Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 4375 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 4375 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17615/2021 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall ‘ avvocatessa NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME, rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di FIRENZE n. 115/2021 depositata il 21/01/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
R.G. 17615/2021
COGNOME.
Rep.
C.C. 11/12/2023
C.C. 14/4/2022
VENDITA AZIENDA. RISARCIMENTO DANNI.
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Firenze, NOME COGNOME, all’epoca sua coniuge, chiedendo che fosse riconosciuta l’esistenza di un’impresa familiare tra le parti relativa alla comune gestione di un esercizio commerciale, che la convenuta fosse condannata a corrispondergli il 49 per cento degli utili di esercizio, che fosse disposto, ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., il trasferimento dell’azienda relativa all’esercizio commerciale di cui sopra, oltre al riconoscimento della sua qualità di socio, con condanna anche al risarcimento dei danni.
A sostegno della domanda espose, per quanto riesce a comprendersi dalla lettura del ricorso, che, in base agli accordi contenuti nel ricorso consensuale per lo scioglimento del matrimonio, era previsto che l’azienda denominata ‘RAGIONE_SOCIALE‘ dovesse essere a lui trasferita e che a tale scopo egli aveva già cominciato a versare alla RAGIONE_SOCIALE le prime quote mensili; ma che quell’accordo non era divenuto operativo in quanto, non essendosi la moglie presentata all’udienza, il ricorso congiunto di divorzio era stato dichiarato inammissibile.
Si costituì in giudizio la convenuta, chiedendo il rigetto delle domande dell’attore e avanzando domanda riconvenzionale per il riconoscimento del suo diritto di proprietà sull’esercizio commerciale e per il pagamento di somme a lei asseritamente dovute.
Il Tribunale pronunciò due sentenze.
Con la prima, non definitiva, dichiarò in parte inammissibili e in parte rigettò nel merito tutte le domande dell’attore, mentre accolse la riconvenzionale della convenuta, riconoscendo il suo diritto alla proprietà dell’azienda ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ordinandone la restituzione; e contestualmente dispose che la causa proseguisse affinché lo COGNOME rendesse il conto della sua gestione e fossero
definite, con apposita c.t.u. contabile, le rispettive partire di dare e avere esistenti tra le parti.
Con la seconda sentenza, definitiva, condannò lo COGNOME al pagamento, in favore della COGNOME, della somma di euro 47.284,45 -così compensati i rispettivi debiti e crediti -nonché al pagamento delle spese di giudizio.
Lo COGNOME ha impugnato in via principale sia la sentenza non definitiva che quella definitiva, mentre la COGNOME ha svolto appello incidentale in relazione alla sola sentenza definitiva; e la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 21 gennaio 2021, ha rigettato entrambe le impugnazioni e ha integralmente compensato le spese del giudizio di appello.
Ha premesso la Corte territoriale -per quanto di residuo interesse in questa sede e per quanto si riesce a capire dalla lettura della sentenza -che l’appello principale era «in larga parte inammissibile e comunque sempre ai limiti dell’ammissibilità» ma che, comunque, doveva essere integralmente respinto.
Ciò detto, la Corte ha osservato, in ordine al motivo di appello col quale era stata censurata la sentenza non definitiva per non aver ritenuto dovuto il trasferimento dell’azienda ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., che la doglianza era in sé contraddittoria, perché non era stata impugnata la decisione di rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Ciò nonostante, volendo ugualmente esaminare nel merito il motivo di appello, la Corte l’ha dichiarato infondato, rilevando che l’accordo era sicuramente da considerare condizionato allo scioglimento del matrimonio; per cui, non essendosi verificata la condizione sospensiva, il negozio aveva perso efficacia.
In riferimento al secondo motivo di appello, avente ad oggetto la domanda di condanna della COGNOME alla restituzione delle somme prelevate dal conto corrente n. 10334 della cassa di risparmio, la
sentenza ha ritenuto la censura contraddittoria e il motivo, di conseguenza, formulato in carenza di interesse.
Quanto, poi, ai motivi di appello riguardanti la presunta esistenza di una società di fatto tra le parti, la Corte d’appello ha richiamato le argomentazioni del Tribunale che aveva ritenuto insussistenti tutti gli elementi di una società; e ha aggiunto che le uniche censure sul punto avevano ad oggetto l’omessa valutazione delle istanze istruttorie, che non erano state «neppure riproposte».
In relazione ai motivi di appello relativi al rigetto della domanda con cui si era chiesto che fosse riconosciuta l’esistenza di un’impresa familiare tra le parti, la Corte di merito ha ribadito il giudizio di inammissibilità per tardività formulato dal Tribunale, giudicando i motivi «ai limiti della temerarietà», posto che la domanda nuova deve essere dichiarata inammissibile anche con rilievo d’ufficio. Non senza notare che sull’esistenza dell’impresa familiare vi era stato un separato giudizio, davanti al giudice del lavoro, concluso con una sentenza passata in giudicato.
Esaminando il sesto motivo di appello, avente ad oggetto censure di carattere istruttorio e di violazione dell’art. 281 -sexies cod. proc. civ., la sentenza ha osservato che la c.t.u. era stata svolta nella seconda fase del giudizio, che la domanda di escussione dei testi non era stata rinnovata e che nessuna opposizione era stata formulata, da parte della difesa dello COGNOME, circa la decisione di pronunciare la sentenza a seguito della discussione orale.
Quanto, infine, al conteggio contenuto nella c.t.u. relativo alle singole partite di debito e credito esistenti tra le parti, la Corte d’appello l’ha rigettato, analogamente al motivo opposto contenuto nell’appello incidentale, sul rilievo che le somme ivi indicate erano state indicate dal consulente e recepite dal giudice; e la sentenza, inoltre, aveva riconosciuto la spettanza allo COGNOME di una serie di
somme (tra cui quella di lire 36 milioni, conteggiata a scomputo del debito complessivo).
Contro la sentenza della Corte d’appello di Firenze propone ricorso NOME COGNOME con atto affidato a otto motivi.
Resiste NOME COGNOME con controricorso affiancato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. in ordine all’ammissibilità dell’appello.
Osserva il ricorrente che la Corte d’appello, se avesse ritenuto l’impugnazione inammissibile, avrebbe dovuto attestarsi a tale decisione, mentre nella specie la sentenza ha anche esaminato in parte il merito dei motivi. Esaminando, poi, partitamente i singoli motivi di appello, il ricorrente ne predica l’ammissibilità e dichiara di non condividere l’esito decisorio della Corte d’appello. In particolare, quanto al terzo motivo, avente ad oggetto la prova della qualità di socio, la sentenza avrebbe dovuto esaminare la documentazione allegata e avrebbe dovuto ammettere le prove testimoniali. In relazione al sesto motivo, il ricorrente insiste sul fatto che sarebbe mancata ogni attività istruttoria, sicché il giudizio sarebbe rimasto ‘monco’. Si conclude ribadendo che le censure avanzate in appello non potevano essere ritenute inammissibili.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il motivo censura il fatto che la sentenza impugnata abbia ritenuto inammissibile il primo motivo in quanto fondato su domanda nuova; nella specie, al contrario, non sussisteva alcuna novità, perché si era in esso contestato che l’accordo patrimoniale di cessione di azienda fosse sospensivamente condizionato all’omologazione da parte del Tribunale.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il motivo ha ad oggetto la declaratoria di inammissibilità del secondo motivo di appello, che riguardava il problema della condanna della COGNOME alla restituzione di somme prelevate dal conto corrente n. 10334 della Cassa di risparmio di Firenze. Alla luce «dei documenti e delle richieste istruttorie» sarebbe potuta emergere la condotta della COGNOME, e comunque l’interesse a ottenere la restituzione di quelle somme era certamente sussistente.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il motivo censura la decisione della Corte d’appello là dove ha considerato non specifico il motivo riguardante la posizione di socio di fatto asseritamente ricoperta dallo COGNOME. Rileva il ricorrente che l’esame dei documenti, dei fax e degli ordini ai fornitori avrebbe dimostrato l’esistenza del vincolo societario e che sarebbe quindi mancata un’adeguata istruttoria.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il ricorrente censura la decisione nella parte in cui ha dichiarato inammissibili le censure aventi ad oggetto l’esistenza di un’impresa familiare. Il giudice di merito avrebbe dovuto, sul punto, dichiararsi incompetente in considerazione della competenza del giudice del lavoro, e all’epoca della formulazione del motivo di appello la causa sull’impresa familiare «non era stata ancora definita».
Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il motivo riguarda il presunto tardivo deposito della memoria di replica della difesa della COGNOME, la quale era stata depositata il 15 novembre 2004 anziché entro la data del 14 novembre 2004, data ultima di scadenza del relativo termine, tenendo presente la sospensione dei termini feriali fino al 15 settembre di ogni anno (si tratterebbe, quindi, di una memoria tardiva che non doveva essere tenuta in considerazione).
Con il settimo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto.
Il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto inammissibile il motivo avente ad oggetto l’omesso svolgimento di attività istruttoria. Sostiene il ricorrente che le richieste istruttorie erano state formulate e ripetute, mentre la c.t.u. non si era mai realmente occupata della restituzione delle somme prelevate dalla COGNOME dal conto corrente dell’RAGIONE_SOCIALE.
Con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa valutazione di un fatto storico decisivo risultante dagli atti di causa.
Si censura la sentenza per non essersi pronunciata sulla richiesta di chiamata del c.t.u. a chiarimenti.
La Corte osserva, in via preliminare, che il ricorso è improcedibile per mancato deposito della copia notificata della sentenza impugnata.
Si deve rilevare, innanzitutto, che il ricorrente ha prodotto una copia della sentenza impugnata, ma priva del numero e della data di deposito, aggiungendo che quella sentenza gli era stata notificata il 23 aprile 2021. La data di deposito della sentenza (21
gennaio 2021) risulta, invece, dalla documentazione allegata al controricorso.
Risulta poi che il ricorso è stato notificato il 18 giugno 2021. Ne consegue che esso è tempestivo se si assume come data di esordio del termine breve per l’impugnazione quello della notifica; ma poiché di tale notifica non c’è prova, né da parte del ricorrente né da parte della controricorrente, deve assumersi come data certa solo quella del deposito, rispetto alla quale il ricorso non è stato notificato entro 60 giorni.
Trova pertanto applicazione la costante giurisprudenza di questa Corte, maturatasi attraverso alcune pronunce delle Sezioni Unite (sentenze 16 aprile 2009, n. 9004, 2 maggio 2017, n. 10648, e 6 luglio 2022, n. 21349), in base alle quali nel giudizio di cassazione è esclusa la dichiarazione di improcedibilità di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2), cod. proc. civ., quando l’impugnazione sia proposta contro una sentenza notificata, di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica (o le copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notifica a mezzo EMAIL), ove tale documentazione risulti comunque nella disponibilità del giudice, per essere stata prodotta dal controricorrente nel termine di cui all’art. 370, terzo comma, cod. proc. civ., ovvero acquisita -nei casi in cui la legge dispone che la cancelleria provveda alla comunicazione o alla notificazione del provvedimento impugnato (da cui decorre il termine breve per impugnare ex art. 325 cod. proc. civ.) -mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.
Ma poiché, per quanto si è detto, la copia notificata della sentenza non è nella disponibilità del Collegio, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile (v. pure, in argomento, l’ordinanza 30 aprile 2019, n. 11386, conforme alla sentenza 10 luglio 2013, n. 17066, le quali ritengono il ricorso ugualmente procedibile, anche in difetto della produzione di copia autentica della sentenza
impugnata con la relata di notificazione della medesima, ove risulti dal ricorso stesso che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza).
Tanto premesso, il Collegio ritiene di dover aggiungere, per amore di completezza, che gli otto motivi di ricorso, ove pure non vi fosse la ragione di improcedibilità ora delineata, sarebbero tutti inammissibili o comunque infondati.
Un rilievo preliminare si impone, nel senso che tutti i motivi sono redatti con una tecnica non rispettosa dell’art. 366 cod. proc. civ.; alcuni di essi, poi, sono palesemente inconferenti, perché estranei alla ratio decidendi della sentenza impugnata.
Senza necessità di scendere analiticamente all’esame delle singole censure, la Corte rileva che il primo motivo di ricorso sarebbe infondato, essendo evidente che la Corte d’appello, pur avendo dichiarato che l’appello era in ampia misura inammissibile, l’ha poi scrutinato nel merito pervenendo ad una decisione finale di rigetto; per cui è evidente l’improprietà del richiamo all’art. 342 cod. proc. civ. e alle regole sull’inammissibilità dell’appello.
Il secondo motivo di ricorso, oltre ad essere inconferente rispetto alla motivazione del provvedimento impugnato, poiché dimostra di non cogliere in pieno la ratio decidendi della sentenza in esame, sarebbe inammissibile o comunque infondato, perché la Corte d’appello ha correttamente affermato la rilevabilità d’ufficio della domanda nuova; né il ricorrente ha illustrato in modo credibile per quali motivi tale novità non sussisterebbe. Senza contare che il motivo censura soltanto una delle due rationes decidendi riportate nella sentenza alla p. 12 (rimane infatti incensurata l’affermazione secondo cui non era stato contestato il rigetto della domanda avanzata ai sensi dell’art. 2932 cod. civ.).
Il terzo e il quarto motivo di ricorso -oltre ad essere formulati con una tecnica non rispettosa dell’art. 366, primo comma, n. 6),
cod. proc. civ. -sarebbero entrambi inammissibili, perché evidentemente tesi ad ottenere in questa sede un diverso e non consentito esame del merito. Altrettanto è da dire a proposito del settimo motivo, mentre l’ottavo sarebbe ugualmente inammissibile perché la decisione di riconvocare il c.t.u. a chiarimenti spetta al giudice di merito e non è censurabile in questa sede.
Il quinto motivo di ricorso sarebbe inammissibile in quanto privo di rilevanza, posto che la sentenza impugnata ha rilevato che la questione relativa all’esistenza o meno di un’impresa familiare era stata decisa dal giudice del lavoro con efficacia di giudicato, senza che il ricorrente censuri affatto quest’affermazione.
Il sesto motivo sarebbe parimenti inammissibile per mancanza di ogni prova della decisività della memoria di controparte di cui si contesta la presunta tardività.
11. Il ricorso, pertanto, è dichiarato improcedibile.
A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a regolare i compensi professionali.
Rileva la Corte, a questo proposito, che nel controricorso viene sollecitato il rimborso, a titolo di spese, della somma di euro 800; ma poiché si tratta di spese non documentate, tale rimborso non è ammesso.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 5.500, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza