendone estesa la portata a diritti, ragioni ed azioni estranei alla natura ed all’oggetto dello stesso, non riferibili al diritto alla retrocessione né al relativo procedimento, che, in quanto non menzionati in alcun modo dalle parti, non erano riconducibili alla causa concreta e all’oggetto dell’atto.
Con il quinto motivo, i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1364 e 1367 cod. civ., sostenendo che, anche a voler ritenere correttamente applicati il criterio teleologico e quello fondato sulla buona fede, la lettura dell’accordo fornita dalla sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con il principio di gerarchia dei criteri ermeneutici, avendo la Corte di merito preferito un’interpretazione conservativa ed oggettiva, senza tenere conto del carattere sussidiario di tali criteri e della portata generale dell’espressione «rinuncia ad ogni diritto, ragione e azione», da riferirsi
comunque al solo oggetto del contratto.
Aggiungono che, in caso di persistente ambiguità del testo contrattuale, all’esito dell’utilizzazione del criterio letterale, la sentenza impugnata avrebbe dovuto interpretarlo secondo normalità ed alla luce dell’oggetto del contratto, costituito esclusivamente da diritti, ragioni ed azioni attuali connessi al procedimento espropriativo ed al diritto all’indennità, e non comprendente pertanto il diritto di retrocessione. Evidenziano in proposito i dubbi già all’epoca manifestatisi in ordine alla legittimità costituzionale dei criteri indennitari introdotti dall’art. 5bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché la mancata regolamentazione delle spese da loro anticipate per le due c.t.u. espletate nel corso del giudizio, per effetto della quale le stesse sono rimaste a loro carico, osservando comunque che, in quanto trasfuso in uno schema contrattuale unilateralmente predisposto dal Comune per più espropriati, l’accordo avrebbe dovuto essere interpretato in senso favorevole ad essi ricorrenti.
6. Con il sesto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 828, secondo comma, 830, 1362, 1364, 1366, 1367 e 1369 cod. civ., dell’art. 60 della legge n. 2359 del 1865, degli artt. 9, 13 e 35, terzo comma, della legge n. 865 del 1971, dell’art. 2 della legge n. 10 del 1977, degli artt. 116 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 111, sesto comma, Cost., censurando la sentenza impugnata per incongruenza e illogicità della motivazione, fondata su false premesse ed errati apprezzamenti in diritto, che hanno condotto a un’interpretazione della rinuncia non sorretta da una ratio decidendi logicamente coerente e chiaramente identificabile. Ribadiscono che la Corte di merito ha trascurato l’assenza di qualsiasi cenno al diritto alla retrocessione, non ancora sorto al momento della stipulazione dell’accordo, ed al relativo procedimento, autonomo rispetto a quello di espropriazione, nonché l’appartenenza dei reliquati inutilizzati al patrimonio indisponibile del Comune e l’imprevedibilità della loro dismissione, insistendo ancora una volta sulla violazione dei criteri di normalità e buona fede nell’interpretazione della clausola negoziale, non riferibile a diritti, ragioni ed azioni meramente futuri, potenziali ed ipotetici.
Così riassunte le censure proposte dai ricorrenti, va innanzitutto stig-
matizzato il superamento, nella redazione del ricorso, dei limiti dimensionali previsti dal protocollo d’intesa stipulato il 17 dicembre 2015 dal Primo Presidente della Corte di cassazione con il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, che non trova in alcun modo giustificazione né nella complessità (tutto sommato relativa) della questione sottoposta all’esame di questa Corte, riassumibile in pochi punti insistentemente ribaditi dalla difesa dei ricorrenti, né nella contenuta motivazione della sentenza impugnata, caratterizzata da esemplare concisione e capace di affrontare con chiarezza e senza inutili appesantimenti (anche se, come si vedrà in prosieguo, sulla base di principi giuridici non sempre corretti) la materia trattata.
Il ricorso, composto da ben settantadue pagine, a fronte delle sole quindici in cui si articola la sentenza impugnata, si segnala infatti per la sua estrema prolissità, cagionata da un’illustrazione dei motivi sovrabbondante e ripetitiva («a tratti pedante», come riconosciuto dalla stessa difesa dei ricorrenti a pag. 71), corredata da rubriche di contenuto eccedente l’indicazione delle norme asseritamente violate e caratterizzata dall’insistente reiterazione delle medesime argomentazioni in fatto e in diritto, che avrebbero potuto essere sintetizzate, in ultima analisi, nella violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e nell’omessa considerazione dei pochi aspetti indicati nel quarto motivo. Tali modalità di redazione, che rendono alquanto disagevole la lettura dell’atto, facendo apparire inappropriato il richiamo al protocollo riportato in chiusura, non possono considerarsi rispettose del dovere di chiarezza e sinteticità degli atti processuali previsto dall’art. 3, comma secondo, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, riguardante il processo amministrativo ma riflettente un principio di carattere processuale destinato ad operare anche in materia civile: l’inosservanza di tale principio non risulta tuttavia normativamente sanzionata, e non comporta quindi di per sé l’inammissibilità dell’impugnazione, che può essere dichiarata soltanto quando l’irragionevole estensione del ricorso si traduca nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366, primo comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza impugnata, sì da impedire di cogliere con chiarezza le questioni proposte (cfr. Cass., Sez. Un., 30/11/2021, n. 37552; Cass., Sez. III, 13/02/2023, n. 4300; Cass., Sez.
VI, 27/09/2021, n. 26161). Tale violazione non è riscontrabile nel ricorso in esame, la cui lettura, al di là dello sforzo indubbiamente richiesto dalla ridondanza dell’esposizione, consente d’individuare con sufficiente sicurezza le affermazioni della sentenza impugnata delle quali i ricorrenti intendono sollecitare il riesame e le ragioni dell’impugnativa, riassunte nei termini dianzi indicati, con la conseguenza che deve escludersi l’inammissibilità dell’impugnazione.
8. Va poi dichiarata l’inammissibilità delle eccezioni, sollevate nel controricorso, di decadenza dei ricorrenti dal diritto alla retrocessione, per mancata proposizione della relativa istanza ed acquiescenza alla delibera di autorizzazione della vendita a terzi dell’immobile espropriato, nonché di prescrizione del medesimo diritto, per decorso di un decennio dalla data dell’espropriazione.
Trattasi infatti di questioni espressamente rigettate dal Tribunale di Cosenza con la sentenza non definitiva, riproposte dal Comune con l’atto di appello ed in ordine alle quali la sentenza impugnata non si è pronunciata, avendole evidentemente ritenute assorbite dall’accoglimento degli altri motivi di impugnazione. Esse non possono quindi trovare ingresso in sede di legittimità, neppure nella forma del ricorso incidentale condizionato, risultando estranee alla ratio decidendi della sentenza impugnata, ma potranno essere ulteriormente riproposte, in caso di accoglimento del ricorso in esame, nel giudizio di rinvio, dovendosi escludere, in proposito, la possibilità della formazione del giudicato interno (cfr. Cass., Sez. V, 26/05/2023, n. 14813; Cass., Sez. II, 24/01/2011, n. 1566; Cass., Sez. I, 2/12/2005, n. 26264).
9. Tanto premesso, non merita accoglimento il primo motivo, riflettente l’omessa valutazione dell’autonomia strutturale e funzionale del procedimento di retrocessione rispetto a quello di espropriazione e della subordinazione della retrocessione parziale alla dichiarazione d’inservibilità delle aree residuate dalla realizzazione dell’opera pubblica per cui fu disposta l’espropriazione.
Nel ritenere che con l’atto stipulato il 21 marzo 1996 gli eredi COGNOME avessero rinunciato non solo ai diritti, alle ragioni ed alle azioni derivanti dalla procedura espropriativa, ma anche a quelli connessi all’eventuale retroces-
sione del fondo espropriato, la Corte territoriale ha infatti tenuto ben presenti i predetti aspetti, avendo per un verso escluso che lo scopo pratico avuto di mira dalle parti fosse unicamente quello di porre fine alla controversia in atto riguardante l’ammontare dell’indennità di esproprio, osservando che le parti avevano inteso in realtà precludere agli espropriati la possibilità di avanzare qualsiasi ulteriore e diversa pretesa connessa alla procedura espropriativa, e per altro verso affermato che al momento della stipulazione i ricorrenti erano già titolari di una posizione d’interesse legittimo alla retrocessione, suscettibile d’inclusione tra le «ragioni» che avevano costituito oggetto della rinuncia.
Il primo rilievo, ampiamente giustificato dalla circostanza che all’epoca della stipulazione la procedura ablatoria era già conclusa da circa venti anni, residuando esclusivamente il giudizio di opposizione alla stima, postula una precisa consapevolezza dell’irreversibilità degli effetti dell’espropriazione e dell’autonomia del procedimento di retrocessione, il quale presuppone la validità e la perdurante efficacia del decreto di espropriazione, e muove dall’esercizio del diritto potestativo attribuito al proprietario dell’immobile espropriato, ma non utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica a causa di un fatto verificatosi successivamente, di chiedere che il bene gli sia ritrasferito mediante un provvedimento (o una sentenza) che non comporta la caducazione del precedente acquisto avvenuto in virtù del decreto di espropriazione, ma attua un nuovo trasferimento a titolo derivativo, con effetto ex nunc (cfr. Cass., Sez. I, 4/04/2022, n. 10843; 23/09/2021, n. 25825; 10/11/2005, n. 21825). Tale trasferimento richiede nel caso di retrocessione totale soltanto l’accertamento della mancata destinazione dell’intero immobile espropriato alla realizzazione dell’opera pubblica per cui è stata disposta l’espropriazione, la cui natura obiettiva consente di qualificare la posizione spettante all’espropriato come diritto soggettivo, tutelabile dinanzi al Giudice ordinario, e nel caso di retrocessione parziale una valutazione della Pubblica Amministrazione in ordine all’inutilizzabilità delle aree residuate dalla realizzazione dell’opera pubblica, il cui carattere discrezionale comporta la configurabilità di un mero interesse legittimo del proprietario, azionabile dinanzi al Giudice amministrativo (cfr. Cass., Sez. Un., 16/05/2014, n. 10824; 11/11/2009, n. 23823; Cass., Sez. I, 7/09/2020, n. 18580). Ed è proprio a tale interesse che ha fatto
riferimento la sentenza impugnata nel dare atto della posizione giuridica vantata dai ricorrenti in ordine alla retrocessione, in assenza della dichiarazione d’inservibilità prescritta dall’art. 61 della legge n. 2359 del 1865, affermandone la rinunciabilità, conformemente al principio enunciato da una risalente pronuncia di legittimità, secondo cui il diritto potestativo alla retrocessione, in mancanza di un espresso divieto, può formare oggetto di valida rinuncia, avendo un contenuto determinato o quanto meno determinabile (in previsione del verificarsi del probabile evento espressamente previsto dall’ordinamento giuridico) con sufficiente approssimazione, che consente all’espropriato di valutare adeguatamente le conseguenze della pattuita rinuncia (cfr. Cass., Sez. I, 21/07/1962, n. 2021).
Tale ragionamento non si pone in alcun modo in contrasto con la subordinazione della retrocessione parziale alla dichiarazione d’inservibilità, la quale non costituisce affatto un evento straordinario ed eccezionale, non dipendendo necessariamente dalla sopravvenienza di circostanze fuori dal comune o assolutamente imprevedibili, ma solo dalla mancata attribuzione della destinazione prevista ad una parte dell’area espropriata e dalla volontà della Pubblica Amministrazione di non utilizzarla per lo scopo cui era finalizzata l’espropriazione, che può manifestarsi anche a notevole distanza di tempo dalla stessa. Ciò che veniva in considerazione, nel caso di specie, era d’altronde l’imprevedibilità della retrocessione non già all’epoca dell’espropriazione, ma a quella della stipulazione dell’accordo, in riferimento alla quale doveva dunque essere accertata la capacità dei ricorrenti di rappresentarsi la possibilità di una dichiarazione d’inservibilità dell’area residua da parte del Comune, in relazione alla mancata utilizzazione della stessa per la realizzazione dell’opera pubblica, e di rinunciare quindi consapevolmente al riacquisto della proprietà. Il diritto alla retrocessione dei beni espropriati si configura infatti come uno jus ad rem , avente contenuto patrimoniale, che consiste nel potere di conseguire il bene nel concorso delle condizioni volute dalla legge, e si ricollega ad una fattispecie complessa, il cui perfezionamento è necessario affinché possano verificarsi gli effetti costitutivi del trasferimento, ma non anche perché esso possa costituire oggetto di un valido contratto (cfr. Cass., Sez. I, 21/07/1962, n. 2021, cit.). Inconferente risulta poi il richiamo della
difesa dei ricorrenti al principio rebus sic stantibus (cioè all’istituto della presupposizione), il quale può giustificare la dichiarazione d’inefficacia o la risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1467 cod. civ., nel caso in cui una situazione di fatto, comune ad entrambi i contraenti e non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione, ma considerata come presupposto imprescindibile della volontà negoziale, subisca successivamente un mutamento a causa del sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti (cfr. Cass., Sez. I, 23/10/2014, n. 22580; Cass., Sez. III, 24/03/2006, n. 6631; Cass., Sez. I, 21/11/2001, n. 14629), ma non ha nulla a che vedere con la possibilità di escludere, nella specie, la validità della rinuncia alla retrocessione, per il solo fatto che l’insorgenza del relativo diritto sia subordinata alla sopravvenienza della dichiarazione d’inservibilità.
E’ parimenti infondato il secondo motivo, avente ad oggetto la qualificazione dell’accordo intervenuto tra le parti come una transazione, implicante la rinuncia ad un diritto non connesso alla procedura espropriativa, anziché come un accordo amichevole sull’indennità.
La natura pubblicistica dell’accordo bonario previsto dagli artt. 26 e 28 della legge n. 2359 del 1865, configurabile come un negozio di diritto pubblico a contenuto tipizzato, che si inserisce nella procedura espropriativa con la finalità di determinare definitivamente l’ammontare dell’indennità spettante all’espropriato e la cui efficacia è condizionata all’emissione del decreto di esproprio, o comunque alla conclusione di un negozio che produca analoghi effetti (cfr. Cass., Sez. I, 25/01/2012, n. 1081; 16/04/2003, n. 6009; 2/09/ 1998, n. 8706), non esclude infatti la possibilità di inserire nello stesso pattuizioni ulteriori, aventi contenuto atipico e portata transattiva, in quanto non limitate alla determinazione dell’indennità, ma comprensive anche del risarcimento di eventuali danni, anche futuri ma dovuti a circostanze ragionevolmente prevedibili al momento della stipulazione (cfr. Cass., Sez. I, 20/06/ 2005, n. 13217; 13/02/1980, n. 1042), o della definizione di ulteriori diritti ricollegabili alla procedura espropriativa (cfr. Cass., Sez. I, 14/05/2002, n. 6968).
La circostanza che nella specie l’accordo sia stato stipulato successivamente alla conclusione del procedimento ablatorio esclude la necessità di af-
frontare, in questa sede, la questione concernente l’idoneità di siffatte pattuizioni a conservare la loro efficacia anche nel caso in cui il decreto di espropriazione non sia emesso o non si addivenga alla cessione volontaria, dovendosi soltanto evidenziare la correttezza del riconoscimento della natura transattiva ad un accordo che intervenga, come nel caso in esame, nel corso di un giudizio di opposizione alla stima, e con il quale le parti non si limitino a determinare la misura dell’indennità, ma definiscano tutti gli aspetti giuridici ed economici della vicenda, facendosi reciproche concessioni, in modo tale da comporre la lite in atto e da prevenire ulteriori controversie future.
Nessun rilievo può invece assumere, ai fini della correttezza giuridica della predetta qualificazione, la circostanza che la Corte di merito abbia tratto la conferma dell’intento delle parti di definire in via transattiva la procedura espropriativa dalla delibera di approvazione della variante al Piano regolatore generale, intervenuta successivamente alla stipulazione dell’accordo e recante la nuova destinazione dell’area espropriata, trattandosi di una considerazione non incidente sulla sussunzione dell’atto nella fattispecie astratta contemplata dall’art. 1965 cod. civ., ma sulla ricostruzione della comune intenzione delle parti, la quale costituisce un accertamento di fatto, censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per illogicità o incongruenza della motivazione, non specificamente dedotte con il motivo in esame (cfr. Cass., Sez. III, 8/01/ 2025, n. 353; 28/11/2017, n. 28319; Cass., Sez. lav., 4/04/2022, n. 10745).
11. E’ altresì infondato il terzo motivo, riflettente l’illogicità e l’implausibilità dell’interpretazione dell’accordo fornita dalla sentenza impugnata, nonché la contrarietà della stessa al criterio della buona fede, in ragione della mancata considerazione dell’appartenenza dei reliquati al patrimonio indisponibile del Comune e dell’inesistenza del diritto che costituiva oggetto della rinuncia.
La Corte di merito ha infatti motivato compiutamente e coerentemente il proprio apprezzamento, muovendo dalla constatazione dell’errata rappresentazione del procedimento amministrativo e di quello giurisdizionale emergente dall’accordo stipulato tra le parti, in cui si faceva riferimento ad un’occupazione appropriativa e a una domanda di risarcimento dei danni, anziché
a un’espropriazione legittimamente disposta e a un’opposizione alla stima, escludendo, ciò nonostante, che l’atto costituisse un semplice accordo sull’indennità, come tale inidoneo a pregiudicare il diritto alla retrocessione, per affermare invece che lo scopo pratico avuto di mira dalle parti non era soltanto quello di porre fine alla controversia relativa alla determinazione dell’indennità di esproprio, ma quello più ampio di concludere la procedura espropriativa, precludendo agli espropriati la possibilità di avanzare qualsiasi ulteriore pretesa.
Tale percorso logico non può ritenersi inficiato dalle considerazioni critiche svolte dalla difesa dei ricorrenti, che nel dolersi dell’omessa valutazione dell’appartenenza delle aree residue al patrimonio indisponibile del Comune e dell’inesistenza del diritto rinunciato fa riferimento ad elementi sostanzialmente irrilevanti ai fini della ricostruzione della comune intenzione delle parti e della validità dell’accordo, tenuto conto della mancata utilizzazione delle predette aree per la realizzazione dell’opera pubblica, che ne comportava l’idoneità a costituire oggetto di retrocessione, previa dichiarazione d’inservibilità da parte del Comune, ed alla conseguente determinatezza o determinabilità del contenuto del diritto alla retrocessione, in virtù della quale esso poteva costituire oggetto di consapevole rinuncia da parte dei titolari, come dianzi illustrato.
Quanto poi all’inosservanza del criterio ermeneutico fondato sulla buona fede, è appena il caso di osservare che esso costituisce un mezzo meramente sussidiario dell’interpretazione, non invocabile quando, come nella specie, il giudice di merito abbia, attraverso l’esame degli elementi di prova raccolti, già aliunde accertato l’effettiva volontà delle parti: tale criterio mira infatti ad escludere il ricorso a significati unilaterali o contrastanti con un criterio di affidamento dell’uomo medio, ma non consente di assegnare all’atto una portata diversa da quella che emerge dal suo contenuto obiettivo, corrispondente alla convinzione soggettiva di una singola persona; esso rappresenta, in altri termini, il punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti (che costituisce il primo momento del processo interpretativo, avente ad oggetto l’individuazione della comune intenzione e del senso letterale delle parole) e lo scioglimento di residui dubbi sul preciso contenuto della volontà contrat-
tuale (da effettuarsi in base ad un criterio obbiettivo, fondato su di un canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela dell’affidamento che ciascuna di esse deve porre nel significato della dichiarazione della altra) (cfr. Cass., Sez. II, 12/03/2014, n. 5782; Cass., Sez. III, 15/ 03/2004, n. 5239; 18/05/2001, n. 6819).
Merita invece parziale accoglimento il quarto motivo, riguardante l’inosservanza del criterio letterale, di quello oggettivo e di quello fondato sulla buona fede nell’interpretazione dell’accordo stipulato tra le parti.
Tralasciando in questa sede l’ulteriore esame della conformità dell’interpretazione al criterio fondato sulla buona fede, già positivamente valutata in riferimento alla precedente censura, occorre rilevare che le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito, nella ricostruzione del tenore letterale dell’accordo e nell’individuazione della sua portata oggettiva, non appaiono in linea con la situazione di fatto esistente e con la sostanza delle questioni attualmente e potenzialmente vertenti tra le parti all’epoca della stipulazione.
La sentenza impugnata è rimasta infatti incensurata nella parte in cui ha accertato che, contrariamente a quanto affermato nella premessa dell’atto, in quel momento il procedimento espropriativo risultava già concluso da circa venti anni e l’opera pubblica già realizzata, mentre la nuova destinazione delle aree residue non era stata ancora deliberata, essendo stata disposta circa sei mesi dopo; risulta altresì accertato definitivamente che l’unica questione ancora controversa tra le parti era (non già il risarcimento del danno derivante dall’occupazione appropriativa, ma) la determinazione dell’indennità di espropriazione, essendo pendente il giudizio di opposizione alla stima promosso circa dieci anni prima dagli eredi COGNOME unitamente ad altri proprietari espropriati. Con l’atto sottoscritto il 21 gennaio 1996, il Comune e gli espropriati concordarono poi il pagamento in favore di questi ultimi della somma complessiva di Lire 6.200.000.000, «a saldo e stralcio della pretesa creditoria di cui all’atto di citazione del 14.11.1985» (art. 2), con l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio (art. 3), precisando inoltre che «con la sottoscrizione del presente atto e con l’effettiva erogazione della somma» i proprietari avrebbero rinunciato «ad ogni ulteriore diritto, azione e ragione, nonché a pretendere ulteriori somme, superiori a quelle indicate nel presente
atto di transazione».
Orbene, dalla motivazione della sentenza impugnata non emergono con chiarezza le ragioni per cui, sulla base di tali premesse testuali e nonostante la ricostruzione dell’effettivo contesto fattuale in cui era maturata la vicenda negoziale, la Corte territoriale ha ritenuto non condivisibile la conclusione cui era pervenuto il Tribunale, secondo cui l’atto era configurabile come un accordo amichevole sull’indennità, inidoneo a pregiudicare il diritto alla retrocessione e a comportare la rinuncia allo stesso, all’epoca non ancora sorto, affermando invece che lo scopo pratico avuto di mira dalle parti consisteva nel concludere la procedura espropriativa, precludendo agli espropriati la possibilità di avanzare qualsiasi ulteriore e diversa pretesa. Tale conclusione non trova adeguata giustificazione né nell’osservazione che la precede, secondo cui da nessun passo dell’atto emergeva la volontà degli espropriati di trasferire alcunché al Comune jure privatorum , giacché il titolo in forza del quale il Comune aveva acquistato la proprietà dei terreni destinati alla realizzazione dell’opera pubblica e quelli residuati era costituito dal decreto di esproprio, né nel richiamo al principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione del contratto, secondo cui l’elemento letterale, pur risultando centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, dev’essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici, e segnatamente di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla «ragione pratica» del contratto, in conformità agli interessi che le parti hanno inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale (cfr. Cass., Sez. III, 17/11/2021, n. 34795; 6/07/2018, n. 17718; 19/03/2018, n. 6675).
E’ pur vero, infatti, che, sebbene i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. siano governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale quelli strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la «comune intenzione delle parti stipulanti», la necessità di ricostruire quest’ultima senza «limitarsi al senso letterale delle parole», ma avendo riguardo al «comportamento complessivo» dei contraenti comporta che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non sia necessariamente decisivo ai fini della rico-
struzione dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali non costituisce un prius , ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, dovendo considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (cfr. Cass., Sez. I, 28/06/2017, n. 16181; Cass., Sez. III, 15/07/2016, n. 14432). E’ proprio in quest’ottica, d’altronde, che è stato precisato che l’interpretazione del contratto si configura, dal punto di vista logico, come un percorso circolare, che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta tenuta dalle parti medesime (cfr. Cass., Sez. III, 8/11/2022, n. 32786; 10/05/2016, n. 9380; 9/12/2014, n. 25840).
Nella specie, tuttavia, è proprio il confronto tra gli elementi extratestuali e quelli testuali a non rendere ragione della lettura dell’accordo fornita dalla Corte di merito, la quale, nell’evidenziare che l’acquisto da parte del Comune non era ricollegabile alla realizzazione dell’opera pubblica su un’area illegittimamente occupata, ma alla legittima emissione del decreto di esproprio, ha fatto ricorso ad un argomento idoneo a consentire di escludere che la rinuncia contenuta nella clausola di cui all’art. 6 dell’atto si riferisse al diritto di proprietà sull’immobile, ma assolutamente insufficiente a dimostrare che essa si estendesse al diritto alla retrocessione, il quale presupponeva, anzi, proprio il legittimo acquisto della proprietà per effetto dell’emissione del decreto di esproprio. Nell’individuare lo scopo pratico dell’accordo nella definizione della procedura ablatoria, mediante la preclusione agli attori della possibilità di avanzare ulteriori pretese, ivi compreso il diritto alla retrocessione, la sentenza impugnata non si è inoltre confrontata con la lettera dell’atto, che, nel prevedere il pagamento della somma concordata, faceva espresso riferimento alla «pretesa creditoria di cui all’atto di citazione», in tal modo correlando l’oggetto dell’accordo a quello del giudizio di opposizione alla stima, senza fare alcun riferimento specifico, al di fuori della clausola di cui all’art. 6, ad altri diritti, attuali o futuri, azionati o azionabili da parte degli attori.
In tema di transazione, questa Corte ha peraltro affermato che qualora, rispetto ad un medesimo rapporto, siano sorte o possano sorgere tra le parti
più liti, in relazione a numerose questioni tra loro controverse, l’avere dichiarato, nello stipulare una transazione, di non aver più nulla a pretendere in dipendenza del rapporto, non implica necessariamente che la transazione investa tutte le controversie potenziali o attuali, dal momento che, a norma dell’art. 1364 cod. civ., le espressioni usate nel contratto, per quanto generali, riguardano soltanto gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di statuire: ne consegue che, se il negozio transattivo concerne soltanto alcune delle stesse, esso non si estende, malgrado l’ampiezza dell’espressione adoperata, a quelle rimaste estranee all’accordo, il cui oggetto va determinato attraverso una valutazione di tutti gli elementi di fatto, con apprezzamento che sfugge al controllo di legittimità qualora sorretto da congrua motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 210/07/2021, n. 21557; Cass., Sez. I, 18/05/2018, n. 12367; Cass., Sez. III, 28/11/1981, n. 6351). Non può quindi condividersi la considerazione conclusiva della Corte di merito, ispirata al criterio ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., secondo cui, ove l’intento delle parti fosse consistito esclusivamente nella determinazione dell’indennità, la rinuncia avrebbe dovuto essere coerentemente limitata alla pretesa di somme ulteriori rispetto a quelle indicate nell’atto transattivo, risolvendosi altrimenti in una mera formula di stile, priva di concrete conseguenze giuridiche.
La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del quarto motivo d’impugnazione, restando assorbiti gli altri motivi, concernenti l’inosservanza del principio di gerarchia dei criteri ermeneutici e l’incongruenza e l’illogicità della motivazione.
La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Catanzaro, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie parzialmente il quarto, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 19/02/2025