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Ricorso per cassazione fallimento: quando è inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da due società creditrici che chiedevano l’estensione del fallimento a un’altra società e a persone fisiche, sulla base dell’esistenza di una presunta ‘società di fatto’. La Suprema Corte ha ribadito il suo orientamento consolidato secondo cui il decreto che rigetta un’istanza di fallimento non è impugnabile in Cassazione, poiché non ha natura di sentenza definitiva e non esiste un ‘diritto al fallimento altrui’. La decisione conferma la chiusura procedurale per il ricorso per cassazione fallimento in caso di rigetto dell’istanza.

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Ricorso per cassazione fallimento: quando è inammissibile

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha riaffermato un principio fondamentale in materia fallimentare: il ricorso per cassazione fallimento è inammissibile se proposto contro un provvedimento che rigetta l’istanza di fallimento. Questa decisione chiarisce i confini procedurali per l’accesso al giudizio di legittimità, sottolineando che non esiste un ‘diritto al fallimento altrui’. Analizziamo insieme i dettagli del caso e le motivazioni della Suprema Corte.

I Fatti di Causa

Due società creditrici si erano rivolte al Tribunale per chiedere l’accertamento di una ‘società di fatto’ che, a loro dire, legava una società già fallita ad un’altra società e a tre persone fisiche. L’obiettivo era ottenere l’estensione del fallimento a tutti questi soggetti, ritenuti soci occulti o parte di un unico centro di interessi economici.

Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto le richieste. I giudici di merito non avevano ravvisato prove sufficienti per dimostrare l’esistenza di tale ‘super-società’. In particolare, avevano evidenziato l’assenza degli elementi caratterizzanti un contratto sociale, come l’esercizio comune di un’attività d’impresa, un patrimonio unitario e la partecipazione di tutti i soci agli utili e alle perdite. La collaborazione tra i soggetti coinvolti, legati anche da vincoli familiari, non era stata ritenuta prova di un’intesa societaria (affectio societatis), ma piuttosto riconducibile a normali rapporti di consulenza o lavoro dipendente.

Il ricorso per cassazione fallimento e i motivi d’appello

Le società creditrici hanno quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, lamentando molteplici violazioni di legge e vizi di motivazione. Sostenevano che i giudici di merito avessero erroneamente interpretato le prove documentali, che a loro avviso dimostravano una gestione comune e un’unica realtà aziendale mascherata dietro diverse entità giuridiche. Tra i motivi del ricorso vi erano la presunta errata valutazione delle attività svolte dalle società, l’omesso esame di documenti decisivi e la falsa applicazione delle norme in materia di trasferimento d’azienda e responsabilità solidale.

La questione della ‘società di fatto’

Il fulcro della controversia di merito era la configurabilità di una società di fatto. La Corte d’Appello aveva escluso tale ipotesi, rilevando che:
1. Le attività delle due principali società erano diverse (una commercializzava un tipo di materiale, l’altra lavorava marmi e pietre).
2. L’uso comune di un marchio e di profili social aveva finalità puramente comunicative e non gestionali.
3. Mancavano le tipiche manifestazioni esteriori di un vincolo societario, come il rilascio di garanzie reciproche o la condivisione di liquidità.
4. I soci persone fisiche avevano percepito compensi per le loro prestazioni, ma non avevano mai partecipato agli utili o alle perdite delle società.

Le motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione, tuttavia, non è entrata nel merito delle contestazioni. Ha dichiarato il ricorso inammissibile per una ragione puramente procedurale, ma di fondamentale importanza. La Suprema Corte ha richiamato il suo consolidato orientamento secondo cui il decreto con cui viene rigettata un’istanza di fallimento (o di estensione del fallimento) non è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione.

La ragione di tale principio risiede nella natura del provvedimento. Il decreto di rigetto:
Non ha attitudine al giudicato: non è una decisione definitiva e immutabile sui rapporti tra le parti.
Non incide su un diritto soggettivo: non esiste, nell’ordinamento, un ‘diritto all’altrui fallimento’. Il creditore ha il diritto di tutelare il proprio credito, ma non ha un diritto soggettivo a che il suo debitore venga dichiarato fallito.

La Corte ha inoltre precisato che i precedenti giurisprudenziali citati dai ricorrenti, che ammettevano il ricorso, si riferivano a casi diversi, ovvero a sentenze che accoglievano il reclamo e dichiaravano il fallimento, provvedimenti che, a differenza del rigetto, hanno natura decisoria e definitiva.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un importante principio processuale in diritto fallimentare. La strada per contestare in Cassazione il rigetto di un’istanza di fallimento è sbarrata. Questa chiusura procedurale mira a evitare che le procedure concorsuali vengano strumentalizzate e a confinare il giudizio di legittimità alle sole decisioni che hanno carattere definitivo e che incidono su diritti soggettivi pieni. Per i creditori, ciò significa che la battaglia per l’accertamento di una società di fatto e la conseguente estensione del fallimento si gioca e si conclude interamente nei gradi di merito.

È possibile presentare ricorso in Cassazione se un tribunale rifiuta di dichiarare un’azienda fallita?
No. Secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, il decreto che rigetta un’istanza di fallimento (o di sua estensione) non è un provvedimento definitivo con forza di giudicato e non incide su un diritto soggettivo del creditore. Pertanto, non è impugnabile tramite ricorso per cassazione.

Quali elementi sono necessari per dimostrare l’esistenza di una ‘società di fatto’?
Sebbene la Cassazione non si sia pronunciata sul merito, la decisione della Corte d’Appello, non riformata, ha chiarito che per provare una società di fatto occorrono elementi concreti come l’esercizio in comune di un’attività d’impresa, la costituzione di un fondo patrimoniale comune e la partecipazione di tutti i soci ai profitti e alle perdite. La semplice collaborazione, specialmente tra familiari, o l’uso di un marchio comune non sono sufficienti.

C’è differenza tra impugnare una dichiarazione di fallimento e un rigetto dell’istanza di fallimento?
Sì, c’è una differenza fondamentale a livello procedurale. La sentenza che dichiara il fallimento è un provvedimento decisorio e definitivo, pertanto è soggetta ai normali mezzi di impugnazione, incluso il ricorso per cassazione. Al contrario, il decreto che respinge l’istanza di fallimento è considerato un atto di natura non decisoria e, di conseguenza, non è ricorribile in Cassazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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