Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2251 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2251 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24168/2020 R.G. proposto da :
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO ANCONA n. 540/2020, depositata il 4/06/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
PREMESSO CHE
NOME COGNOME ha convenuto davanti al Tribunale di Fermo l’ex coniuge NOME COGNOME chiedendo di accertare l’esclusiva proprietà di un terreno agricolo con pertinente fabbricato rurale per essere tale bene frutto di una donazione indiretta da parte del padre.
La convenuta si è costituita in giudizio replicando che il compendio immobiliare era stato congiuntamente acquistato dai coniugi in regime di comunione legale; in via riconvenzionale la convenuta ha chiesto di disporre la divisione tra le parti del bene in comunione e di condannare l’attore al risarcimento dei danni derivanti dai reati per cui era stato penalmente condannato.
Con sentenza n. 955/2015, il Tribunale di Fermo ha rigettato la domanda dell’attore, rilevando che il bene era stato acquistato dai coniugi in regime di comunione legale; in accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta, ha disposto lo scioglimento della comunione e, accertata l’indivisibilità del compendio immobiliare, ha attribuito il bene alla convenuta in proprietà esclusiva, con obbligo di versare un conguaglio di euro 34.000; ha poi condannato l’attore al pagamento di euro 19.062,06 a titolo di risarcimento dei danni ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.; ha infine compensato le spese di lite per il 25%, condannando l’attore a rimborsare alla convenuta il restante 75%, ponendo definitivamente a carico di ciascuna parte nella misura del 50% le spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio.
La sentenza è stata appellata da NOME COGNOME che ne ha chiesto la riforma integrale. Con la sentenza n. 540/2020, la Corte d’appello d’Ancona ha accolto il gravame solo in relazione alla liquidazione del risarcimento del danno da mancata esecuzione dolosa del provvedimento giudiziale, ritenendo che la stima eseguita in primo grado in via equitativa fosse priva di motivazione anche solo sommaria in relazione ai criteri seguiti nella
determinazione del danno, e ha così negato il diritto a tale pretesa risarcitoria; per il resto la Corte d’appello ha confermato quanto stabilito nella pronuncia di primo grado; la Corte ha poi, alla luce dell’accoglimento parziale dell’appello, ritenuto di dovere provvedere a una nuova regolamentazione delle spese di lite sulla base dell’esito globale della controversia, compensando così tra le parti nella misura di 1/3 le spese di lite dei due gradi di giudizio e ponendo il resto a carico di NOME COGNOME.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME.
Resiste con controricorso NOME COGNOME.
Il Consigliere delegato dal Presidente della sezione ha ritenuto che il ricorso sia inammissibile e/o manifestamente infondato e ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis , comma 1 c.p.c.
Il ricorrente ha chiesto, ai sensi del comma 2 dell’art. 380 -bis c.p.c., la decisione del ricorso da parte del Collegio e in prossimità dell’adunanza ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
La Corte preliminarmente rileva l’assenza di incompatibilità del consigliere COGNOME che ha formulato la proposta di definizione anticipata. Le sezioni unite di questa Corte hanno infatti precisato che il consigliere delegato che ha formulato la proposta di definizione di cui all’art. 380 -bis c.p.c. può fare parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio investito della decisione del giudizio, non versando in situazione di incompatibilità agli effetti degli artt. 51 e 52 c.p.c., dato che tale proposta non ha una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva; la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente non si configura d’altro canto quale fase distinta che abbia carattere di autonomia, con
contenuti e finalità di riesame e di controllo della proposta stessa (così Cass., sez. un., n. 9611/2024).
II. Il ricorso è articolato in sette motivi.
1. Il primo motivo contesta ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116, 183, 184, 189, 356 c.p.c., 111 e 24 Cost., per omessa ammissione della prova testimoniale a mezzo del teste NOME COGNOME decisiva ai fini del giudizio, e degli ulteriori testi di parte attrice/appellante’: la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto non ammissibili le richieste istruttorie, non ammesse già dal giudice di primo grado e reiterate in appello, e tra queste l’importante prova testimoniale di NOME COGNOME avendo erroneamente ritenuto che vi fosse stata rinuncia a tali richieste istruttorie; l’ammissione della prova testimoniale era stata infatti richiesta tempestivamente in primo grado con la memoria di cui al sesto comma dell’art. 183 c.p.c. e reiterata nella comparsa conclusionale e poi riformulata con l’atto d’appello e infine ribadita in sede di precisazione delle conclusioni all’udienza del 16 ottobre 2019; essendo poi la prova testimoniale di NOME COGNOME decisiva ai fini del giudizio la sua omessa ammissione viola i principi del giusto processo e del diritto di difesa.
Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello , per negare il mezzo istruttorio ha utilizzato una duplice ratio decidendi. H a anzitutto ritenuto che l’onere di riproposizione in appello delle richieste istruttorie non fosse stato assolto, avendo il ricorrente genericamente richiamato in sede di precisazione delle conclusioni il contenuto dei precedenti atti difensivi e tale ratio decidendi viene appunto censurata dal ricorrente con il motivo in esame.
La Corte d’Appello ha inoltre ritenuto che ‘ in ogni caso, anche a voler ritenere ammissibile la testimonianza di COGNOME NOME ‘, la stessa sarebbe stata ‘ scarsamente credibile, in quanto la presumibile conferma delle circostanze dedotte nei relativi capitoli
di prova striderebbe con il fatto che il testimone non obiettò nulla all’atto dell’acquisto in favore di entrambi i coniugi in sede di stipula del rogito ‘. Tale autonoma seconda ratio decidendi fondata su un giudizio (riservato al giudice di merito) di irrilevanza dei capitoli non viene in alcun modo contestata dal motivo.
Trova allora applicazione il principio -costantemente affermato da questa Corte -secondo cui ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (tra le varie, Sez. 1 – , Sentenza n. 18641 del 27/07/2017; Sez. 2, Sentenza n. 29783 del 2024).
2. Il secondo motivo contesta ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 179, comma 1, lett. b) c.p.c.’, avendo la Corte di merito, in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, posto a fondamento della decisione un fatto mai allegato dalle parti, ossia la presenza del padre, il donante del bene, alla stipulazione dell’atto di compravendita e la sua pretesa acquiescenza all’acquisto in comunione di tale bene da parte dei coniugi COGNOME e COGNOME.
Il motivo è infondato. Anzitutto non ricorre nel caso in esame il vizio di ultra o extra petizione. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudice di merito incorre in tale vizio qualora emetta un provvedimento diverso da quello richiesto, oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso e non quando ponga a fondamento della decisione ‘esiti documentali che, relativi agli atti presenti nel processo, si offrono alla valutazione del giudice in quanto legittimamente acquisiti al preventivo e potenziale contraddittorio’ (cfr. al riguardo Cass. n. 12014/2019 e Cass. n.
8048/2019). Nello stesso ricorso (v. i capitoli di prova nn. 3 e 4 riportati alla pag. 8 dell’atto) si fa d’altro canto espresso riferimento alla presenza del padre dell’attore NOME COGNOME alla stipulazione dell’atto di compravendita. Per quanto poi concerne l’acquiescenza del medesimo, si tratta di valutazione operata dal giudice di merito sulla base dell’avvenuta conclusione del contratto di vendita in favore di entrambi i coniugi.
3. Il terzo motivo contesta omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: la Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado, nella parte in cui in accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta ha disposto lo scioglimento della comunione, attribuendo alla medesima il bene immobile in proprietà esclusiva, in quanto COGNOME non avrebbe provato di avere apportato le migliorie al bene in epoca successiva alla separazione; in tal modo la Corte d’appello ha omesso di considerare un fatto decisivo, ossia le censure e i rilievi tecnici mossi dal ricorrente e dal suo consulente tecnico, rimasti inascoltati avendo il giudice di primo grado assunto acriticamente le risultanze della consulenza d’ufficio.
Il motivo è inammissibile. Il fatto decisivo il cui omesso esame è denunciabile di fronte a questa Corte ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. è il fatto storico (cfr. la pronuncia delle sezioni unite n. 8053/2014).
Nel caso in esame, il fatto che si assume decisivo è rappresentato dall’esecuzione dei miglioramenti, ma l a Corte d’Appello (v. pagg. 10 e 11) si è espressa al riguardo e la censura -a ben vedere pone in discussione la motivazione (del resto la giurisprudenza citata in ricorso è tutta relativa al vizio di motivazione secondo la vecchia previsione dell’art. 360 n. 5), ma un tale vizio non è censurabile in cassazione per espressa previsione legislativa (art. 360 comma 1 n. 5 cpc).
4. Il quarto motivo contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 820 c.c. e 115 c.p.c., per erronea dichiarazione di mancata contestazione del fatto, avendo la Corte d’appello fondato il proprio convincimento sulla base di fatti ritenuti erroneamente non contestati dalla parte; dagli atti del giudizio di primo grado risulta che la difesa del ricorrente ha tempestivamente contestato le risultanze dell’elaborato del consulente tecnico d’ufficio in relazione al valore del godimento esclusivo dell’immobile.
Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi (cfr. sulla sorte di siffatti motivi tra le varie, v. cass. 19989/2017 e 8247/2024). La Corte d’appello, dopo aver ribadito che il bene non poteva ritenersi escluso dalla comunione legale dei coniugi, ha rilevato che le censure avanzate con il motivo di gravame (ossia che la quantificazione operata dal consulente d’ufficio dei frutti civili derivanti dall’occupazione dell’immobile sarebbe eccessiva, dovendosi quantificare nella misura massima di 50 euro al mese), devono ritenersi tardive, dato che il ricorrente nelle proprie note autorizzate depositate il 17 ottobre 2014 non ha contestato le risultanze relative al valore del godimento esclusivo dell’immobile, né lo ha fatto all’udienza del 19 /12/2014, all’esito del deposito del supplemento di perizia avvenuto il 28.11.2014. A tali argomentazioni il ricorrente contrappone di avere contestato il valore del canone di locazione indicato dal consulente d’ufficio nella bozza di consulenza. Il ricorrente, quindi, fa riferimento ad atti diversi da quelli indicati dalla Corte d’appello che – come si è detto – fa riferimento alle note del 17 ottobre 2014, successive quindi alle controdeduzioni allegate alla consulenza del 15 settembre 2014, non confrontandosi così con la ratio decidendi della Corte d’appello, essendo poi del tutto generico il rinvio alla pag. 9 della comparsa conclusionale del 24 settembre 2015 (v. pag. 19 ricorso che omette
di riportare il contenuto della comparsa conclusionale per la parte di rilievo).
Il quinto motivo contesta nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c, per erronea e immotivata dichiarazione di ammissibilità della domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni da reato: la decisione impugnata sarebbe affetta da carenza assoluta di motivazione e mancanza della forma essenziale, non avendo enunciato le ragioni per le quali sussisterebbe il preteso collegamento oggettivo tra la domanda principale, avente ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà, e la domanda riconvenzionale, avente ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni da reato, tale da giustificare l’ammissibilità delle domande riconvenzionali.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello, a fronte della censura di inammissibilità delle domande riconvenzionali di risarcimento dei danni da reato, ha rilevato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora la domanda riconvenzionale non ecceda la competenza del giudice della causa principale, a fondamento di essa può anche porsi un titolo non dipendente da quello fatto valere dall’attore, purché sussista un collegamento oggettivo che consigli il simultaneus processus secondo la valutazione discrezionale del medesimo giudice. La pronuncia della Corte d’appello non è quindi affetta da carenza assoluta di motivazione, avendo appunto motivato l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, ritenendo che sussista un collegamento oggettivo che consigli il simultaneus processus , motivazione fondata sul pacifico orientamento di questa Corte secondo il quale, ai fini dell’ammissibilità della domanda riconvenzionale del convenuto subordinata ai sensi dell’art. 36 c.p.c. alla comunanza del titolo già dedotto in giudizi dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione , ‘è sufficiente un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia
ravvisabile un collegamento oggettivo con la domanda principale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus , secondo la valutazione discrezionale del giudice di merito’ (in tal senso, da ultimo, Cass. n. 5484/2024).
La motivazione, dunque esiste ed è percepibile.
6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 112 c.p.c.: la Corte d’appello, in ordine alla quantificazione dei danni da reato, ha rideterminato la somma oggetto di condanna; quanto al danno da lesioni, la Corte ha considerato i certificati medici prodotti dalla parte lesa, quali elementi della prova documentale dei fatti allegati, e sulla scorta di questa sola documentazione ha condannato il ricorrente, così violando il principio del giusto processo, trattandosi di documentazione di provenienza unilaterale della parte interessata, raccolta al di fuori del processo non nel contraddittorio tra le parti; quanto al danno da violazione degli obblighi di assistenza familiare, la pronuncia è affetta da ultrapetizione, essendo andata oltre la richiesta di controparte che aveva chiesto euro 7.200.
Il motivo non può essere accolto.
Quanto ai certificati medici relativi al reato di lesioni, trattasi di documentazione in atti. Il ricorrente sembra ritenere che possano essere considerati dal giudice unicamente documenti formati nel contradittorio tra le parti, così che non potrebbero avere efficacia probatoria certificati medici, regola del tutto estranea al sistema processuale civile. Il ricorrente cita al riguardo un precedente di questa Corte (Cass. n. 11935/2018): il precedente citato in realtà afferma che il giudice può utilizzare atti contenenti dichiarazioni scritte provenienti da terzi (nel caso di specie due relazioni redatte da un’agenzia investigativa) ai fini della formazione del proprio convincimento ai sensi dell’art. 116 c.p.c., così affermando un principio opposto a quello addotto dal ricorrente. Quanto al dedotto vizio di ultrapetizione, la liquidazione confermata dalla Corte
d’appello è di euro 6.000, somma pertanto rientrante nel petitum richiesto in riconvenzionale, che è stata poi maggiorata degli interessi e della rivalutazione, arrivando così a euro 8.331,04.
Il settimo motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 92, comma 2 c.p.c.: la Corte d’appello ha erroneamente compensato le spese dei due gradi di giudizio tra le parti nella misura di 1/3, ponendo a carico del ricorrente la restante parte, invece di compensare integralmente tra le parti le spese.
Il motivo non può essere accolto. Il ricorrente contesta la compensazione parziale invece che integrale delle spese, sostenendo la sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni di cui al secondo comma dell’art. 92 c.p.c. In tal modo non considera che, come ha sottolineato la Corte d’appello, si è di fronte a un’ipotesi di soccombenza reciproca, ad avviso della Corte d’appello con prevalente accoglimento delle domande di COGNOME, al cui riguardo il secondo comma dell’art. 92 prevede che il giudice possa compensare le spese parzialmente o per intero. È quindi potere discrezionale del giudice di merito compensare o meno le spese, con l’unico limite del divieto di porre le spese a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. ex multis Cass. n. 20457/2011).
III. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 380 -bis , ultimo comma, c.p.c., avendo il Collegio definito il giudizio in conformità alla proposta, trovano applicazione il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c. (v. al riguardo la pronuncia delle sezioni unite n. 28540/2023, secondo cui, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380bis , comma 3, c.p.c., come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022, nel prevedere nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma
dell’art. 96 c.p.c., ‘codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi a una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente’).
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente, che liquida in euro 6.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge, nonché al pagamento sempre in favore della controricorrente di euro 6.000,00 ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. e al pagamento di euro 3.000 ,00 in favore della cassa delle ammende ai sensi del comma 4 dell’art. 96 c.p.c.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione