Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18666 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 18666 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/07/2025
Oggetto
Locazione uso diverso -Recesso anticipato del conduttore Risarcimento danni da mancato preavviso ─ Prova contraria Rito del lavoro ─ Produzione di nuovi documenti in grado di appello – Ammissibilità -Condizioni
Locazione uso diverso -Domanda di riduzione del canone di locazione dovuto nel periodo di applicazione delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza Covid -19 -Natura -Rimedio potestativo giudiziale -Ammissibilità -Esclusione
NOME COGNOME
Presidente –
Oggetto
NOME COGNOME
Consigliere –
R.G.N. 23910/2024
NOME COGNOME
Consigliere Rel. –
NOME COGNOME
Consigliere –
COGNOME
NOME COGNOME
Consigliere –
CC – 25/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23910/2024 R.G. proposto da COGNOME Giuseppe, n.q. di socio accomandatario e legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dal l’Avv. Prof. NOME COGNOME e dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME, domiciliato digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi da ll’Avv. NOME COGNOME domiciliati digitalmente ex lege ;
-controricorrente e ricorrente incidentale -di Venezia, n. 619/2024, avverso la sentenza della Corte d’appello
pubblicata il 4 aprile 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME e NOME COGNOME chiesero e ottennero dal Tribunale di Venezia decreto ingiuntivo (n. 2409 del 2020) nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE di NOME Costa RAGIONE_SOCIALE per il pagamento della somma di Euro 58.949,64 (oltre interessi ex art. 5 d.lgs. n. 231 del 2002 dalla domanda), pari a due terzi dell’importo corrispondente a nove mensilità del canone da questa dovuta in relazione ad immobile di cui essi ricorrenti deducevano essere comproprietari insieme con il fratello NOME, per quote uguali, concesso in locazione, con contratto del 2013, alla predetta società, per essere destinato a pubblico esercizio (ristorante).
Dedussero a fondamento che:
─ la conduttrice non aveva pagato i canoni dovuti per i mesi di marzo, aprile e maggio del 2020;
─ in data 25 maggio 2020 aveva comunicato di voler si sciogliere dal rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione e in subordine di voler recedere per gravi motivi;
─ per il tramite del loro difensore essi avevano contestato la sussistenza della pretesa impossibilità sopravvenuta e comunicato di accettare il recesso con diritto alle sei mensilità di preavviso;
─ in data 3 giugno 2020 la società aveva riconsegnato l’immobile.
NOME COGNOME in proprio e n.q. di socio accomandatario e legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE propose opposizione, deducendo che:
─ nessun canone era dovuto dall’8 marzo 2020, o al più dal 3 giugno 2020, in ragione dell’invocata risoluzione per impossibilità sopravvenuta;
─ in ogni caso, i canoni spettavano semmai in misura ridotta in
ragione delle restrizioni imposte dalla normativa pandemica;
─ alla conduttrice spettava la restituzione della cauzione di Euro 28.800,00 maggiorata degli interessi nel frattempo maturati e maturandi;
─ non era nemmeno dovuta l’ indennità di preavviso, in quanto le unità immobiliari oggetto di locazione erano state concesse in godimento ad altra società che, in possesso delle chiavi, aveva dato inizio a lavori di ristrutturazione dei locali.
Chiese, pertanto, in via riconvenzionale che, accertata l’intervenuta risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta a far data dall’8 marzo 2020, venisse dichiarato che nulla era dovuto in favore degli ingiungenti; invocò, in subordine, la rideterminazione del canone per la durata del preavviso laddove ritenuto dovuto nonché, in via riconvenzionale, la condanna dei locatori alla restituzione della cauzione versata, pari ad € 28.800,00, oltre interessi , importo quest’ultimo successivamente ridotto alla quota dei due terzi dell’intero .
A tali domande resistettero gli opposti, contestando la sussistenza dei presupposti dell’invocata risoluzione e rilevando che l’immobile era rimasto sfitto per tutto il periodo del preavviso e che al momento della riconsegna l’immobile appariva gravemente danneggiato, ragione per la quale negavano di essere tenuti alla restituzione del deposito cauzionale e instavano, in via di reconventio reconventionis , per la condanna della opponente al risarcimento dei danni stimati in complessivi Euro 27.883,77.
Con sentenza n. 2084 del 2022 (successivamente corretta con ordinanza ex art. 288 c.p.c.) l’adito Tribunale, per quanto ancora interessa, revocato il decreto ingiuntivo opposto e respinta ogni altra domanda, dichiarò gli opponenti tenuti, in solido, a pagare agli opposti, a titolo di canoni di locazione e di indennità di preavviso, la somma di euro 31.883,55, oltre interessi moratori commerciali dalle
scadenze mensili al saldo, oltre che alle spese processuali. Condannò conseguentemente gli opposti, in solido, a restituire la somma di Euro 27.066,09, ricevuta in eccesso in esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto, ma non anche, come richiesto dagli opponenti, le spese di esecuzione.
Ritenne infatti che:
─ era ingiustificato l’integrale inadempimento dell’obbligo di versamento dei canoni di locazione stante la natura meramente transitoria della situazione emergenziale provocata dalla pandemia di Covid-19;
─ per lo stesso motivo non erano configurabili i presupposti della chiesta risoluzione del contratto per impossibilità della prestazione;
─ doveva invece considerarsi validamente esercitato il recesso dal contratto;
─ l’indennizzo da mancato preavviso poteva considerarsi dovuto solo fino al mese di Settembre 2020, atteso che i documenti prodotti dagli opponenti dimostravano che, a partire da quella data, la terza società RAGIONE_SOCIALE aveva assunto la qualità di conduttore del bene;
─ meritava di essere accolta la domanda di riduzione dei canoni per i mesi di ridotta utilizzabilità dell’immobile, sulla base del principio di buona fede in funzione integrativa del contratto ex art. 1374 c.c., e ciò nella misura del 40% per i mesi di Marzo, Aprile e Maggio 2020 e del 20% per i mesi da Giugno 2020 a Settembre 2021;
─ era stata dimostrata l’esistenza di danni all’immobile tali da fondare la pretesa risarcitoria dei locatori per l’ammontare di Euro 27.883,77, detratto il quale il credito della conduttrice per la restituzione del deposito cauzionale (Euro 28.800,00) poteva essere riconosciuto nel solo importo di Euro 916,23, donde la rideterminazione del controcredito dei resistenti per canoni e indennità da mancato preavviso nel predetto importo di Euro
31.883,55, oltre interessi.
Pronunciando sui contrapposti gravami, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 619/2024, resa pubblica il 4 aprile 2024, in riforma della decisione impugnata, dichiarato il difetto di legittimazione attiva di NOME COGNOME in proprio (non essendo egli parte del rapporto locativo e nemmeno destinatario del provvedimento monitorio opposto), ha accertato la sussistenza di un credito dei locatori pari ad € 45.849,72 a titolo di canoni impagati e di un controcredito della conduttrice pari ad € 13.102,34 a titolo di restituzione della quota del deposito cauzionale di spettanza degli appellati e, per l’effetto, ha condannato la RAGIONE_SOCIALE a pagare in favore di NOME e NOME COGNOME la somma di € 32.747,38, oltre agli interessi moratori al saggio commerciale dalla data delle rispettive scadenze al saldo effettivo.
In sintesi, la Corte lagunare, da un lato, ha rideterminato in riduzione l’importo dei danni risarcibili cagionati all’immobile, dall’altro, ha escluso la spettanza di alcuna riduzione sull’importo dei canoni, confermando per intero le valutazioni del primo giudice sui restanti temi di lite (e segnatamente quanto all’importo spettante ai locatori a titolo di indennità da mancato preavviso di recesso e con riferimento alla domanda di restituzione delle spese di esecuzione), procedendo, quindi, al ricalcolo delle voci di dare e avere con gli esiti sopra indicati.
Queste le motivazioni, per quanto ancora ne interessa in questa sede in relazione ai capi attinti dai motivi di ricorso:
A) in punto di indennità da mancato preavviso:
─ RAGIONE_SOCIALE non può avvalersi della documentazione prodotta per la prima volta in appello dagli Alassio, ostandovi il disposto dell’ultimo comma dell’art. 345 cod. proc. civ., non essendo provata l’impossibilità per la parte di provvedere tempestivamente, nel giudizio di primo grado, a tale produzione per causa ad essa non
imputabile;
─ i documenti indicati dalla s.a.s. (docc. nn. 34 e 35, recanti nullaosta all’esecuzione di lavori rilasciati in data 30 settembre 2020 dai tre fratelli Alassio alla società RAGIONE_SOCIALE in qualità di conduttore dell’unità in oggetto ») non sono idonei a dimostrare che gli Alassio avevano rilocato l’immobile alla società RAGIONE_SOCIALE sin dal 1° luglio 2020; essi valgano semmai a confermare che, come già affermato dal primo giudice, alla data del 30 settembre 2020 debba ritenersi sorta in capo alla testé detta RAGIONE_SOCIALE la qualifica di conduttrice; « non coglie nel segno la deduzione secondo la quale l’approvazione dei progetti in esame dimostrerebbe comunque il protratto e risalente godimento dei locali in capo alla predetta compagine, essendo ben possibile che -pur mantenendo gli Alassio la disponibilità del bene sino al 30 settembre 2020 -gli stessi si fossero comunque prestati alla effettuazione di un qualche sopralluogo da parte dei professionisti incaricati della predisposizione delle opere in questione, al fine di consentire loro la stesura dei progetti, senza che ciò comportasse peraltro quel trasferimento dell’integrale e continuato godimento del bene in favore del terzo tale da far sorgere la locazione del medesimo »;
─ sono inammissibili i capitoli di prova formulati in proposito, stante la loro insanabile genericità ed irrilevanza;
─ rimane assorbito l’ulteriore profilo di doglianza relativo alla condanna di RAGIONE_SOCIALE al pagamento della indennità in questione per mensilit à intere, senza possibilit à di frazionamento del canone per singoli giorni, dal momento che il giudice risulta avere posto a carico della stessa le sole quattro mensilità di giugno, luglio, agosto e settembre 2020, dovute in toto giacché il recesso era stato validamente esercitato solo con PEC del 25 maggio 2020 (circostanza questa non appellata dalla conduttrice) -senza nemmeno considerare i sei giorni della fine di maggio che pure, seguendo il
ragionamento di quest’ultima, le avrebbero dovuto essere addebitati ;
─ « nemmeno sussistono valide ragioni per accogliere il contrapposto gravame proposto sul punto dagli appellati, in quanto di fatto sostanzialmente basato sul tenore di quel contratto di locazione asseritamente concluso con la società RAGIONE_SOCIALE che è stato peraltro tardivamente prodotto solo in questo grado di giudizio e che per tale motivo non può essere preso in considerazione dal collegio per le ragioni già più sopra esposte »;
sulla pretesa di riduzione del canone in ragione della pandemia di Covid-19 :
─ « le disposizioni di natura emergenziale dettate dall’art. 91 del D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni nella legge n. 27/2020, non di per sé causato una qualsiasi impossibilit à , assoluta ovvero parziale, di godimento dell’immobile, dal momento che esso è rimasto nella totale disponibilità della conduttrice che ne ha continuato a trarre ogni possibile utilit à , restando unicamente precluso l’esercizio di quelle attività̀ commerciali che il legislatore ha ritenuto di sospendere momentaneamente »; tale ultima circostanza non assume però rilievo non avendo i locatori assunto « alcun obbligo nei confronti della conduttrice volto a garantire la possibilità effettiva di esercizio di quella attivit à »; non è pertanto consentito alla appellante principale di lamentare quella impossibilità sopravvenuta di adempiere di cui all’art. 1256 cod. civ., « né con riguardo alla prestazione dovuta dai locatori, che hanno regolarmente continuato ad adempiere ai propri obblighi mettendo il bene a disposizione del conduttore senza soluzione di continuità; né con riguardo alla prestazione da essa dovuta alla controparte, poiché la stessa, avendo ad oggetto la consegna di un bene fungibile quale il denaro, non è certamente venuta meno in sé, essendosi semmai unicamente in presenza di una temporanea difficoltà della RAGIONE_SOCIALE di fare fronte ai pagamenti a seguito di un inaspettato mutamento delle
condizioni di mercato », il che costituisce rischio d’impresa non suscettibile di essere trasferito a carico dei locatori;
sulla domanda di restituzione delle spese di esecuzione:
─ essendo stata l’opposizione a decreto ingiuntivo accolta solo in parte, gli atti di esecuzione già compiuti in base al provvedimento monitorio conservano, a mente dell’art. 653 cod. proc. civ., i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta; erano dunque legittime le procedure intraprese medio tempore , poiché fondate su di un titolo all’epoca vigente ; la pretesa restitutoria avanzata dalla conduttrice avrebbe pertanto dovuto essere avanzata davanti al giudice dell’esecuzione, nell’eventuale giudizio di opposizione all’esecuzione , atteso che, giusta il disposto del primo comma dell’art. 91 cod. proc. civ., ogni determinazione relative alle spese di un singolo procedimento compete esclusivamente al giudice di quella causa e non ad altri.
Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione articolando quattro motivi, cui resistono gli intimati, depositando controricorso e con lo stesso atto proponendo ricorso incidentale condizionato sulla base di due motivi.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente principale denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « nullità della sentenza e/o del procedimento in relazione agli artt. 437, secondo comma e 229 cod. proc. civ. », per avere la Corte ritenuto inutilizzabile ( recte : inammissibile), anche per essa opponente/appellante, la copia del nuovo contratto di locazione del 26
giugno 2020, prodotta dagli appellati.
Lamenta che la Corte d’appello abbia al riguardo erroneamente fatto applica zione dell’ art. 345 c.p.c., relativo al rito ordinario, invece dell’art. 437 c.p.c., che disciplina i nova nell’appello lavoristico, applicabile alla presente controversia locatizia in virtù del richiamo dell’art. 447bis c.p.c. , e che, a differenza dell’art. 345 c.p.c., ammette nuovi mezzi di prova in appello, anche d’ufficio, se ritenuti indispensabili ai fini della decisione.
Rileva che, nella specie, tale requisito avrebbe dovuto ritenersi sussistente, risultando il documento in questione indispensabile per provare, da un lato, la sottoscrizione del contratto in data 26 giugno 2020, antecedente al 1° luglio 2020 , dall’altro, che il nuovo conduttore aveva provveduto ad una ristrutturazione integrale, come risultante dall’art. 16 del contratto, da entrambe le circostanze dovendosi trarre ragioni ostative sia al vantato diritto di controparte all’indennità di preavviso, sia alla pretesa risarcitoria per i danni all’immobile.
Sostiene che la valutazione di inammissibilità della produzione di tale documento avrebbe dovuto essere limitata ai soli appellati e non anche ad essa appellante principale, dal momento che, non avendone copia, non poteva produrla e altro non poteva fare che chiederne l’esibizione ex art. 210 cod. proc. civ., come aveva tempestivamente fatto con istanza formulata sia nel giudizio di opposizione, che in appello e in tutte le fasi processuali.
Deduce che peraltro il contenuto, le condizioni e le risultanze di detto nuovo contratto di locazione del 26 giugno 2020 dovevano ritenersi acquisite al processo anche solo per effetto di confessione giudiziale, di NOME e NOME COGNOME, siccome ricavabile sia dalla memoria difensiva del 15/03/2024, dimessa in appello da NOME e NOME COGNOME, ancorché recante la sola firma del loro difensore, sia dalla stessa copia in questione, in quanto recante le firme personali
dei suddetti.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « nullità della sentenza e/o del procedimento in relazione all’art. 112 c.p.c. » per avere la Corte d’appello omesso di pronunciarsi, ritenendola erroneamente assorbita in conseguenza della ritenuta inammissibilità della produzione del contratto del 26 giugno 2020, sulla richiesta di restituzione dell’indennità di preavviso per la frazione di mese dal 26 al 30 giugno 2020.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 1374 cod. civ. », per avere la Corte d’appello ritenuto non riducibile equitativamente il canone di locazione in ragione della situazione emergenziale intervenuta nei mesi di marzo-settembre 2020 a causa della pandemia da Sars Cov-2.
Sostiene che la pandemia e le conseguenti restrizioni governative hanno stravolto l’equilibrio originario del sinallagma contrattuale, rendendo impossibile o gravemente limitato l’utilizzo dell’immobile per l’attività di ristorazione ; era pertanto giustificata, ai sensi dell’evocata norma, e come anche affermato nella Relazione n. 56 del 2020 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione , la riduzione equitativa dei canoni per riportare il contratto entro i limiti dell’alea negoziale normale.
In via gradata la ricorrente denuncia, con lo stesso motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « nullità della sentenza o del procedimento, in relazione all’art. 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ., in combinato disposto con l’art. 156, secondo comma, c.p.c. », per avere la Corte di merito omesso qualunque motivazione in ordine alla inidoneità dell’art. 1374 cod. civ. a legittimare una riduzione equitativa dei canoni di locazione in
caso di situazioni emergenziali e straordinarie quale quella descritta.
Con il quarto motivo la ricorrente principale denuncia, infine, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « nullità della sentenza e/o del procedimento, in relazione agli artt. 615, 617 e 653 c.p.c. », per avere la Corte d’appello negato il diritto di essa ricorrente di vedersi restituite quanto meno le spese di esecuzione riferibili alla quota di capitale ex post accertata eccedente rispetto a quanto provvisoriamente azionato da NOME e NOME COGNOME.
Lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente applicato l’art. 653 c.p.c., che prevede la conservazione degli effetti degli atti esecutivi solo nei limiti della somma o quantità ridotta, rilevando che la caducazione del decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo rende inesistenti tutti gli effetti successivi, comprese le spese sostenute per la sua esecuzione.
Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 -bis n. 2 c.p.c., mancando -il denunciato errore- di decisività, ossia di capacità di incidere sul contenuto della decisione e, dunque, di arrecare un effettivo pregiudizio alla parte che lo denuncia (v. Cass. n. 22341 del 26/09/2017.
È bensì vero che, trattandosi di controversia in materia di locazione, come tale soggetta al rito del lavoro (per il richiamo che alla relative norme fa l’art. 447 -bis c.p.c.), la regola che presiede alla ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello non va ricavata dall’art. 345 c.p.c., come erroneamente postulato dalla Corte territoriale, ma dall’art. 437, secondo comma, c.p.c., che, a differenza del primo, ammette nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, nel caso in cui « il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ».
Tuttavia, nessun elemento viene offerto in ricorso idoneo a giustificare una valutazione di idoneità del documento indicato ad
eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia impugnata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato.
Giova al riguardo premettere che, quanto ai limiti del sindacato di questa Corte sull’esercizio del potere in questione da parte del giudice d’appello è stato condivisibilmente osservato (Cass. n. 20525 del 2020), con riferimento all’art. 345, terzo comma, c.p.c., nel testo anteriore alla modifica recata dal d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012, che la valutazione circa l’indispensabilità della prova può essere effettuata dalla Corte di cassazione, trattandosi di giudizio che non attiene al merito della decisione ma al rito, atteso che la corrispondente questione rileva ai fini dell’accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all’ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte; ne consegue che, quando venga dedotta, in sede di legittimità, l’erroneità dell’ammissione o della dichiarazione di inammissibilità di una prova documentale in appello, la Cassazione, chiamata ad accertare un error in procedendo , è giudice anche del fatto, ed è, quindi, tenuta a stabilire se si trattasse di prova indispensabile (Cass. n. 32815 del 2023).
Tuttavia, tale apprezzamento di indispensabilità viene svolto dalla Corte di legittimità in astratto, ossia al solo fine di stabilire la idoneità teorica della prova ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione dei fatti di causa, senza alcuna assunzione di poteri cognitori di merito da parte della S.C., spettando pur sempre al giudice di merito, in sede di rinvio, l’apprezzamento in concreto delle inferenze desumibili dalla prova, ai fini della ricostruzione dei fatti di causa.
Ciò posto, però, proprio perché si tratta di un error in procedendo , collocabile nell’ambito degli errori di attività del giudice di cui al n. 4
dell’art. 360 c.p.c., disposizione che postula che il vizio sia tale da determinare la nullità della sentenza o del procedimento, è pur sempre necessario che la denunciata violazione abbia svolto un ruolo decisivo, ovvero che abbia influito in modo determinante sul contenuto della decisione di merito, ovvero che quest’ultima ─ in assenza di tale vizio ─ non sarebbe stata resa nel senso in cui lo è stata (tra le altre: Cass. n. 22978 del 2015; Cass. n. 26087 del 2019).
Infatti, la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima (Cass. Sez. U. n. 3758 del 2009), poiché alla radice di ogni impugnazione deve essere individuato in interesse giuridicamente tutelato, identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile, attraverso la rimozione della statuizione censurata, e non già un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica non avente riflessi effettivi sulla soluzione adottata (Cass. n. 18074 del 2014; n. 7394 del 2008; Cass. n. 13091 del 2003).
Dai princìpi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire si desume quello per cui la denunzia di vizi dell’attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 4), non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio (v., Cass. 32815 del 2023 e, ivi citata, Cass. n. 26157 del 2014, la quale aggiunge che l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata).
Orbene, nella specie, parte ricorrente si limita a dedurre l’avvenuta violazione della regola processuale, senza in alcun modo prospettare come tale violazione abbia decisivamente influito sulla sentenza d’appello ; essa, invero, non solo omette di riportare il contenuto del documento richiamato ma neanche spiega quali contenuti determinanti da esso potrebbero trarsi idonei a condurre ad un convincimento diverso da quello espressa dalla Corte circa la data di decorrenza del nuovo rapporto locatizio instaurato dai locatori con la società RAGIONE_SOCIALE; indicazioni tanto più necessarie ove si consideri che la stipula di tale contratto è in sé circostanza pacificamente ammessa anche dalla controparte, che però intende ricavare dal suo contenuto dimostrazione della tesi opposta, secondo cui l’inizio di tale rapporto, proprio per espressa pattuizione delle parti del nuovo contratto, doveva datarsi ben dopo la data, del 30 settembre 2020, ritenuta in sentenza.
L’unico riferimento al riguardo è all’art. 16 del contratto che, secondo la società ricorrente, dimostrerebbe che il nuovo conduttore aveva provveduto ad una ristrutturazione integrale dell’immobile; esso è però smentito dalla lettura di tale articolo, il quale, lungi dall’attestare la già avvenuta esecuzione di opere, si limita a facultare il nuovo conduttore a eseguire sugli immobili, « prima dell’inizio della locazione », le opere ritenute necessarie o utili, da concordare con i proprietari.
Escluso dunque che tale previsione possa suffragare la tesi della ricorrente circa la data di inizio della locazione, essa nemmeno può giovare a supportare la contestazione in merito alla quantificazione dei danni, nulla essendo consentito ricavare da tale previsione circa la natura e consistenza delle prefigurate nuove opere e se esse riguardassero oppure no le parti danneggiate dalla precedente conduttrice in termini tali da escluderne una effettiva incidenza nell’economia dei nuovi accordi.
A non diverso esito deve giungersi in ordine alle subordinate prospettazioni censorie.
Quanto alla mancata emissione di ordine di esibizione, ex art. 210 c.p.c., è dirimente il rilievo che, secondo pacifico indirizzo, « l’emanazione di ordine di esibizione è discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata; ne consegue che il relativo esercizio è svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte istante non abbia finalità esplorativa » (v. ex multis , in motivazione, Cass. n. 29291 del 2024 n. 27412 del 2021).
Non è poi attribuibile alcun valore confessorio dei fatti dedotti dalla ricorrente alla ammissione del difensore di controparte circa l’avvenuta stipula del contratto di locazione (circostanza, come detto, in sé pacifica ma ben lontana di per sé dal dimostrare anche la data di inizio del rapporto), né al fatto in sé della offerta in produzione del documento.
Discende dalle considerazioni che precedono anche l’infondatezza del secondo motivo, proposto del resto in stretta dipendenza dell’auspicato accoglimento del primo.
Il terzo motivo è infondato.
Con recentissima pronuncia (Cass. Sez. 3 Sentenza n. 16113 del 16/06/2025), e con riferimento ad un caso analogo, questa Corte ha affermato il principio secondo cui « in tema di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, l’art. 91, comma 1, del d.l. 17 marzo 2020, n.18 (c.d. decreto ‘Cura Italia’), assume rilievo ai fini del giudizio di imputabilità dell’inadempimento nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, attribuendo all’impedimento derivante dal
rispetto delle misure anti-Covid la natura di impedimento non prevedibile né superabile con la diligenza richiesta al debitore e quindi di causa non imputabile della inesecuzione della prestazione da parte sua, liberandolo dall’obbligo di risarcimento del danno ed escludendo la legittimazione della controparte all’azione di risoluzione per inadempimento; dalla norma in questione, invece, non può farsi derivare l’esistenza di un diritto potestativo giudiziale di ottenere la riduzione della prestazione dovuta in esecuzione di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata o periodica per effetto dell’incidenza su tale rapporto delle suddette misure restrittive anti-pandemiche, atteso che, stante il principio di tipicità dei rimedi giudiziali potestativi diretti a suscitare sentenze di carattere costitutivo (art. 2908 cod. civ.), un potere conservativo di riduzione ad equità della prestazione va riconosciuto alla parte eccessivamente onerata soltanto nell’ipotesi di contratto a titolo gratuito (art. 1468 cod. civ.), mentre, al di fuori di tale ipotesi, essa parte resta legittimata all’azione di risoluzione per eccesiva onerosità sopravvenuta, spettando in tal caso alla controparte che intenda evitare lo scioglimento del rapporto contrattuale un diritto potestativo di rettifica (da esercitarsi mediante negozio giuridico unilaterale e recettizio), analogo a quello previsto in tema di contratto annullabile per errore (art.1432 cod. civ.) e di contratto rescindibile ».
A tale principio, pienamente condiviso, va qui data continuità, non offrendo il motivo in esame argomenti idonei a condurre ad un diverso orientamento.
Non pertinente è, in particolare, il richiamo ai criteri di integrazione del contratto . L’art. 1374 cod. civ. prevede l’etero -integrazione delle pattuizioni contrattuali in base alla legge, agli usi e all’equità , che è cosa ben diversa dall’attribuire alle parti contrattuali un diritto potestativo di ottenere (e, correlativamente, una soggezione a subire) una rettifica del contenuto del contratto e una
modifica della prestazione.
Più in generale, è stato osservato ─ e va qui ribadito ─ che allorché la parte di un contratto sinallagmatico ad esecuzione continuata o periodica deduca il sopravvenuto imprevedibile aggravio della sua prestazione in relazione al valore dell’altra, il rimedio potestativo posto a sua disposizione dall’ordinamento è quello della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, mentre l’istituto della riduzione del contratto ad equità può essere azionato dalla controparte contro cui sia domandata la risoluzione al fine di evitarla (art.1467, terzo comma, cod. civ.; Cass. 26/01/2018, n. 2047).
In tal caso, l’attribuzione di un diritto potestativo di rettifica (da esercitarsi mediante negozio unilaterale recettizio), analogo a quello previsto in tema di contratto annullabile per errore (art.1432 cod. civ.) e di contratto rescindibile (art. 1450 cod. civ.), si giustifica, per un verso, in ragione del principio di conservazione del contratto, per l’altro in ragione della circostanza che la rettifica operata dalla parte non onerata (la cui adeguatezza, in caso di contestazione, è sottoposta al controllo del giudice: cfr. già Cass. 18/07/1989, n. 3347) riporta il divario tra le due prestazioni entro i limiti dell’alea normale del contratto, ripristinando l’equilibrio originario e facendo venir meno i presupposti della risoluzione invocata dalla parte onerata.
In favore di quest’ultima, un potere conservativo di riduzione ad equità (non del contratto ma) della prestazione è previsto solo nell’ipotesi di contratto a titolo gratuito (art. 1468 cod. civ.).
Al di fuori di tali specifiche ipotesi, non è configurabile un diritto potestativo giudiziale di riduzione ad equità della prestazione per il sopravvenuto eccezionale aggravio di essa e per il sopravvenuto eccezionale squilibrio del sinallagma contrattuale dovuto ad eventi straordinari ed imprevedibili, stante il principio della tipicità delle azioni costitutive (art. 2908 cod. civ.).
È poi certamente infondata la censura di motivazione mancante.
Un tale radicale vizio della sentenza è configurabile solo quando per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 -8054).
Non può invece un siffatto vizio predicarsi quando, a fronte di una motivazione in sé perfettamente comprensibile, se ne intenda diversamente evidenziare un mero disallineamento dalle acquisizioni processuali (di tipo quantitativo o logico: vale a dire l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione), né tanto meno per la mera mancata espressa considerazione di argomentazioni giuridiche.
In questo secondo caso, infatti, il sindacato che si richiede alla Cassazione non riguarda la verifica della motivazione in sé, quale fatto processuale riguardato nella sua valenza estrinseca di espressione linguistica (significante) diretta a veicolare un contenuto (significato) e frutto dell’adempimento del dovere di motivare (sindacato certamente consentito alla Corte di cassazione quale giudice anche della legittimità dello svolgimento del processo: cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077), ma investe proprio il suo contenuto (che si suppone, dunque, ben compreso).
È infine infondato il quarto motivo.
Del tutto correttamente la Corte d’appello ha rilevato che essendo stata l’opposizione a decreto ingiuntivo accolta solo in parte, gli atti di esecuzione già compiuti in base al provvedimento monitorio conservano, a mente dell’art. 653 , secondo comma, cod. proc. civ., i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta; erano dunque legittime le procedure intraprese medio tempore , poiché
fondate su di un titolo all’epoca vigente; la pretesa restitutoria avanzata dalla conduttrice avrebbe pertanto dovuto essere avanzata davanti al giudice dell’esecuzione, nell’eventuale giudizio di opposizione all’esecuzione, atteso che, giusta il disposto del primo comma dell’art. 91 cod. proc. civ., ogni determinazione relative alle spese di un singolo procedimento compete esclusivamente al giudice di quella causa e non ad altri.
Non pertinente è, di contro, il richiamo all’arresto di Cass. n. 379 del 2010 che riguarda il diverso caso dell’accoglimento integrale dell’opposizione, nel quale evidentemente non può operare l’art. 653 c.p.c..
La memoria che, come detto, è stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
Resta assorbito l’esame dei motivi del ricorso incidentale in quanto espressamente condizionato all’eventuale accoglimento del ricorso principale.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale , ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato. Condanna la ricorrente principale al pagamento, in
favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza