Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3125 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1   Num. 3125  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 00726/2023
promosso da
NOME  COGNOME , elettivamente  domiciliato in  Catanzaro,  INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME,  che  lo  rappresentano  e  difendono  in  virtù  di  procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
 contro
RAGIONE_SOCIALE ,  in  persona  del  legale  rappresentante pro  tempore , domiciliata in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;
– controricorrente –
nonché contro
Ing. NOME COGNOME ;
– intimato – avverso  la  sentenza  n.  74/2022  della  Corte  d’appello  di  Catanzaro, pubblicata  il  21/01/2022  e  il  successivo  decreto  di  liquidazione  del compenso al CTU emesso nello stesso procedimento in data 04/02/2022 dal Presidente della Corte d’appello di Catanzaro;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2023 dal Consigliere NOME COGNOME;
letti gli atti del procedimento in epigrafe.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME  COGNOME  convenne  in  giudizio  innanzi  al  Tribunale  di Catanzaro l’RAGIONE_SOCIALE (di seguito,  RAGIONE_SOCIALE) e la RAGIONE_SOCIALE per  sentirle condannare  alla  restituzione  della  porzione  di  fondo  di  sua  proprietà, illegittimamente  occupato  o,  in  subordine,  al  risarcimento  del  danno, unitamente alla corresponsione dell’indennità di occupazione legittima.
Nel  contraddittorio  dei  convenuti,  il  Tribunale  adito,  con  sentenza dell’11/11/2011,  ritenuta  sussistente  l’ipotesi  della  cd.  occupazione usurpativa, condannò i convenuti, in solido tra loro, al risarcimento del danno, in ragione della sorte di € 401.700,00, pari al valore venale del fondo  appreso,  e  di  ulteriori  €  708.763,85  per  l’eliminazione  degli accessi al fondo, per l’inedificabilità della fascia di rispetto stradale e per la mancata regimentazione delle acque piovane.
Con sentenza del 19/07/2013, resa nella contumacia della RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’Appello di Catanzaro accolse in parte il gravame dell’RAGIONE_SOCIALE. Dopo aver disatteso l’eccezione d’inammissibilità dell’appello per mancanza di specifici motivi, sollevata dal danneggiato, e rilevato che si era in presenza di un caso di occupazione c.d. appropriativa, la Corte affermò che il risarcimento dovesse esser determinato, per sorte, in complessivi € 115.082,18, di cui: € 38.136,00 quale controvalore della parte occupata, in considerazione della sua destinazione agricola e del valore di mercato degli oliveti collinari; € 69.787,44 per la perdita e la scomodità degli accessi alla porzione residua ed € 6.978,74, per la relativa mancata regimentazione delle acque, esclusa ogni connotazione edificatoria della zona di rispetto, in ciò tenendo conto delle considerazioni svolte dal primo consulente nominato dal Tribunale e disattendendo quelle esposte dal secondo CTU, ritenute apodittiche e giuridicamente erronee, su cui si era fondata la decisione di primo grado.
Per  la  cassazione  di  tali  statuizioni,  ha  proposto  ricorso  NOME COGNOME,  con  cinque  motivi,  indirizzato  all’RAGIONE_SOCIALE,  al  liquidatore  della
RAGIONE_SOCIALE  estinta,  ai  soci  di  quest’ultima  NOME  COGNOME  e  NOME COGNOME,  oltre  che  a  NOME  COGNOME,  nei  cui  confronti  la  RAGIONE_SOCIALE.  ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva, non risultando essere socia della RAGIONE_SOCIALE né parte in causa nel precedenti gradi di merito.
Con ordinanza n. 29991/2018 (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 29991 del 20/11/2018), questa Corte ha accolto, nei limiti di cui in motivazione,  il  terzo  e  il  quarto  motivo  di  ricorso  per  cassazione, cassando con rinvio la decisione impugnata.
RAGIONE_SOCIALE ha ritenuto che il giudice del gravame avesse correttamente escluso l’edificabilità di fatto dell’area irreversibilmente trasformata, nel determinare il risarcimento dovuto al COGNOME, omettendo però di vagliare le possibilità di utilizzazioni a carattere intermedio tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.) del fondo o di parte di esso, mentre invece avrebbe dovuto tenere conto di tali dati valutativi, ove assentiti dalla normativa vigente, sia pure col conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative, in quanto inerenti ai requisiti specifici del bene e idonei ad incidere sul relativo valore di mercato, al quale doveva esser rapportato il risarcimento dovuto.
Con atto di citazione in riassunzione, notificato in data 25/02/2019 all’RAGIONE_SOCIALE,  NOME  COGNOME  ha  riassunto  il  giudizio  e  l’RAGIONE_SOCIALE  si  è costituita in giudizio.
Espletata una nuova CTU, con sentenza n. 74/2022, pubblicata il 21/01/2022, la Corte d’appello di Catanzaro ha condannato l’RAGIONE_SOCIALE al pagamento, in favore di COGNOME NOME, a titolo di risarcimento del danno per la perdita dell’area, della complessiva somma di € 350.131,80, oltre agli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza al saldo. La Corte d’appello ha anche statuito sulle spese di giudizio, comprese quelle di CTU, stabilendo, in motivazione, che, liquidate con separato decreto, nei rapporti interni dovessero essere poste a carico di entrambe le parti in quote uguali.
Con successivo decreto, in data 04/02/2022, la Corte d’appello ha provveduto alla liquidazione del compenso al CTU.
Avverso la sentenza e il successivo decreto, NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi di impugnazione.
Solo l’RAGIONE_SOCIALE si è difesa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la «Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 -bis, comma 4, del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, dell’art. 2, comma 89, delle leggi 24 dic. 2007 n. 244, 8 agosto 1992 n. 359 e 28 dicembre 1995 n. 549, nonché del T.U. sulle espropriazioni 08/06/2001 n. 327 e della normativa in materia di risarcimento del danno per occupazione illegittima in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. -nullità per difetto di motivazione ex art. 1121 n. 4 c.p.c., ed art. 111 Costituzione, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. ed all’art. 111 della Cost. violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. -omesso esame di fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. – violazione della normativa in materia di prova e di valutazione della consulenza d’ufficio e degli artt. 62 e segg. c.p.c. – violazione dei principi enunciati nella sentenza n. 181/2011 e fissati dalla sentenza di codesta Suprema Corte n. 29991/2018 e conseguente nullità denunciatile ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c.»
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la «Violazione dell’art. 112 comma 2 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. – violazione e falsa applicazione del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, delle leggi 24 dic. 2007 n. 244, 8 agosto 1992 n. 359 e 28 dicembre 1995 n. 549, nonché del T.U. sulle espropriazioni 08/06/2001 n. 327 violazione e falsa applicazione della normativa in materia di risarcimento danni da occupazione, omessa e contraddittoria motivazione, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. – violazione della normativa in materia di prova e di consulenza d’ufficio, e degli artt. 61,
62 e 193, 195 c.p.c. – omessa motivazione ed omesso esame di un fatto decisivo, nullità per vizi in procedendo.»
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la «Violazione, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., della normativa sui danni per occupazione illegittima, della L. n. 2359 del 1865 e ss. mm., dei principi di Corte Cost. n. 180/2011 – violazione della ordinanza di rinvio n. 2991/2018 nullità, in relazione all’art. 369 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 della Cost., per difetto assoluto di motivazione e per natura meramente apparente di quella enunciata violazione dell’art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c. contraddittorietà con statuizioni applicate violazione dell’art. 112 c.p.c. omesso esame ex art. 369 n. 5 c.p.c.»
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la « Violazione in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., della normativa sulla liquidazione dei compensi ai consulenti – nullità per carenza di potere e contraddittorietà in relazione all’art. 111 della Costituzione – illegittimità derivata.»
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
2.1. Com’è noto, in tema di ricorso per cassazione, costituisce ragione d’inammissibilità l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza, quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le censure, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 26790/2018; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 7009/2017; v. anche Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 36881/2021).
L’inammissibilità  della  censura  per  sovrapposizione  di  motivi  di impugnazione eterogenei, riconducibili alle diverse ipotesi  contemplate dall’art.  360,  primo  comma,  c.p.c.  può  essere  superata  solo  se  la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate,  di  fatto  scindibili,  onde  consentirne  l’esame  separato,
esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., Sez. U, Sentenza n. 9100/2015; v. da ultimo Cass., Sez. 1, Sentenza n. 39169/2021).
2.2. Come emerge dalla lettura della rubrica del primo motivo di ricorso, sopra riportata, il COGNOME ha formulato, con esso, cumulativamente plurime censure, ricondotte ai numeri 3, 4 e 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. (violazione di numerose norme di diritto sostanziale, assenza e apparenza di motivazione, violazione delle disposizioni che regolano la prova e la valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, violazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 181/2011, violazione del principio enunciato con l’ordinanza di cassazione con rinvio n. 29991/2018 e conseguente nullità del procedimento).
A  tale  rappresentazione  non  segue,  tuttavia,  la  chiara  e  ordinata illustrazione  di  ogni  specifica  ragione  di  doglianza  in  riferimento  a ciascuno dei parametri invocati a supporto dell’impugnazione, rendendo in  questo  modo  generico  ciascun  motivo  di  doglianza  ai  sensi  dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
Il  motivo  si  risolve  in  diffuse  critiche  alla  sentenza  impugnata, perché ha fatto proprie le risultanze della CTU espletata, di cui la parte ha prospettato l’erroneità, l’illegittimità e l’incompletezza.
Volendo,  comunque,  ripercorrere  l’illustrazione  del  motivo,  lo stesso non supera il vaglio di ammissibilità.
3.1. Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata:
 ha  fatto  proprie  le  risultanze  della  consulenza  tecnica  d’ufficio, omettendo  di  esaminare  (e  di motivare)  in ordine alla singolare ammissione  del  CTU,  che  espressamente  ha  riconosciuto  di  non  aver esaminato e provveduto in ordine alle possibilità di utilizzazione alternativa  di  suoli,  assumendo  che  ciò  non  andava  fatto,  sussistendo l’onere della parte di dimostrare e provare il possibile uso alternativo (il
silenzio su tale profilo è ritenuto particolarmente rilevante, considerando,  da  un  lato,  la  ritenuta  erroneità  palese  della  tesi  e, dall’altro, il fatto che la proposizione del CTU è motivata con l’assunto secondo cui la tesi stessa sarebbe stata contenuta nell’ordinanza della Corte  che  ha  formulato  i  quesiti,  mentre  così  non  era,  e  comunque l’opinione espressa era contraria all’orientamento della giurisprudenza di legittimità);
2) ha fatto propria la valutazione contenuta nella consulenza tecnica d’ufficio, che ha enucleato due lotti (rispettivamente di 10.000 mq passibili di utilizzazione alternativa a distribuzione di carburanti e di 29.000 mq considerati solo come agricoli), ma ha trattato la possibilità o meno del possibile uso per agriturismo solo con riferimento al primo di essi (di 10.000 mq), in cui il problema non esisteva, perché il CTU aveva riconosciuto l’uso alternativo (per la realizzazione di un’area di rifornimento carburante), mentre con motivazione tutta apparente non ha operato tale valutazione con riferimento al secondo lotto (in relazione al quale si è soffermata solo su problemi di estimo).
3) seguendo immotivatamente il CTU, il giudice di merito ha in sostanza omesso di procedere all’accertamento sui possibili usi intermedi (che costituivano peraltro la ragion d’essere del rinvio operato dalla S.C.) e tale omissione non ha riguardato solo le aree irreversibilmente trasformate, ma anche quelle rimaste in proprietà al COGNOME, che avevano subito un pregiudizio dalla trasformazione operata e che dovevano essere valutate nuovamente al fine di quantificare il danno subito a causa della privazione di accessi e della mancata segmentazione delle acque.
Il  tutto,  secondo  il  ricorrente,  ha  comportato  l’assoluta  carenza  di motivazione  e  mancato  esame  di  aspetti  decisivi  che  costituiscono anche  fattori  di  nullità  ed  integrano  errori in  procedendo deducibili  ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Nell’ottica del ricorrente la valutazione andava, invece, fatta, applicando  criteri  di  stima  diversi  da  quelli  utilizzati  dal  CTU,  che
consentissero di determinare il valore dei beni in conformità alla fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011 che, escludendo la legittimità del ricorso al valore agricolo medio, si è uniformata alle indicazioni provenienti sia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea di Lussemburgo, confermando, ed estendendo, un principio che aveva già avuto modo di enunciare la Corte costituzionale con la sentenza n. 348 del 2007 in ordine alla congruità, serietà e adeguatezza dell’indennità di espropriazione.
3.2. A  prescindere dalla inammissibile prospettazione di errores in procedendo, solo  allegati  e  non  illustrati,  deve  subito  rilevarsi  che  le censure formulate non sono affatto riconducibili al prospettato vizio di motivazione,  né  rappresentano  l’omesso  esame  ai  sensi  dell’art.  360, comma 1, n. 5, c.p.c.
3.3. Con riferimento  a  quest’ultimo  profilo,  la  nuova  formulazione dell’art. 360 c.p.c. (introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b, d.l. n. 83 del  2012,  conv.  con  modif.  in  l.  n.  134  del  2012)  non  consente  più l’impugnazione «per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» , ma soltanto «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» .
La  norma  si  riferisce  al  mancato  esame  di  un  fatto,  inteso  come fatto storico, accadimento naturalistico, che sia decisivo e che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Costituisce, pertanto, un fatto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non una questione o un punto, ma un vero e proprio evento, un preciso accadimento, una determinata circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. 2, n. 26274/2018).
Non integrano, viceversa, fatti, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., Sez. 2, n. 14802/2017; Cass., Sez. 5, n. 21152/2014),
le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, né i motivi di appello e neppure le singole questioni decise dal giudice di merito o i punti della sentenza (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016).
Nell’ambito dell’art.  360,  comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato, non è, pertanto, inquadrabile la critica alla consulenza tecnica d’ufficio recepita  dal  giudice,  risolvendosi  tale  critica  in  una  esposizione  di argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8584 del 16/03/2022; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 6322 del 02/03/2023).
Ovviamente,  quando  la  sentenza  abbia  recepito  la  consulenza tecnica, è consentito censurare la statuizione ex art. 360, comma 1, n. 5,  c.p.c.,  ove  venga  individuato  un  preciso  fatto  storico,  sottoposto  al contraddittorio delle parti, di natura decisiva, che il giudice del merito, e prima  ancora  il  CTU,  abbia  omesso  di  considerare  (Cass.,  Sez.  5, Ordinanza n. 18886/2023)
3.4. Nel  caso  di  specie,  le  censure  attengono  alle  valutazioni  e  al procedimento di indagine seguito dal CTU e fatto proprio dalla Corte di merito  e  nessun  fatto  specifico,  inteso  nel  senso  indicato,  è  stato prospettato come non esaminato, risolvendosi la censura, sotto questo profilo, inammissibile.
3.5. Per  quanto  riguarda  il  dedotto  vizio  di  motivazione,  questa Corte  ha  rilevato  che  la  riformulazione  appena  richiamata  dell’art  360 c.p.c.  deve essere interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 prel.,  come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto,  è  divenuta  denunciabile  in  cassazione  solo  l’anomalia motivazionale  che  si  tramuti  in  violazione  di  legge  costituzionalmente rilevante,  in  quanto  attinente  all’esistenza  della  motivazione  in  sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal  confronto  con  le risultanze processuali (v. Cass., Sez.  U, n. 8053/2014; conf. da ultimo Cass., Sez. 1, n. 7090/2022).
In altre parole, a seguito della riforma del 2012 è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della stessa, ossia il controllo riferito a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (v. di nuovo Cass., Sez. U, n. 8053/2014 e Cass., Sez. 1, n. 13248/2020).
A tali principi si è uniformata negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte precisato che la violazione di legge, come sopra indicata, ove riconducibile alla violazione degli artt. 111 Cost. e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (così Cass., Sez. U, n. 22232/2016; conf. Cass. Sez. 6-3, n. 22598/2018; Cass., Sez. L, n. 27112/2018; Cass., Sez. 6-L, n. 16611/2018; Cass., Sez. 3, n. 23940/2017).
In particolare,  questa  Corte  ha  precisato  che  di  ‘motivazione apparente’ o di ‘motivazione perplessa e incomprensibile’ può parlarsi laddove  essa  non  renda  percepibili  le  ragioni  della  decisione,  perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta  alcun  effettivo  controllo  sull’esattezza  e  sulla  logicità  del ragionamento del giudice.
Secondo  la  medesima  Corte,  inoltre,  ricorre  il  vizio  di  omessa  o apparente  motivazione  della  sentenza  allorquando  il  giudice  di  merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina, rendendo, in tal modo,  impossibile  ogni  controllo  sull’esattezza  e  sulla  logicità  del  suo ragionamento del ragionamento del giudice (v. da ultimo Cass., Sez. 3, n. 27411/2021).
Il giudice deve,  infatti,  dare  conto,  in  modo  comprensibile  e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al  fine  di  accogliere  o  respingere  la  domanda  formulata,  dovendosi ritenere  viziata  per  apparenza  la  motivazione  meramente  assertiva  o riferita  solo  complessivamente  alle  produzioni  in  atti  (Cass.,  Sez.  3, Ordinanza n. 14762/2019).
3.6. Nella  specie  dalla  lettura  della  sentenza  impugnata  si  evince chiaramente  che  la  Corte  di  appello  ha  recepito  le  conclusioni  della consulenza tecnica dell’ufficio, richiamando e condividendo le valutazioni e  il  metodo  seguito,  illustrandone  le  caratteristiche  e  le  ragioni  di condivisione.
L’errore di metodo del CTU rappresentato nella critica al punto 1) risulta mal prospettato, posto che, nel riportare l’affermazione del CTU si evince che quest’ultimo non ha omesso di valutare un possibile utilizzo intermedio tra quello agricolo e quello edificatorio dei terreni, ma ha affermato di non considerare eventuali attitudini edificatorie, come proprio imponeva l’ordinanza della S.C. che ha cassato la prima decisione della Corte d’appello, laddove ha stabilito «Esclusa, dunque, correttamente la natura edificatoria di fatto, la Corte, nel determinare il risarcimento dovuto per la perdita dell’area ha, tuttavia, omesso di vagliare le possibilità di utilizzazioni a carattere intermedio tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.) del fondo occupato, o di parte di esso …».
Tale verifica il CTU risulta averla fatta, come si evince dalla lettura della  sentenza,  che  ha  condiviso  risultato  e  metodo  di  indagine,  e  ha portato  ad  individuare  due  diversi  lotto  di  terreno  irreversibilmente trasformato, uno suscettibile di essere utilizzato come area di servizio per  distribuzione  di  carburati  (10.000,00  mq)  ed  uno  suscettibile  di essere destinato solo ad uso agricolo (20.900,00 mq).
Con  riferimento  alla  censura  di  cui  al  successivo  puto  2),  poi,  il ricorrente  lamenta  la  mancata  considerazione  di  un  possibile  uso
intermedio riferita al lotto più esteso, ritenendo apparente la motivazione che ne ha escluso la fattibilità, ma la censura è del tutto generica, tenuto conto che ciò che rileva non è la astratta possibilità di un qualsiasi uso diverso da quello agricolo, ma la concreta possibilità e fattibilità  anche  giuridica  di  un’utilizzazione  diversa  da  quella  agricola, nella specie astrattamente solo ipotizzata dalla parte.
Con riferimento, poi, alla censura sub. 3), sopra riportata, si deve subito rilevare che non è ravvisabile alcun vizio derivante dall’omessa nuova valutazione delle aree rimaste in proprietà al COGNOME, tenuto conto che la cassazione della precedente decisione della Corte d’appello con l’ordinanza n. 29991/2018 di questa Corte (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 29991 del 20/11/2018) è intervenuta solo in riferimento alle aree oggetto dell’irreversibile trasformazione, perdute dal ricorrente, sicché, come meglio illustrato nell’esame del terzo motivo di ricorso, correttamente il giudizio di rinvio ha riguardato solo tali aree, essendo le altre coperte dal giudicato formatosi con riferimento alle statuizioni adottate dalla Corte di appello nel 2013.
3.7. Le  ulteriori  censure  si  sostanziano  nella  riproposizione  delle critiche al criterio di stima scelto dal CTU, su cui la Corte di appello si è espressamente  pronunciata,  spiegando  le  ragioni  per  cui  ha  ritenuto attendibile  e  condivisibile  il  metodo  scelto  dal  CTU,  disattendendo  le critiche riproposte dalla parte, risolvendosi il resto in deduzioni generalizzate  e  in  ordine  ai  criteri  che  devono  indirizzare  la  stima  del bene.
Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
4.1. Come emerge dalla lettura della rubrica del motivo, il COGNOME ha  formulato  anche  questa  volta  cumulativamente  plurime  censure, ricondotte  ai  numeri  3,  4  e  5  del  comma  1  dell’art.  360  c.p.c. (violazione  di  norme  di  diritto  sostanziale  e  processuale,  omessa  e contraddittoria motivazione, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, violazione della normativa in materia di prova e di consulenza d’ufficio, e degli artt. 61, 62 e 193, 195 c.p.c.).
A  tale  rappresentazione  non  segue  tuttavia  la  chiara  e  ordinata illustrazione  di  ogni  specifica  ragione  di  doglianza  in  riferimento  a ciascuno dei parametri invocati a supporto dell’impugnazione, comportando una valutazione di genericità di ciascun motivo di doglianza ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., per i motivi già evidenziati nell’esaminare il primo motivo di ricorso.
4.2. Si deve tenere presente che, a prescindere dalle critiche riferite al metodi d’indagine e alle risultanze della CTU, che genericamente riproducono le censure già esaminate con riferimento al primo motivo, parte ricorrente ha dedotto che, a seguito del deposito della prima relazione del CTU (02/03/2021), il Consigliere istruttore, in accoglimento di specifica osservazione della difesa del COGNOME (che aveva eccepito il fatto che il CTU aveva depositato solo la bozza di consulenza, senza allegare e trattare le osservazioni del CT di parte), ha disposto che il CTU depositasse le eventuali controdeduzioni del CT del COGNOME almeno 10 giorni prima della successiva udienza. Il CTU ha così ammesso il tempestivo deposito delle osservazione del tecnico di parte, ha qualificato espressamente il proprio precedente elaborato come ‘bozza’ ed ha replicato alle critiche del CT del ricorrente con un elaborato denominato ‘valutazione del CTU sulle osservazioni delle parti’.
La  difesa  del  COGNOME  ha,  così,  dedotto  di  avere  contestato  tale irritualità ed anche la ritenuta inadeguatezza delle risposte del CTU alle osservazioni  del  proprio  CT,  chiedendo  (anche  in  sede  di  precisazione delle  conclusioni)  la  rinnovazione  della  consulenza,  ma  il  Consigliere istruttore ha ritenuto che le questioni avrebbero potuto essere affrontate e risolte in sede di decisione.
Secondo il ricorrente, nella specie è intervenuta una violazione della normativa  che  regola  l’espletamento  della  consulenza  tecnica,  che  ha portato alla formazione di una consulenza del tutto irregolare e carente non solo nella motivazione, ma anche nei contenuti sostanziali, anche per il fatto che (nonostante le richieste e le diffide di parte) il CTU ha
omesso di effettuare il calcolo degli importi per interessi e svalutazione, costringendo  il  Giudice  a  procedere  a  diversa  ed  oscura  fonte  di informazione  ed  offrire  d’ufficio  quel  calcolo  che  il  consulente  era, invece, chiamato a dare.
4.3. Con riguardo al vizio procedurale dedotto in violazione dell’art. 195 c.p.c. la censura deve senza dubbio ritenersi inammissibile, tenuto conto che lo stesso ricorrente ha dedotto che il Giudice ha provveduto alla rinnovazione degli atti, tanto che il COGNOME ha rappresentato l’esistenza di una mera irregolarità della procedura, e non di una nullità, in relazione alla quale non allegato alcuna conseguenza in termini di lesione del diritto di difesa (cfr. Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 16196/2023, con riferimento all’omesso invio della bozza ai consulenti tecnici di parte).
4.4. Anche la censura riferita alla prospettata assenza di effettiva motivazione in ordine al diniego di rinnovazione della CTU appare inammissibile, tenuto conto che lo stesso ricorrente ha dedotto che il Consigliere istruttore ha espressamente respinto la richiesta ritenendo di poter trattare le questioni unitamente al merito, ove la CTU è stata ritenuta completa, esaustiva ed espletata con modalità condivise dalla Corte d’appello, senza dunque che fosse necessaria la richiesta di rinnovazione.
4.5. Del  tutto  generica  è,  infine,  la  censura  relativa  al  mancato computo  della  rivalutazione  e  degli  interessi  da  parte  del  CTU,  non avendo  la  parte  neppure  prospettato  l’affidamento  di  tale  incarico  al CTU nel quesito, come pure generica è la critica alla motivazione della decisione  del  giudice  d’appello, nella  parte in  cui  ha  conteggiato rivalutazione ed interessi.
Il  terzo  motivo  di  ricorso  è  inammissibile,  non  avendo  parte ricorrente colto la portata della decisione impugnata.
5.1. Il  COGNOME  ha  censurato  la  statuizione  della  Corte  d’appello nella  parte  in  cui  testualmente  ha  affermato  che: «Nessuna  altra somma  può  essere  liquidata  a  titolo  risarcitorio,  avendo  la  Suprema
Corte precisato, con l’Ordinanza di rinvio che: ’18. Resta ferma, invece, la liquidazione del pregiudizio per la parte residua in relazione alla quale non sono state mosse censure ulteriori rispetto a quelle esaminate’».
Secondo il ricorrente, in tal modo, il giudice del rinvio ha ritenuto dovuto (e quantificato nella misura indicata dal consulente di ufficio) solo ed esclusivamente l’ammontare gli importi corrispettivi del suolo occupato, escludendo il danno alla parte residua della proprietà che, invece, era stato accertato dalla sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 2013, ove l’RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE erano state condannate in solido, al pagamento, in favore di NOME COGNOME della complessiva somma di € 115.082,18, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, con la precisazione, in motivazione, che € 38.136,00 corrispondevano al controvalore della parte occupata, € 69.787,44 per la perdita e la scomodità degli accessi alla porzione residua ed € 6.978,74, per la relativa mancata regimentazione delle acque.
5.2. Dalla semplice lettura della sentenza impugnata, tuttavia, si evince con chiarezza che la Corte di appello non ha affatto escluso che fossero dovute le ulteriori somme liquidate nella sentenza del 2013 a riparazione del pregiudizio subito dal COGNOME in riferimento alle aree rimaste in sua proprietà, ma ha semplicemente affermato che il relativo accertamento non era stato ad essa devoluto, per avere l’ordinanza della S.C. cassato la decisione del 2013 solo per la parte relativa alle aree perdute (per effetto della irreversibile trasformazione).
In motivazione, la Corte di merito, prima ancora di affrontare la decisione, e dopo avere richiamato la statuizione di questa Corte con cui è stata operata la cassazione della precedente sentenza di appello, ha voluto precisare che, nella specie, si è trattato di rinvio prosecutorio, che attribuisce alla giudice di merito la veste di giudice della fase rescissoria del giudizio di cassazione, spiegando che «… il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito e non è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo
grado, ma integra una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente), ed è funzionale alla emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti … In definitiva la decisione pronunciata in sede di rinvio deve dar luogo ad una pronuncia diretta sul merito delle pretese sostanziali ancora in discussione tra le parti. … omissis.»
Compiute tali precisazioni, la Corte di appello ha affermato che ad essa, quale giudice del rinvio, è stata demandata la determinazione del risarcimento per la perdita dell’area, «previo vaglio delle possibilità di utilizzazioni a carattere intermedio tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.) del fondo occupato, sempre che siano assentiti dalla normativa vigente, sia pure col conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative, secondo quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 181/2011, così da uniformarsi al principio di diritto affermato dal Supremo Collegio.»
In tale quadro, si inserisce la statuizione in questa sede impugnata, ove  la  Corte  di  appello  ha  affermato  di  poter  liquidare  nessuna  altra somma  a  titolo  risarcitorio «avendo  la  Suprema  Corte  precisato,  con l’Ordinanza di rinvio che: ’18. Resta ferma, invece, la liquidazione del pregiudizio per la parte residua in relazione alla quale non sono state mosse censure ulteriori rispetto a quelle esaminate’».
È, infatti, evidente che, in base a quanto appena evidenziato, nessun altro importo poteva liquidare la Corte di appello nella sentenza del 2022, perché la cassazione della sentenza del 2013 e il successivo giudizio di rinvio hanno riguardato solo la statuizione relativa al risarcimento del danno spettante al COGNOME per le aree che ha perso, mentre per le aree residue restava la statuizione del 2013, sul punto non cassata, e dunque passata in giudicato, che aveva previsto la
somma  €  69.787,44  per  la  perdita  e  la  scomodità  degli  accessi  alla porzione residua ed € 6.978,74, per la relativa mancata regimentazione delle  acque,  oltre  alla  rivalutazione  e  agli  interessi,  come  conteggiati nella relativa statuizione.
Anche il quarto motivo è inammissibile per due ordini di motivi.
6.1. Il ricorrente ha dedotto che il provvedimento di liquidazione del compenso spettante al CTU è stato adottato quando la Corte d’appello era ormai carente del relativo potere, avendo già definito il procedimento con la sentenza in questa sede impugnata.
Occorre  precisare  che  la  Corte  di  appello  non  ha  omesso  la statuizione  sulle  spese  di  CTU,  ma,  come  pure  è  ricordato  nel  ricorso per cassazione, con la sentenza, le ha poste, nei rapporti interni tra le parti,  definitivamente  a  carico  di  entrambe,  in  quote  uguali  (p.  6  del ricorso per cassazione e p. 15 della sentenza impugnata).
In motivazione, è anche precisato quanto segue: «Le spese di CTU, liquidate con separato decreto, nei rapporti interni vanno poste a carico di entrambe le parti in quote uguali» . (p. 14 della sentenza impugnata).
6.2. Com’è noto, la liquidazione del compenso del CTU è regolata da norme sue proprie, anche per quanto riguarda l’impugnazione del decreto di pagamento, che trova la disciplina nell’art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002. Questa Corte ha, tuttavia, precisato che, quando è prospettata l’adozione del provvedimento di liquidazione in carenza di potere, il vizio può essere fatto valere con il ricorso straordinario per cassazione, perché il decreto di liquidazione è un atto idoneo ad incidere in modo definitivo su posizioni di diritto soggettivo (Cas., Sez. 6-2, Ordinanza n. 37480 del 30/11/2021).
Ovviamente, una volta ammesso il ricorso al giudice di legittimità, l’impugnazione deve rispondere ai requisiti di ammissibilità previsti, in particolare, dall’art. 366 c.p.c.
6.3. Nel  caso  di  specie,  il  ricorrente  non  ha  descritto  nulla  del subprocedimento avviato con la richiesta di liquidazione del compenso, né ha rappresentato il contenuto del decreto impugnato, tant’è che non
ha indicato né l’importo liquidato né i criteri adottati per la determinazione dello stesso.
Il  motivo si presenta, dunque, inammissibile, essendo omessa una sia pur sommaria esposizione dei fatti di causa, riferiti alla richiesta di liquidazione,  definita  con  in  provvedimento  impugnato,  in  violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 366, comma 1, n. 3) c.p.c.
La formulazione del motivo si presenta, inoltre, del tutto generica e astratta, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., essendosi la parte limitata ad affermare che il provvedimento di liquidazione è stato adottato dopo la sentenza, senza rapportare la censura alla peculiarità della fattispecie, argomentando il prospettato vizio in rapporto ad essa, tenuto conto che, come sopra evidenziato, con una statuizione non impugnata, la menzionata sentenza ha regolato il riparto interno delle spese relative al compenso spettante al CTU, proprio sul presupposto che il relativo importo sarebbe stato liquidato con separato decreto. La parte non ha neppure rappresentato il proprio interesse ad impugnare il decreto di liquidazione, dopo che la sentenza, con una statuizione sul punto definitiva, ha regolato il riparto interno tra le parti delle spese di CTU, sul presupposto che queste ultime sarebbero state liquidate con separato decreto.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La statuizione sulle spese segue la soccombenza.
In  applicazione  dell’art.  13,  comma  1 quater ,  d.P.R.  n.  115  del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il  versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso;
condanna  il  ricorrente  alla  rifusione  delle  spese  processuali  sostenute dalla  controricorrente,  che  liquida  in  €  5.000,00  per  compenso  ed  € 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte  del  ricorrente  di  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile